Classico - Classico sta per
misurato. Ma la misura è non inventare la realtà, pur inventando. I classici,
ha scoperto Tocqueville in America, sono aristocratici: scrivono per pochi, di
temi scelti, e curano i particolari. Con opere peraltro non “irreprensibili”,
poiché “ci sostengono dalla parte verso cui propendiamo”. Ogni testo non ha
sostanza se non mutevole, compresa “la famiglia confusissima e zingaresca dei
codici di Platone”, avrebbe detto il non citabile grecista Coppola,
fascistissimo, ma il fatto è quello, già al tempo di Petrarca.
L’“Enciclopedia”,
che fa il nostro mondo, è quella dello stampatore Le Breton. Che tagliava e
cuciva per sue esigenze d’impaginazione, risparmio, legalità. Diderot lo scoprì
un giorno che volle leggere in bozze un suo articolo della lettera S. Non protestò
per non figurare responsabile dell’opera. Ma non protestarono neanche gli altri
autori. E i classici iperdistillati non sono passati per schiere di copisti
incolti, burloni, ebri? Sono classici per l’autorità di un grammatico oscuro,
quali cose appartenenti alla prima classe dei cittadini, fra le cinque in cui
l’ordinamento timocratico, in base al patrimonio fondiario, di Servio Tullio
aveva diviso i romani. Dei latifondisti, insomma. La narrazione no, ha vita propria. Ma in orizzontale. Una tessitura
larga, piana, visibile. Non la storia che fa avanti e indietro, la freccia, ma
un prato.
Filosofia
tedesca –
È stata, è, francese. Da un secolo in qua – ma forse già da Nietzsche. Poco
frequentata in Germania. Riccardo De Benedetti lo rileva di Marx, del comunismo
–“La fenice di Marx”: “Occorrerebbe studiare approfonditamente il significato
di questa riprovincializzazione di una
visione così profondamente tedesca”. Ma è più vero del Novecento, da Schmitt a
Jünger e Heidegger. E poi, con particolare intensità, nel post-comunismo, da
Derrida a Nancy e Badiou.
Io – Si è allargato
da Freud ai social e al culto dei selfie,
in parallelo con l’impersonalità di ogni relazione. Anche quella di coppia sempre
più si riduce all’ananke, ale cose da
fare, e al dare e avere, sessuale, economico, parentale.
Si
acuisce il culto romantico, ipertrofico, di una interiorità antidoto al mondo coltivando
l’evasione in realtà. Nel sogno e nella memoria. In reazione all’illuminismo e
al ragionevole Kant, si suole dire. Ma piuttosto invece come loro sviluppo, l’applicazione
della ragione all’insondabile, opera di Nietzsche, di Freud, di Heidegger.Un culto
del sé che non può non approdare nel nulla – pur rifiutando,
caratteristicamente, il conseguente annullamento del sé, l’annientamento
fermando all’annientamento di sé, il pensante.
Ciò
produce molta letteratura, due secoli già abbondanti, un realismo fantastico. Di incubi che
diventano sogni, e viceversa, del dolore che attenta a ogni gioia, e viceversa,
una ricerca incessante, nuovissima, della felicità che immancabile finisce in
angoscia. Insomma il trattamento psicoanalitico: l’Io finisce sul lettino.
Paesaggio – È
“in assoluto la migliore altalena e culla del nostro vivere inquieto”, Jean
Paul, “L’arte di prender sonno”, 26. In quanto è creato “con facilità
dall’animo umano, che ha più occhi che orecchi”. In più, a differenza del
consorzio umano, i paesaggi hanno un vantaggio: “Non fanno correre il rischio
di futuri subitanei risvegli perché disertati dagli uomini”. Per questo il
paesaggio si dice riposante, anche quando è tenebroso e tempestoso?
Realismo
–
In qualche modo c’è, va recuperato. Si rischia altrimenti di camminare sulla
testa come il poeta Lenz di Büchner. Piegando la realtà e la storia a paranoie
evidenti e incessanti, avendo creato forme ideali che sono formule.
