venerdì 19 ottobre 2018

La caduta dell’America – cronache dell’altro mondo 12

La caduta dell’America – titolo di Allen Ginsberg, un poeta – è tema ricorrente negli ultimi settant’anni, da quando l’America stessa è diventata la potenza mondiale. Dapprima in contesa con l’Unione Sovietica, poi da sola. Prima di Trump, era motivo della presidenza Reagan, e prima ancora di Carter, di Nixon.
Come dire: l’America non ha cominciato a dominare il mondo che è già una potenza finita, se non sconfitta. Mentre tutti gli indici - come oggi usa dire in slang americano - del potere sono forti e anzi si rafforzano. La produzione, mai stata così piena e così in sviluppo, quella tradizionale e quella nuova e nuovissima, dell’Ict e dell’intelligenza artificiale. La ricerca, scientifica e applicata. Lo strapotere della finanza, in ogni angolo del mondo. La supremazia bellica, naturalmente, in fatto di arsenali e di tecnologie.
Di caduta, fine, fallimento, scoppio inducono a parlare forse i sensi di colpa puritani. Forse è un furbo (diplomatico) essere-non essere: come un distanziarsi, per meglio prendere le misure del mondo. L’impero americano appare retto come nelle guerre stellari. Da una centrale remota: l’America è con noi, imperversa, nelle grandi e le piccole questioni, ogni giorno, e ci determina, ma come da lontano. L’opinione pubblica made in America è aloof, fa mondo a sé. I media americani si parlano tra di loro, incontinenti, e quando trattano di qualcosa non americano è come di un mondo strano che ha poche ragioni di esistere – la Russia è la “Russia”, la Germania la “Germania”, che fa buone macchine, sì, ma, e le organizzazioni internazionali che pretendono di dire qualcosa di non americano? Anche la Cina, che pure è grande e potente, non conta. O la Corea del Nord – Corea del Nord? con quel bimbo al governo, capriccioso?


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