Cesaretto – Lo storico locale di via
della Croce a Roma, che intrattenne a pranzo e cena alcune generazioni di letterati
e artisti, presieduto da Maccari e Rasi, è ricordato da Giovanni Russo in
dettaglio in “Flaianite”. L’antica fiaschetteria Beltramme, frequentata da
gente comune, artigiani, turisti e intellettuali, era stata ereditata dopo la
guerra da Cesaretto Guerra. Che la gestiva col figlio Luciano, la moglie Elena,
la cognata Crocetta, e il marito di questa, Rolando. Con garbo, prezzi modici e
cibo buono.
“Cesaretto” fu negli anni 1950-1960
anche l’altra parte del “Mondo”, quella che la sera non andava con Scalfari in
via Veneto, di Maccari e Flaiano appunto.
Dante – Era stato dimenticato nel Seicento.
Risorse progressivamente col romanticismo.
“Non fu Shakespeare”, lamentava De Sanctis
– a proposito dell’ “Inferno”, nella “Storia della letteratura italiana”:
“Queste grandi figure, là sul loro piedistallo, rigide ed epiche come statue,
attendono l’artista che le prenda per mano e le getti nel tumulto del vita e le
faccia esseri drammatici. E l’artista non fu un italiano: fu Shakespeare”.
“Dante non è un poeta moderno”, è la
tesi di Montale, “Dante ieri e oggi”, il discorso conclusivo del congresso per
il settimo centenario della nascita, 24 aprile 1965. Lo sentiamo vicino a noi
perché anche “noi non viviamo più in un’era moderna, ma in un nuovo medioevo”.
Non era un mistico, nota ancora Montale.
E dunque è un mistificatore, “un uomo che inventò se stesso come poeta sacro”?
Sì, “che non fosse un vero mistico e che gli sia mancato il totale assorbimento
nel Divino che è proprio dei veri mistici potrebbe suggerirlo il fatto che la Commedia non è la sua ultima scrittura e
ch’egli dovette pure, posto fine alla sua terza cantica, uscire dal labirinto e
tornare fra gli uomini”. E no, Montale fa sua “l’affermazione del Singleton che
il poema sacro fu dettato da Dio e il poeta non fu che uno scriba”. Perché “la
vera poesia” ha “sempre il carattere di un dono”, e presuppone “la dignità di
chi lo riceve”. Questo, Montale dice in conclusione, “è il maggiore insegnamento che Dante ci ha
lasciato” – non è il solo, “ma fra tutti è certo il maggiore”?
Tracciando in breve la fortuna di Dante,
Montale lo dice recuperato nel Sette-Ottocento nell’ambito di “una filosofia
totalmente terrestre che vede nell’uomo il padrone e addirittura il creatore di
se stesso”. In parallelo, bizzarramente, col “Dante esoterico”, volendo
“penetrare i misteri della sua allegoria”. Una deriva, che “ha almeno il merito
di avere affermato una grande verità: che Dante non è un poeta moderno”. Rovesciando però la prospettiva: “L’età di
mezzo” propriamente detta, quella di Dante, “non fu sprovveduta di scienza e
vuota d’arte”. Mentre ora – cinquant’anni fa – “se l’avvenire segnerà il pieno
trionfo della ragione tecnico-scientifica, il nuovo medioevo non sarebbe altro
che una nuova barbarie”.
Si potrebbe Montale dire profetico, se
il medio evo si segnala per l’assenza dei Dante. Ma allora non sarebbe Dante il
sigillo della modernità? Montale in realtà lo esclude dalla modernità “tecnico-scientifica”,
che assimilava a un “nuovo medioevo”.
Eusebio – Bobi Bazlen voleva da
Montale una poesia su “Eusebio”, uno degli pseudonimi con cui il compositore
Schumann firmava le sue cronache musicali – in alternativa a “Florestano”.
Montale non ne fu ispirato (altre poesie Bazlen gli ha proposto con più effetto,
la più celebre è quel la di “Dora Markus”), ma si tenne il nomignolo. Con gli
amici e anche in casa, con i familiari.
Filosofia – Va a sconto in libreria.
Bompiani, Laterza, Utet, offrono a sconto i “classici del pensiero”, e anche i
non classici. Una coincidenza di promozioni, o il pensiero è in svendita?
Gadda – Di forte sensibilità
storica. Nella mussolineide (“Eros e Priapo” e altri testi), come per i “Luigi
di Francia”, e più ancora per i contesti di tanti racconti, compreso il “Pasticciaccio”,
compresa “La cognizione del dolore”. Lo è anche nei diari di guerra, e probabilmente
nella stessa formazione, benché ingegneresca.
