sabato 20 ottobre 2018

Letture - 362

letterautore


Ateismo – “Ad essere ateo non si richiede scienza”, Casanova, “Lana caprina”, 37 – “e però non è difficile che uno spensierato si appigli a divenirlo”.

Dante – Era tedesco anche per Stewart Houston Chamberlain, l’inglesotto che si fece famoso in Germania quale teorico del razzismo – contro gli ebrei ma poi contro tutti. Dante Chamberlain voleva tedesco per salvarlo dalla condanna degli Italiani, che faceva radicale. I Comuni e il Rinascimento erano opera dei Germani, e dunque Dante era germanico, non poteva essere altrimenti. L’Italia era stata salvata dalle tribù tedesche. Quando queste decaddero, le loro virtù annacquando nella palude italiana, l’Italia precipitò nella barbarie: violenta, ignorante, povera, e anzi sudicia, miserabile. Tra menzogna e miseria. Gli italiani senza l’apporto germanico erano solo una mescolanza, di geni inferiori. I popoli ctoni della penisola, gi schiavi africani e asiatici a carico dei quali avevano vissuto per secoli, durante l’impero – che nel suo zoccolo duro era germanico – e delle colonie militari assoldate nella aree più riposte d’Europa, Asia e Africa.

Emigrazione – Quella intellettuale va sempre a Est. Degli americani, del Nord e del Sud, verso l’Europa, Parigi, Londra, la Spagna, anche l’Italia. E degli europei, non molti, Hesse, Terzani e pochi altri, e americani – Ginsberg, Kerouac - verso l’Oriente che si crede mistico. Con un solo movimento inverso. Degli ebrei orientali, europeo-orientali, verso l’Ovest, specie verso gli Usa, molti di immigrazione recente, di prima o seconda generazione: Singer, Below, Malamud, Woody Allen, Paul Aster.
Dell’emigrazione non volontaria, però, prevale il movimento inverso. Un nutrito gruppo di scrittori africani e mediorientali ha scelto l’Italia – dopo il francese e l’inglese.  Dopo una scelta di vita, per fuggire condizioni difficili. Più cospicua e più radicata è la comunità letteraria americana di immigrazione forzata, per bisogno o con la violenza. Gli afroamericani, a partire da fine Ottocento, da  Booker T. Washington, W.E.DiBois, Marcus Garvey, e i tanti fino a Baldwin e Toni Morrison. Asiatici – Jumpha Lahiri è la sola che ha invertito il movimento, stabilendosi dagli Usa a Roma. Qualche italiano, Di Donato, Fante, De Lillo, Talese. 

Esilio – È la condizione di molti scrittori americani, ancorché volontario. Senza cioè essere una condanna. Né un limite, anzi è una forma, o un mezzo, di maturazione, una sorta di “via dell’Europa” come un ritorno alle origini. Un esilio volontario, e come un ritorno a casa. Si illustra con Henry James. E poi, nel primo Novecento, specie tra le due guerre, con una fiumana: T.S.Eliot, Pound, Hemingway, Fitzgerald, la lista è interminabile.

Giappone – Ha avuto anch’esso un momento di gloria nell’opera, a fine Ottocento, come tematiche e fondali, parte dell’esotismo asiatico che tanta opera lirica ha innescato. Non nella misura mediorientale, largamente prevalente

ma consistente: “La Princesse Jaune”, Saint-Saëns, 1872, “The Mikado of the Town of Titipu”, Gilbert & Sullivan, 1885, “Madame Chrysanthème”, André Messager, 1893, “The Geisha”, Sidney Jones, 1896. Fino a “Iris” di Mascagni, 1898, al Costanzi di Roma, e a “Madame Butterfly, di David Belasco, era stata rappresentata a Londra nel 1900, a cui Puccini aveva assistito, ma era opera di teatro.


Materialismo – “E siamo sfortunatamente in un secolo che il soverchio si presta a ogni occasione pronto a piegare al materialismo, e tal questione ne pute talmente che à moins de n’être ferré en glace: «Molto facile è il dare in ciampanelle”. A meno di non essere “fatto di ghiaccio”.
Casanova, (“Lana caprina”, 19), intendeva il secolo XVIII.