L’idealismo viene con la poesia prima
che con la filosofia, il suo errore è per questo pervicace. È difficile provare
che è un errore, poiché si tratta d’un impulso e una passione. I poeti che
pretendono di andare al fondo della realtà non ne hanno idea, di solito, e
tuttavia sono indelebili, con la loro realtà. Non sono maschere e non fanno
trucchi, sono uomini adulti, senza più quindi il realismo degli infanti. Ma il
loro idealismo, ancorché rovesciato in materialismo, è sbagliato, e se non è
consolazione va rigettato, è una serie di furfanterie. Dio ha creato il mondo,
e come si può pretendere di saperne di più? Volendo nutrire aspirazioni, queste
dovrebbero portare a imitare il mondo, in qualche modo e misura. Insomma a non
strafare, sapendo di che si parla.
Il realismo non è male, da Roscellino a
Kant, che pure ci vedeva da un occhio solo. “Ovunque io esigo vita”, dice Lenz
al buon pastore Oberlin, “possibilità di esistenza, e questo basta”.
L’idealismo, Lenz dice pure, “è il disprezzo della natura umana”. È i fianchi
grassi che lo struzzo vuole esibire, per questo s’è inventato di sotterrare la
testa. Ma, affannato, Jacob Michael Reinhold Lenz si fa opporre dallo svizzero
Kaufmann, pietista idealista, che l’Apollo del Belvedere non c’è in natura, né
la Madonna di Raffaello. Fa anzi peggio, concorda con l’idealista che i
fiamminghi sono idealisti e gli italiani no, uno dei luoghi comuni più vieti.
Ma continua a guardare le persone in viso. Che è il modo di comunicare più
pieno, e creativo.
Si può presumere di sé, anche esagerare.
Ma non al modo di Stendhal-Brulard, inventandosi. E questo per l’estetica prima
che per la morale. Il realismo serve alla bellezza, a trovarla e beneficiarne,
non c’è una vera poesia idealista. “Le immagini più belle, le note più turgide
e canore, si raggruppano e si dissolvono”, Lenz lo spiega bene. Una cosa sola
rimane: una bellezza infinita, che passa da una forma all’altra, eternamente
dischiusa, immutata. Bisogna amare l’umanità, per penetrare nell’essenza di
ciascuno”. Il realismo serve a vivere, e a godere. “Non sta a noi dire se la
creazione sia bella o brutta. La certezza che quanto è stato creato ha vita
viene prima di questo giudizio, ed è il solo criterio nelle cose d’arte”.
Il
realismo aiuta a scrivere, non c’è idealità nella scrittura, anche se ai
classici si dà questo privilegio. La scrittura nomina le cose, dice bene
Roscellino, ma non deve esagerare, la retorica non ha censore peggiore dei suoi
eccessi.
Il realismo serve alla verità. Bisogna
essere per la “morale della storia”, anche solo perché la storia approdi a
negare se stessa: le guerre, i massacri e i processi. E, bisogna aggiungere, le
sciocchezze.
Storia – Si tende a
escluderne o a irriderne una filosofia. Mentre non se ne fa di altre, solo
filosofia politica. Perenta è la logica, epistemologia compresa. La metafisica
non sa dove sbattere. L’etica e l’estetica vanno sotto tono (eccetto che nei
talk-show) – perfino nelle chiese e tra gli artisti. Tutto è politica.
La storia non è una macchina calcolatrice,
si dispiega nell’immaginazione, e prende corpo in risposte multiformi.
Gli storici hanno le loro colpe. L’umanità
si muove in modo continuo, anche se vario, mentre per capire le leggi del suo
moto gli storici usano unità arbitrarie, discontinue: epoche, stadi, periodi,
percorsi. E così, conclude Tolstòj, “ogni deduzione della storia si dissolve
come polvere”. È come se si volesse coprire con la storia la realtà: si fanno
appelli, s’invocano leggi, si creano fatalità. Si può sperare di capire le leggi
della storia “solo ammettendo all’osservazione unità infinitesimali, il
differenziale della storia, le inclinazioni omogenee degli uomini”, concede il
conte. Che però ammonisce: “La stranezza e comicità della nuova storia è
l’essere simile a un uomo sordo che risponda a domande che nessuno gli fa”.
Ogni storia è nuova, ma è nota.
zeulig@antiit.eu
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