L’esordio è esilarante: una cosmogonia completa, persuasiva, buona per ogni
fede e ogni miscredenza, in poche righe: “A cosa corrisponde per me la parola
«natura»? A una forza e a un respiro grandiosi, a un vento senza origine, a un
ritmo senza riposo, come quello del mare, a una corrente fantastica,
incomprensibile, di cui a ciascuno di noi non è dato scorgere che un
punto, quello dove si affaccia, per subito sparire, il suo «io», o
qualcosa di ugualmente inesplicabile”.
Sul fondamento di una gnoseologia inappellabile. “La Terra, e l’Universo,
e le loro leggi segretissime e comportamenti di ogni genere, NON
CONOSCONO L’UOMO, e l’uomo – davanti a queste cose – è solo”. Negli spazi
cosmici, poi, la terra, questo gioiellino, non è neppure sognata, non esiste,
per quest’altra ragione: che non vi sono occhiali, nell’universo, capaci di
vederlo – l’uomo”. Da qui la deiezione degli animali e degli esseri inanimati:
l’uomo si è fatto inumano nell’inumano universo.
Una proposizione del mondo, e degli uomini nel mondo, vertiginosa. Non a
caso si è conquistata una pagina di “Tuttolibri”, il numero del12 febbraio
1984, punto focale di una rassegna di scrittori sul rapporto con la natura.
Le Piccole Persone sono gli animali. La raccolta è una sorta di edizione
critica, col recupero di alcuni (pochi) testi già pubblicati, e altri più
numerosi del lascito che si presumono inediti, sui temi dell’ecologia, che
Ortese ha anticipato di decenni. Della compassione universale, estesa agli
animali e alle cose, e della protezione. Testi tutti nuovi rispetto alle due
maggiori bibliografie esistenti di Anna Maria Ortese, quella curate da Luca
Clerici e quella di Giuseppe Iannaccone.
Angela Borghesi, che ha compilato il volume sulle carte della scritrice
all’Archivio di Stato di Napoli, la completa con note ai singoli testi, e con
un saggio, “Dio nelle ciliege”, recuperato da “la realtà del Dio che abita
nelle ciliege” (“Io credo in questo”, p. 42), che situa Ortese caratterialmente
e stilisticamente (con un incongruo accostamento a Mahler, al Maher di Bernstein
- molto resta da scoprire ancora di Ortese). Centrato sull’animalismo della
scrittrice, esemplato su una lettera da lei indirizzata a Ceronetti l’8
febbraio 1983. Ma la sensibilità è preesistente, già degli anni 1940. Da
sensitiva del dolore universale, e più degli animaletti indifesi, formiche,
farfalle, lucertole, pipistrelli, il sorcio in bocca al gatto, da sempre. In un
articolo per “Il Mattino”, l’8 novembre 1950, già scriveva: “Io ero al
corrente, come pochi individui, del terrore che anima quelle deboli creature
allorché vengono catturate”.
Heideggeriana senza saperlo, cioè più profondamente - “autenticamente” nel gergo del Mago (Boghesi
ne sottolinea il rapporto con Simone Weil, in una prospettiva sororale, unitamente
con Elsa Morante, della “pésanteur”
riletta accortamente come “forza di gravità”, in un breve scritto intitolato “Libertà”):
“L’universo
degli oggetti si è costituito come – da principio dichiaratamente –
universo spirituale”. Per la rivoluzione industriale, “chiaramente una
catastrofe”, che ha oscurato “la luce dei miti”, quel poco che “«illuminavano»”
ieri, “nelle età cosiddette d’oro”.
Visionaria a volte, di linguaggio biblico, ma argomentata. A volte la
natura già deprecata diventa bella-e-buona per sé, anche il pastore tedesco Ray
che a Capocotta ha sbranato il bambino che custodiva. Ma ragionevole,
ecologista non anti-umanista, le invettive alternando alle “reverenze”:
“L’animale-uomo ha compiuto cose che la natura che lo ha partorito
ignora e subisce”. E “nessuno degli animali che conosciamo ha affermato il
principio della pietà, come l’animale–uomo. La natura conosce soltanto il
principio dell’amore in quanto partecipazione di un godimento, e di fronte al
dolore ritorna indietro. Ma per l’uomo non esistono limiti, e anche il dolore e
la morte egli ha superato con la pietà e la speranza”.
Al terzo “pezzo” della raccolta, “Uomini e cose” (“Corriere di Napoli, 3-4
settembre 1951) , Ortese sale ancora di un gradino. Concludendo a un’altra
evoluzione, intelligente, comunque consapevole, per lo “spirito” che anima
l’uomo. Per l’intelligenza della evoluzione stessa. Non c’è altro essere
nemmeno lontanamente altrettanto inventivo, costruttivo. “Su una speranza
ignota a qualsiasi altro essere vivente”. E non è tutto. “Luoghi e cose” sono
“una possibilità”, “in cui la ragione meccanica non abbia più parte, così come
tutte le lampade diventano invisibili, anche se nessuna mano le spegne,
all’apparire meraviglioso del giorno”.
Una scrittrice pasoliniana, con gli stessi slanci e furori. Senza lo
scandalo. E con capacità autocritica: “Il mio carattere è cattivo, non è buono,
non è tenero, e subito, quando incontro presunzione e vigliaccheria che entrano
come padroni nel territorio dell’innocenza e della debolezza, vorrei prendere
le armi, vorrei prendere una scimitarra, e far cadere delle teste infette”. Ma ugualmente
inerme – “”ma mi trasformerei in uno di loro”, i presuntuosi, “e dunque, via il
desiderio”. delle armi. E con la stessa capacità critica e profetica.
Emarginata probabilmente perché non “in linea” con la “cultura” della Prima
Repubblica.
Un altro pezzo del secondo Novecento che riemerge consistente, dopo il
crollo della Grande Bonaccia co(mi)nformista. Il Bel Paese che ha perso la
facoltà di ammirare potrebbe essere stato scritto adesso. Un testo
“storico” sulla non-identità dell’italiano, scritto per il “Corriere della
sera” il 19 maggio 1970, in anteprima di vent’anni sul leghismo, avrebbe potuto
firmarlo Pasolini - e questo è inquietante.
Anna Maria Ortese, Le Piccole Persone, Adelphi, pp. 271 € 14
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