Meyerbeer - Si italianizzò il nome, da Jakob in Giacomo, nei dieci anni che trascorse in Italia, su consiglio di Salieri, per impratichirsi nell’opera, tra il 1815 e il 1826. Furono anni di grandi successi, anche se con opere poi dimenticate, lontane dal Grand opéra per cui è rimasto famoso, maturato poi a Parigi – “Les Huguenots”,  ripresa quest'’anno all’Opéra, “Robert le diable”, “L’Africaine”.
Ammiratore sempre di Rossini, che però qualche volta surclassò in fatto di successo, con le opere italiane. All’arrivo in Italia, a Venezia, assistette a una ripresa di “Tancredi” e si professò rossiniano. Scrisse in Italia, su libretto italiano, sei opere. “Romilda e Costanza”, 1817, semiseria, per il Teatro Nuovo di Padova, opera scritta di furia, in un solo mese, agevolata al debutto dalla voce del migliore contralto dell’epoca, Rosmunda Pisaroni – con riprese in mezza Europa.  “Semiramide riconosciuta”, dramma per musica, su un vecchio libretto di Metastasio (il trentatreesimo, ultimo, riutilizzo) – un successo che ispirerà probabilmente Rossini, con la su “Semiramide” quattro anni dopo sulla base della tragedia di Voltaire. “Emma di Resburgo”, 1819, “melodramma eroico”, il più grosso successo dell’epoca poi all’improvviso dimenticato, con 74 repliche al teatro San Benedetto di Venezia, e riprese in mezza Europa – l’ultima rappresentazione, prima dell’oblio, in contemporanea col successo del grand opéra di Meyerbeer alla francese a Parigi, dove si era spostato, sarà a Barcellona nel 1829. “Margherita d’Anjou”, semiseria, su libretto di Felice Romani, per la Scala: il successo europeo fu meno istantaneo della “Semiramide”, ma più duraturo, fino a tutto gli anni 1830. “L’esule di Granata”, opera seria, anch’essa su libretto di Romani  per la Scala, con un cast eccezionale, ancora Rosmunda Pisaroni e i migliori cantanti del momento, Adelaide Tosi, Carolina Bassi, Luigi Lablache – ma senza successo: Meyerbeer ne riutilizzerà le arie in altre composizioni, “Il crociato in Egitto”, melodramma eroico, 1824, ripetutamente rappresentato, il maggior successo in Italia, scritto per l’ultimo grane castrato, Giovan Battista Velluti.

Ovidio - Nicola Gardini lo dice “un alter ego di Dante”, a margine della mostra romana sul poeta. Per l’esilio, per la morte in esilio? Dante è troppe cose.

Pilato – È personaggio estravagante nei Vangeli, oggetto di molta ermeneutica. Specie nell’ebraismo. Ma anche nel laicismo, di Sciascia compreso, pur autore preciso, sulla scia di A. France. E innesco dell’incredulità, secondo dice Berni: “Odio Pilato, e nell’odiarlo eccedo:\ sono trent’anni che non vado a Messa,\ per non udirlo a nominar nel Credo”.

Russi – Li teme anche Ian McEwan. Nella celebrazione vicendevole con Baricco domenica sul “Robinson” di “la Repubblica”, i suoi russi hanno provocato la Brexit, nientedimeno, questa “muraglia contro il mondo”. E non è finita: “Probabilmente la prossima guerra sarà con la Russia., che ha come unico obiettivo la distruzione dell’Unione Europea”. Vincente: “Saremo in grado di resistere? A me pare che i potenti russi siano bravissimi a giocare al Game”. Non è la sola agudeza  della conversazione, ma anche McEwan, come G.Greene, si glorierà un giorno di essere una spia? 

Self-fashioning – Fa la politica, il carisma cerando o catturando attraverso la rappreenteazione di se stessi? L’automodellazione, il neologismo coniato da Stephen Greenblatt nel 1980, “Renaissance Self-Fashioning”, a sua volta una rimodellazione del cinquecentesco “Cortegiano”, il manuale di Baldassarre Castiglione, verrebbe utile per analizzare molta politica – quindi molta storia. Nell’epoca dei selfie, ma anche prima. Hans Rudolph Vaget, il germanista ceco che ha professato nelle università americane, specialista di Goethe, Wagner e Thomas Mann, trova la categoria decisiva per molte carriere politiche – ne fa elaborata spiegazione nel saggio “How Hitler became «Hitler»”, ma la notazione è di agevole riscontro nella cronaca. 

Tedeschi – Già Jean Paul, prima di Jünger, voleva mandarli a scuola di disinvoltura. Voleva che facessero pratica nei club inglesi, o nei bureaux d’esprits parigini, per apprendervi la conversazione, e l’arte di porgere. “Ogni tedesco trascorre anni infuriato per essere costretto ad aggiornarsi sulle regole della vita mondana”., scrive in una digressione nel saggetto “La fortuna di essere sordo dall’orecchio sinistro” (tradotto nella piccola raccolta “L’arte di prendere sonno”). Jean Paul voleva che i tedeschi imparassero “a parlare in modo vivo una lingua viva”.

letterautore@antiit.eu

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