La
caduta dell’America, oltre che tema periodico dell pax americana, è titolo di Allen Ginsberg, un poeta. Dunque si ripubblica perché
il ciclo storico si vuole con Trump alla rovina – la terza o quarta in mezzo
secolo. Forse anche perché è il monumento che Ginsberg voleva eretto a se
stesso. Ma niente si salva – la rilettura della rilettura, un anno e mezzo fa
su questo sito, non aiuta: i cinquemila versi scorrono come acqua.
È un bel libro, impreziosito dall’originale. È anche una memoria grata,
degli anni roventi, come bisogna dire, che preparavano il 1968 – che negli Usa
fu il 1967: vagabondaggi mitici, sul mitico Volkswagen, tra mitiche sbronze,
mitiche fumate, parlando al mitico registratore Uher, regalato dal mitico
Bob Dylan. Un rifacimento in versi di Kerouac, “Sulla strada”, 1957, e un
anticipo di “Easy Rider”, di Peter Fonda e Dennis Hopper, 1969, ma stinto.
Di caduta, fine, fallimento, scoppio inducono a parlare forse i sensi di
colpa puritani. Forse, in politica o diplomazia, un furbo essere-non essere. Ma
è genere che non emoziona. A parte il fatto che non si vede dove, né come.
Inerti pure il sesso e il Budda, temi più propriamente ginsberghiani, altrove
vivi.
Si stenta a fare l’estratto di Ginsberg, chi è stato e cosa ha fatto. Per
lui in senso inverso a Pasolini, che ne fu presto la copia, di vita e di
programma: di Pasolini si presume troppo, di Ginsberg niente. Senza peraltro
“stringere” niente, o poco più, neppure nel caso di Pasolini dietro il culto.
Mentre entrambi ci guadagnerebbero a essere riportati fuori dall’eloquenza,
alla vena esistenziale, un po’ ribelle un po’ decadente, psicologicamente più
confacente. Per la poesia civile andrebbero misurati su Pound, cui entrambi si
rifanno. Giusto per capire perché. Perché non funziona – quella di Pound, per
dirne una, è “lavorata” enormemente.
Allen Ginsberg, La caduta dell’America,
con orig. a fronte, Il Saggiatore, pp. 544 € 29
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