Cina-Usa
– Dalla
collaborazione al confronto? La presidenza Xi Jinping sembra avere cambiato il
dispositivo delle relazioni fra le due grandi potenze, finora all’insegna della
cooperazione, ora tentate dall’antagonismo. Anche perché Xi ha consolidato il
suo potere a Pechino mentre negli Stati Uniti emergeva Trump, che il suo
progetto di egemonia dichiara. Il dibattito su questo cambiamento di
prospettiva, dopo la crescita economica e anche strategica della Cina, favorita
per un trentennio dagli Stati Uniti nelle assise internazionali, alla Wto,
l’organizzazione del commercio mondiale, e all’Onu, è fervido in Cina come
negli Stati Uniti.
Negli Stati Uniti si è sviluppato
come prodromo di un riarmo militare. Per ora sotto l’aspetto accademico, delle
due ipotesi di “trappola di Tucidide” e “trappola di Lenin”. In Cina in ambito
politico, all’interno del partito Comunista, con ricorrenti interventi di
analisti, accademici e personalità politiche. Il confronto,
benché non dichiarato, va in accelerazione rapida: Trump e Xi si fronteggiano
con eguale animus, di sfida. Ai dazi
di Trump, Xi ha risposto in due modi: moltiplicando la dotazione degli investimenti
all’estero (il progetto “Via della Seta”) e aprendo a importazioni per dieci
miliardi di dollari subito, all’apertura ieri della fiera di Shangai: “La Cina
non chiuderà le porte al mondo”, ha detto in non velata polemica con Trump, “
ma le aprirà sempre di più”. Dopo avere mostrato a più riprese il viso
dell’arme nei mari, nel Mare Cinese Orientale con Corea, Giappone e Taiwan, in
quello Meridionale con Filippine e Malesia. Ha disposto il raddoppio degli
investimenti in Africa, già elevati – nel 2018 assommeranno a cento miliardi di
dollari. Solo in Europa riduce gli impegni, nell’Europa dei 16+1, i paesi
orientali, balcanici e baltici, di cui 11 membri della Ue, sui quali aveva
puntato inizialmente. Per favorire un dialogo con Bruxelles, in funzione
anti-Trump. – gli investimenti finanziari e commerciali invece a crescere nei mercati
più ricchi Italia compresa, ora nelle nuove tecnologie della comunicazione, il
G 5.
Gli ambienti accademici, di
economisti e americanisti, sono per il “basso profilo”e l’“approccio graduale”.
Le linee-guida dello statista della nuova Cina, Deng Hsiaoping, delle “quattro
modernizzazioni” e dell’apertura al mercato mondiale, anni 1980. Le ribadiscono
a Pechino l’università Tsinghua, che ha recentemente tenuto un Forum della pace
mondiale, e l’università Renmin, le più prestigiose. Delle divisioni del partito
non si fanno nomi, ma si sa che ci sono.
L’amministrazione Trump è anch’essa
sulla sfida. Dopo le due tornate di dazi imposti sulle importazioni, prova a
costruire una sorte di cordone economico attorno a Pechino. Ha introdotto nel
nuovo trattato di libero scambio con Canada e Messico l’obbligo di comunicare
ai partner l’apertura di negoziati commerciali con “economie non di mercato”,
cioè con la Cina. Clausola che si propone di estendere al trattato commerciale
transatlantico, se verrà ripreso, e a quello transpacifico. E ipotizza di
introdurre anche una clausola anti-manipolazione monetaria. Con chiara
allusione alla Cina. Contro la quale rinfocola vecchi e nuovi risentimenti in
Asia, in Giappone, Corea, Pakistan, India, Filippine, Malesia (molto dipendente
dall’Arabia Saudita) e naturalmente Taiwan. Alla Casa Bianca Lawrence Kudlow,
un analista finanziario che dirige il National Economic Council, ha perfino
ipotizzato una “coalizione commerciale dei volenterosi”, richiamando quella che
ha accompagnato gli Stati Uniti in Irak.
Ma il confronto non va oltre le
schermaglie negoziali. Trump minaccia di spostarlo sul terreno finora proibito,
quello militare, ma non ha reso nessuna iniziativa. La Cina lavora a sfidare il
monopolio Usa nella comunicazione online, con le nuove tecnologie G 5. E a
diventare il polo di sviluppo e il mercato principale dell’auto elettrica, la
nuova frontiera del trasporto individuale, poiché ha i componenti minerari
dell’attuale tecnologia elettrica, a batterie.
