mercoledì 7 novembre 2018

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (380)

Giuseppe Leuzzi

Sagra del linciaggio sui poveri palermitani assassinati dall’acqua: la casa in cui festeggiavano era abusiva. Sono morti in troppi, anche bambini, ma nessuna pietà. Nemmeno per un giorno. La prima notizia, prima della morte, è la speculazione – se sono morti è per colpa loro.
Fra i “belli-e-buoni” della virtù edilizia si segnala a Milano il “Corriere della sera”, che in prima pagina più che la tragedia monta lo sdegno. Col corredo di Gian Antonio Stella, il leghista senza maschera, prima firma del giornale.

La scoperta che rivoluziona la storia della navigazione nel Mediterraneo, e cioè la storia del Mediterraneo,
è opera a Marettimo nelle Egadi di una guida alpina della Valtellina, Jacopo Merizzi.
Non è la prima. Già nel 2003 Merizzi, insieme con Franco Brevini, lo scrittore milanese, aveva fatto  a Marettimo ritrovamenti importanti, di resti quella volta archeologici, un serie di cocci delle guere puniche.
Merizzi si è imbattuto nelle ossa di cervo e nei resti di cibo mentre tracciava un sentiero di trekking, incaricato dall’ente parco. Troppa fatica per un isolano.
La scoperta del Sud per i meridionali è tema affascinante, e terribile.

“A Milano hanno cominciato ad aggirarsi per la strada studenti, uomini in abito da lavoro e ragazze cool a bordo di monopattini elettrici, diventati subito l’oggetto del desiderio grazie al passaparola dei social network. Ce ne sono in tutto una ventina” – “Corriere della sera”. Sempre Milano si celebra nei suoi giornali, anche se c’è solo da vendere qualche monopattino più.

L’origine del Sud
La Nobel Toni Morrison, che ha vissuto in America il pregiudizio razziale, contro gli afroamericani, si chiede in “The origin of Others”, “L’origine di Altri”, come si arriva alla differenza. Per razzismo? Troppo semplice ribattere, anche l’uomo della folla lo sa, va in chiesa pure lui. “La razza è la classificazione di una specie, e noi siamo la razza umana, punto”. Dopodiché resta da spiegare il bisogno di ostracizzare, di creare il diverso: “Che cos’è quest’altra cosa – l’ostilità, il razzismo sociale, l’Altrismo (Othering, creazione dell’Altro)?” Un bisogno impellente, e gratificante. “Quale è la natura del conforto nell’Altrismo”, si chiede la scrittrice, “il fascino, il suo potere (sociale, psicologico o economico)?” La risposta è ovvia: “È il brivido, dell’appartenenza – che implica essere parte di qualcosa di più grande che il proprio sé solitario, e quindi più forte?” Ma per un motivo non  scontato: “La mia prima risposta va verso un bisogno socio-psicologico di un “estraneo”, un Altro, al fine di definire l’io estraniato (l’uomo della fola è sempre l’uomo solo)”.
Un curioso ma importante meccanismo di identificazione. Che a tutti gli effetti, a una prima riflessione, appare il modulo di “creazione del Sud”. Più di quello economico. O non più, dopo la spoliazione postunitaria, e l’esercito di riserva postbellico. È il meccanismo mentale del leghismo.

Napoli
La Napoli “nobilissima” di Paolo Macry, storico regnicolo, venendo dall’Abruzzo (“Napoli. Nostalgia di un domani”), è  nell’assetto monarchico, delle vecchie monarchie, del re - nella Repubblica il sindaco, Lauro, Bassolino, De Magistris - e il suo popolo. Questo è vero, ma è inquietante e non rassicurante. Perché in una città industriale all’ennesima potenza, essendo la captale della “copia” (il falso richiede una moltiplicazione delle energie, per adattamento, produzione, distribuzione, e latitanza, triplice, alla Guardia di Finanza, all’Inps e ai Carabinieri), manca il ceto medio, la borghesia, l’imprenditoria come classe, classe dirigente. L’ossatura di una società civile. Tutti signori a Napoli, anche in epoca ormai da qualche secolo borghese, quelli che hanno e potrebbero fare. Particolarmente carente nella finanza – la città non ha più nemmeno una banca. Forte nell’opinione, cioè nelle chiacchiere (critiche). Ma omissiva, malgrado l’ostensione, retrattile, nascosta.
Si può prendere Napoli, la storia di Napoli, dal punto di vista storico, in controluce con il “corso della storia”, la storia prevalente, la storia di tutti. Comparativamente, si ferma a prima della rivoluzione industriale. Della seconda rivoluzione, quella dell’elettricità, la chimica, il petrolio, e della società borghese. Che combacia con la sua fine come capitale e la sua associazione al regno remoto d’Italia. È Londra di Dickens, metà Ottocento. Della quale mantiene l’ingegnosità e la versatilità che hanno incuriosito il filosofo Sohn-Rethel (“Das Ideal des Kaputten”). Ma non è entrata nella logica dei monopoli: dell’accumulo e della crescita. Non si organizza, non si struttura, non si dà un programma – promozione, immagine, marketing. Ha belle case e belle menti. Ha principi e caporioni, ma non ha la borghesia, non ha ceto medio construens. Non conosce rappresentanza, non riconosce istituzioni, è in una forma di anarchismo acefalo, menefreghista. Una macchina che si riproduce, senza pensiero – di mutare, rinnovarsi, migliorarsi. Rassegnata, per quanto si dica battagliera.
Il “miracolo di Napoli è di essere rimasta uguale a se stessa, probabilmente da un millennio. Tra rivolte e rivoluzioni come sbocchi d’ira, segnando il passo. È vecchio e inalterabile il leguleismo, in tribunale e fuori. Lo sbirrismo. Il lamento – vittimismo. Lo scherno, anche violento – la Napoli di Boccaccio, senza la grazia. L’inumanità, comune a ogni ambiente metropolitano. È vecchio il popolo, che coltiva i sui vezzi - la napoletanità. È immutabile la napoletanità, per quanto critica, col lamento, il disordine, la povertà. Altrove la povertà si circoscrive (si combatte), a Napoli no - cioè, sembra di no, ma e come se lo facesse.

