La rilevazione Istat della povertà assoluta si muove su un trend ancora
in aumento, più vicino ai 6 che ai 5 milioni di fine 2017, e al 10 per cento della
popolazione, invece dell’8,4 della rilevazione di metà anno. Dall’inizio della
rilevazione, nel 2005, il dato non ha fatto che crescere, ma più dopo il
secondo shock dell’economia, nel 2011, dopo quello del 2008: l’Italia non ha
assorbito la crisi, i cui effetti anzi perdurano.
Corollario alla crescita della povertà assoluta sono il disagio sempre maggiore
dei redditi medio-bassi – il nucleo centrale dei redditi - e il gap generazionale.
Qui vale ancora la diagnosi della Relazione annuale della Banca d’Italia di
fine maggio, che non ha avuto eco, benché molto allarmata – la perdita di
reddito, in termini reali, è valutata sul 25 per cento. Inoltre, stanno relativamente
meglio i pensionati dei salariati in attività
Meglio pensionati che
in attività
Vale la pena rileggere la Relazione annuale su questo punto:
“La crisi economica ha lasciato un’eredità
pesante alle famiglie italiane, ma assai differenziata tra le diverse
generazioni. Tra il 2006 e il 2016 il reddito equivalente reale si è ridotto
del 20,9 per cento per le persone che vivono in nuclei “giovani”, ossia quelli
con capofamiglia con meno di 40 anni; è invece aumentato dell’1,6 per cento per
le persone appartenenti a famiglie “anziane” (quelle il cui capofamiglia ha più
di 65 anni. Queste ultime nel 2006 percepivano il reddito equivalente più basso
nel confronto fra generazioni, mentre nel 2016 sono state tra quelle con il
reddito più alto. Anche il rischio di povertà, che nel 2006 era su livelli
simili per i due tipi di famiglie, negli ultimi dieci
anni è cresciuto per le persone appartenenti ai nuclei giovani, risultando nel
2016 circa il doppio del rischio in cui incorrono coloro che vivono in famiglie
anziane (al 32,5 e al 15,7 per cento, rispettivamente.
“Tali sviluppi riflettono la maggiore ciclicità dei
redditi da lavoro rispetto a quelli da pensione, nonché il tendenziale aumento
tra le famiglie giovani del peso degli stranieri, mediamente connotati da
livelli reddituali inferiori. Vi avrebbero contribuito inoltre le
caratteristiche del welfare italiano, storicamente più generoso sul piano
previdenziale e meno nel sostegno alle famiglie in difficoltà economica. Solo
di recente si è iniziato a discutere circa l’introduzione di strumenti di
integrazione al reddito delle famiglie povere: una prima misura, denominata Reddito
di inclusione (REI), è stata prevista dal D.lgs. 147/2017 ed è divenuta
operativa dal gennaio 2018.
Più disuguaglianza
“All’interno delle singole generazioni è aumentata la
dispersione dei redditi equivalenti, soprattutto tra le famiglie giovani. È
possibile valutare come le diverse dinamiche tra classi di età, in termini di
reddito medio e di dispersione, abbiano influito sull’andamento complessivo
della disuguaglianza. A tal fine si può scomporre la deviazione logaritmica
media dei redditi in due parti: una attribuibile alla differenza nella
dispersione dei redditi medi tra famiglie giovani e anziane, l’altra legata
alla varianza interna a ciascun gruppo. Quest’ultima componente spiega gran
parte dell’incremento della disuguaglianza complessiva, che nel decennio
2006-2016 è cresciuta del 22,0 per cento.
“L’aumento della disuguaglianza è stato parzialmente
attenuato dai mutamenti intervenuti nella struttura per età della popolazione.
Nel decennio sopra considerato infatti la quota di individui che vivevano in
nuclei giovani si è ridotta di dieci punti percentuali, mentre è aumentata di
circa cinque punti quella di coloro che facevano parte di famiglie anziane.
Tali andamenti hanno risentito sia dell’invecchiamento della popolazione, sia
del rinvio, probabilmente influenzato dalla crisi economica, nella formazione
di nuovi nuclei familiari da parte dei più giovani. Annullando tali variazioni
– ossia tenendo fissa al 2006 l’incidenza delle diverse classi di età rispetto
al totale della popolazione – l’aumento della disuguaglianza sarebbe stato
superiore (pari al 25,0 per cento)”.
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