Trappole
– Termine venuto
in uso ultimamente per il vecchio imperialismo. Elaborato da Graham Allison,
che ne ha dato la prima definizione come “trappola di Tucidide”. Dei rischi che
l’emergere di una nuova potenza fa correre agli equilibri, le vecchie potenze
trovando difficile adattarsi a nuovi equilibri. A Harvard, dove insegnava,
Allison ha costituito un gruppo di ricerca sugli eventi storici caratterizzati
dalla “trappola di Tucidide”, i cui risultati presenta nel volume “Destinati
alla guerra”, appena tradotto, sul rapporto Cina-Usa, in riferimento appunto a
una serie di eventi europei condizionati dalla “trappola di Tucidide”.
Sull’altro versante, democratico, il politologo Walter Russell Mead gli
contrappone una “trappola di Lenin”, e cioè lo scivolamento della Cina,
divenuta troppo potente, verso l’imperialismo.
Trappola
di Lenin – A
Graham Allison e alal sua “trappola di Ticidide, Walter Russell Mead,
politologo e storico della politica estera americana, uno “da sempre
democratico” che approvò la guerra in
Irak nel 2003, oppone una “trappola di Lenin”. Scrivendo nella pagina delle
opinioni del “Wal Street Journal” il 17 settembre ammonisce che “l’imperialismo
è rischioso per la Cina”, perché la fa uscire dallo statuto che vanta di
“vittima dell’imperialismo coloniale” e la fa risentire in Asia e in Africa
come invasore, con l’esportazione-imposizione dei suoi surplus produttivi in
mercati che in vari modi rende captive. È
la trappola dell’imperialismo, che Lenin aveva definito: “Lenin definì
l’imperialismo come il tentativo di un paese capitalista di cercare mercati di
sbocco e opportunità d’investimento all’estero quando la sua economia domestica
è alluvionata da capitali e capacità di produzione in eccesso”. Ciò avrebbe
condotto alla guerra, secondo Lenin.
Lenin si sbagliava, arguisce Mead:
“Settant’anni di storia occidentale dopo la seconda guerra mondiale mostrano
che, con le giuste politiche economiche, un mix di crescente potere d’acquisto
e integrazione economica internazionale può trascendere le dinamiche
imperialiste”. Ma allora anche la Cina dovrebbe prendere questa strada. Altrimenti, succede quello che Lenin
teorizzava: “A meno di non trovare all’estero nuovi mercati per assorbire il
surplus, un’implosione economica si produce, mandando milioni fuori lavoro,
bancarottando migliaia di aziende e scompaginando i loro sistemi finanziari.
Scatenando forze rivoluzionarie che minacciano i regimi in in carica”. La Cina
è ora palesemente in surplus di produzione, dall’acciaio all’informatica,
un’industria moltiplicata con i sussidi, e in eccesso di capitali, moltiplicati
da prestiti fuori controllo. E cerca sbocchi in Asia, in Africa e in Europa,
con la Via del Seta e altri accorgimenti promozionali. Ma deve imparare
dall’Occidente a contenersi con accordi e limitazioni, “più simile agli Usa,
l’Europa e il Giappone”, pena il risentimento dei paesi che elegge a sbocchi.
Mead accusa la Cina di pratiche
mercantiliste: “sussidi, furti della proprietà intellettuale, sforzi nazionali
coordinati per identificare nuove acquisizioni”
In precedenza Mead aveva anticipato
i rischi della globalizzazione – nel 1992, alla vigilia della presidenza
Clinton, che ne sarà invece il promotore a oltranza. Ipotizzando uno scontro
feroce tra Nord e Sud del mondo, tra Occidente
e resto del mondo, qualora il mercato globale dovesse entrare in crisi o
in recessione: “Miliardi di persone in tutto il mondo hanno appuntato le loro
speranze sull’economia di mercato, governi e popolazioni ne hanno abbracciato i
principi e si sono avvicinati per questo all’Occidente, confidando che il
sistema occidentale possa funzionare anche per loro”, la crescita continua. Una
crisi, che prima o poi è inevitabile, anche solo il ristagno della crescita,
potrebbe “armare” i grandi paesi poveri, Cina, India, Russia, contro questo
stesso Occidente, e con l’armamento nucleare “rappresentano per il mondo un
pericolo molto più grande di quanto lo fossero la Germania e il Giappone negli
anni 1930”.
(continua)
astolfo@antiit.eu
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