Alessandro Gassman rifà “Fronte del porto” a teatro, a Napoli, con i portuali napoletani che fronteggiano la camorra. Niente di più plausibile, l’operaismo a Napoli ha tradizione forte, prima che in altre città. Ma ci sono ancora portuali a Napoli? E ci sarebbe partita, la camorra non ha già vinto – sempre, subito, comunque.

È città senza regole. Ma la non regola è una regola. Più efficace di una città, per esempio Roma, dove una metà sa che ci sono le regole e le segue e l’altra metà no: ne nascono incidenti. Ci sono più vittime sulle strisce pedonali a Roma che nella sregolatissima Napoli.

Rosso fresco. È un colore napoletano del semaforo. Non c’è sullo strumento, che è verde, gialo e rosso come ovunque. Ma si sa che c’è: è quel momento di attesa per cui non si parte immediatamente al verde. Chi si trova bloccato dal rosso mentre tenta di forzare il giallo dà un’ultima accelerata. È un’economia del tempo.

È capitale, di molti secoli, decaduta. La decadenza non è un fenomeno indolore, provoca e trascina rovine.

È un simbolo e un mito la signora che in treno confronta dura un giovane che si dichiara Hitler e insulta un onesto lavoratore pakistano. Cose altrove di normale amministrazione, ci sono disadattati, anche giovani, dappertutto. Napoli non ha di meglio?

Non si può negare che Napoli era una capitale, piena di risorse, soprattutto umane, e ora è una città spazzatura. Questo sfugge anche ai neo borbonici – neo napoletanissimi anche loro, della lagna e absta?

Non è fake – una napoletanata - la coda alla Circumvesuviana, aspettando il “fesso” che paga il biglietto per accodarsi e passare il tornello. Ma riguarda solo le persone in età o con la gonna, gli altri il tornello lo saltano atleticamente. Si dice: non c’è coscienza civile. No, è il poliziotto inteso come sbirro. Un agente che semplicemente faccia rispettare la legge non è concepibile in città.  

“Cieli piovete, diluviate, giustizia” – Isaia. Ce ne vorrebbe uno per la capitale del diritto: di processi fasulli, parola giustamente napoletana, da Tortora alla Juventus e a Renzi, con danni incalcolabili per tutti, Napoli compresa.
Una borghesia c’è, ma professionale, quella del diritto. Ma è parte in causa dello sfacelo, se non ne è il motore.      
Giudici che si incontrano in gran numero in trasferta, a Milano, Torino, e purtroppo anche in Calabria, pervicaci e onorati, anzi una bandiera.

“Na mano lava ‘nad”, una mano lava l’altra, ricorda il protagonista di Philip Roth, “Pastorale americana” che suo padre diceva nelle famiglie italiane, napoletane, dove aveva dato da lavorare i guanti che commerciava, “completando col gesto della mano il suo repertorio di una sola frase completa, in napoletano”. Non l’esatta pronuncia ma il linguaggio sì, il gesto e la considerazione.
“C’erano otto, dieci, dodici famiglie di immigrati”, ricorda con Roth il protagonista del loro quartiere a Newark, “gente di Napoli che erano stati guantai al loro paese. Il vecchio nonno o il padre faceva il taglio sul tavolo della cucina, col righello, le forbici, e il sarchiello (un coltello senza taglio, n.d.r.) che si è portato dall’Italia. La nonna o la madre faceva la cucitura, e le figlie la messa in opera – lo stiratura – al modo antico, col ferro da stiro scaldato in un contenitore posto sopra la stufa ricurva della cucina”.
Il protagonista-Roth ricorda in particolare un pio di guanti “tagliato dal più vecchio degli artigiani napoletani”. Un ricordo dell’infanzia, con se stesso seduto sulle ginocchia del padre, “e davanti a loro un maestro di taglio che si diceva avesse cento anni e avesse fatto i guanti per la regina d’Italia”, che stendeva i resti di una pelle per ricavarne altre pezze da guanti. Col commento del nonno: “Guarda quello che fa. Stai guardando un genio e stai guardando un artista. Il tagliatore italiano, figlio, è sempre più artistico nella sua visione delle cose. E questo è il maestro di tutti”.

leuzzi@antiit.eu

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