Un film parlato, su poche
scene, una dozzina. Per tre ore. Ma simpatico.
Un giovane scrittore torna a
casa, a Čanakkale, sul mar di Marmara, dopo la laurea in Formazione, a caccia
di qualche sussidio (fondi pubblici, promozione) per pubblicare un libro, il
suo primo, “Il peso selvatico”. Farà il maestro, come il padre? Magari nella
Turchia profonda, a Nord-Est? Probabilmente sì, anche in Turchia “non c’è
lavoro”, il discorso è sempre quello. Magari dopo aver fatto il servizio
militare, una fugace inquadratura nella neve del Curdistan. Il concorso
comunque lo fa.
Insomma, un film di niente.
Il padre ha due problemi: gioca, ha perso tutto, lo stipendio non basta per
pagare i creditori al mercato né la luce elettrica; e scava un pozzo dove non
c’è acqua. Ma non è quest il tema, non c’è dramma, il il ritorno è un’occasione
per lunghe conversazioni, inquadrature quasi fisse. Col padre, e con la madre,
i nonni, gli amici, chi passa il tempo giocando a carte al bar, chi fa studi
religiosi, un’amica di liceo, che sposerà uno che non ama ma ha una
professione, il sindaco, l’imprenditore. Tutti ben caratterizzati.
Lo charme è forse questo, dei caratteristi di cui si è perduta la
traccia, gli attori “non-attori” - cioè attori al quadrato – dalla recitazione
“non-recitazione”. Compreso il protagonista, che qui campeggia in tutte le
scene, quindi per tre ore e passa, senza stancare, di cui basta l’andatura, da
cavallo stanco. Tre ore di come vorremmo essere.
Nuri Bilge Ceylan, L’albero dei frutti selvatici
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