La passione denuncia a contrariis nell’appendice alla “Cognizione del dolore”.
Quando intraprende a spiegare la proposizione “barocco è il mondo”: la “Cognizione”
dicendo “una lettura consapevole … della scemenza del mondo o della bamboccesca
inanità della cosiddetta storia, che meglio potrebbe chiamarsi una farsa di
commedianti tutti cretini e diplomati somari. La storiografia, poi, che sarebbe
lo specchio, o il ritratto, o il ricupero mentale di codesta ‘storia’, adibisce
plerumque all’opera i due diletti
strumenti: il balbettio della la reticenza e la franca sintassi della menzogna….”
Latinisti – Sono - sono stati - più facilmente
comunisti? Riccardo De Benedetti, “La fenice di Marx”, lo rileva di Canfora e
Canali, come già d
Concetto Marchesi, della “diffusa persistenza di ‘comunisti’
tra i nostri latinisti di maggior prestigio”. Per una ragione opinando: “Forse
la loro professione fornisce quell’aura di classicità che di per sé la dottrina
comunista ha perso da ormai troppo tempo”.
Origini – Possono essere un limite,
e anche una costrizione, in letteratura e nell’espressione estetica-artistica
in genere. Quelle personali e quelle dei luoghi di origine. La Capria lo
lamenta della “napoletanità”, che limita,
e anche ferisce - “Il marchio inesorabile della napoletanità”, nella raccolta
“Il fallimento della consapevolezza”. Essere napoletani è essere condizionati
dalla risonanza del nome, ma Napoli è molte cose diverse: “Ci sono la Capria,
la Ortese. Ma La Capria e la Ortese sono diversi, come possono essere diversi
due scrittori di qualsiasi altra parte d’Italia”. Dove però non ci sono
etichette regionali: “Non si parla mai di «scrittore milanese», di
«scrittore torinese» o di «scrittore veneziano»”, lamenta ancora La Capria –
veniva da dire “lo scrittore napoletano”. La “geografia letteraria” di Dionisotti
non ha dunque senso?
Il ragionamento di La Capria è applicabile
ai siciliani. Anche loro vittime – o beneficiari? – della sicilitudine o
sicilianità. Benefciari anche, questo a La Capria è sfuggito: il marchio d’origine
può essere protettivo e promozionale, come tutti i marchi nobili – Capri, Portofino,
etc. non dovevano essere, non sono stati, preda, di corse al marchio di gran nome?
Ma,
intanto, più che chiamare in causa Dionisotti, la nuova geografia è vecchia. Ed
è di tipo leghista – anche quando la Lega non esisteva: si applica cioè al Sud.
Corrado Alvaro, lo scrittore più cosmopolita del Novecento, è sempre citato come
“lo scrittore calabrese”. Si applica al Sud in accezione buona: solo il Sud ha
spiccata personalità, geografica, di meridiani. E cattiva: la sua resta
letteratura regionale: “Il Gattopardo” non è “Guerra e pace”. In questo senso
ha ragiona La Capria.
Svevo – Fu “scoperto” in Italia,
venti o trenta anni dopo che aveva pubblicato “Una vita” e “Senilità”, via
Francia. Mandando “La coscienza di Zeno”, pubblicato nel 1923, cinque anni
prima della morte. Joyce consigliò di mandarlo a Benjamin Crémieux, l’italianista
di Parigi, che tre anni dopo ne accennò in termini molto positivi. La
presentazione di Crémiux incuriosì il “Corriere della sera”, e Svevo uscì dal limbo,
due anni prima della morte accidentale, per uno scontro in automobile.
Un anno prima di Crémieux, Montale ne
era stato lettore entusiasta, e ne aveva scritto, in un periodico letterario
milanese. Ma anche Montale era sconosciuto, aveva appena pubblicato “Ossi di
seppia”, a Torino con Gobetti.
Virgilio – “È l’Eneide una
celebrazione dell’Impero – o una critica?”, è la proposta di Daniel Mendelsohn
sul “New Yorker”. Dove spiega: “Mitologizzando
le origini troiane dell’Impero romano, Virgilio ha rivoltato una storia di
perdenti in un’epica di vincitori”. Che non è una novità, ma rivolta il senso
comune dell’operazione virgiliana – o augustea: gli imperi periscono, e
rinascono.
L’“Eneide” è anche all’origine della
mitologia della Grande Proletaria di Pascoli, del Novecento italiano – anche di
questo Millennio “gialloverde”, se sarà.
Un’altra considerazione è: poniamo che
“l’Espresso” ponesse lo steso quesito ai lettori italiani.
letterautore@antiit.eu
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