Come fu possibile? A ogni giorno della Memoria, per ricordare lo
sterminio degli ebrei, il mondo se lo chiede. E la Germania se lo chiede. Prendendosene
la colpa senza se e senza ma, come è giusto. Ma, curiosamente, senza farne la
storia. Non la storia dello sterminio in sé, la Soluzione Finale della
Questione Ebraica, quando e come fu deciso, chi e come lo ha organizzato, di
questo si sa probabilmente tutto. Ma non di come la Germania ci è arrivata.
La Germania ci è arrivata stremata, politicamente e
nell’opinione. Era la Germania e non lo era. Si è fatta molto la storia degli anni di Hitler, ma solo
politica: la politica economica, la politica di potenza, l’antisemitismo - Norimberga, la Notte dei
Cristalli, il Wannsee con la Endlōsung.
Ma come e perché la Germania vi si adagiò, “esecutrice volenterosa”, no. Mentre
sarebbe semplice: la Germania era in parte sfinita in parte soggiogata da sei-sette
anni di dominio nazista, di polizia dura e di lavaggio invasivo del cervello.
L’ultimo biografo di Hitler, lo storico Longerich, lo dice: “A
tutt’oggi, contrariamente a ciò che comunemente si crede, il nazionalsocialismo
è in nessun modo un capitolo chiuso; non c’è ancora una interpretazione
definitiva, proprio per nulla”. Ma
qualcosa si capisce mettendo assieme quello che si sa.
In Germania e Austria
mille lager (1004) erano aperti prima della decisione
dello sterminio. La prima dozzina era stata aperta la settimana successiva
all’accesso di Hitler alla cancelleria. Erano per gli oppositori politici. Per quelli
che decisero di non emigrare, e furono anche loro tanti, o non poterono. Centinaia
di migliaia di persone, forse milioni. Con molte migliaia di condannati a
morte.
Su questo presupposto si può anche capire che il l’opinione comune,
non impegnata politicamente ma non nazista e non antisemita, sia rimasta
inebetita e debole. Il tedesco-boia è una figura che storicamente non ha presa.
Neanche nei luoghi occupati militarmente dalla Germania dove una forte
Resistenza è maturata, a Creta come sulle Apuane: la figura del tedesco cattivo
non vi si accredita, c’erano i Kappler come c’erano i disertori, con molti
padri di famiglia, come in tutti gli eserciti, che solo pensavano a
sopravvivere.
Sì, il razzismo fu fertile in Germania. In nessun altro paese i
teorici del razzismo trovarono più ascolto che in Germania, dove convennero
tutti: l’inglese Stewart Houston Chamberlain e il francese Vacher de Lapouge i
più noti – entrambi darwinisti – ma non i soli. Molta pubblicistica razzista,
“ariana” o antisemita, era anche tedesca – molta a opera di ebrei, Pfefferkon,
Weininger, Trebitsch, Grossman, Rathenau, Scheler. Il “Mein Kampf” precede di
un decennio l’hitlerismo al potere. Ma gli ebrei stavano bene in Germania, non
isolati, non boicottati.
Hitler
violentò la Germania. È discutibile? Ma non se ne discute, la Germania accetta
la colpa, e basta. Che non si
faccia la storia della Resistenza in Germania, che fu la più ampia e la più
perseguitata in tutta l’Europa, allora più o meno fascistoide, questo è però un
problema nel problema. Il revisionismo sì, di Nolte, Hochhuth e molti altri, quelli che danno la colpa agli inglesi, ai polacchi, al papa, ai turchi, agli stessi ebrei, la
Resistenza no.
Si può pure dire che la Germania
resistette dodici anni a Hitler, fino al 1945. I tedeschi sono stati i più
forti oppositori al nazismo che l’Europa abbia avuto, convinti, numerosi,
rigorosi. Ma non se lo dicono, e forse non lo sanno più. La Germania del dopoguerra non ama la sua Resistenza. Non c’è
un giorno della liberazione. Non ci sono monumenti alle vittime politiche del
nazismo. Nemmeno piazze, nemmeno strade. Del 20 luglio 1944, il giorno dell’attentato
fallito per caso a Hitler, si parla poco, e soprattutto male – il conte Stauffenberg,
che lo organizzò, si è tentato di liquidarlo come un superficiale, un cretino. Ma
questa è la Germania Federale, che la nazione ha ridotto a business. Quella di Hitler
ci aveva provato, e arrivò alla guerra e allo sterminio sfinita.
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