Racconti stanziali piuttosto, di vite di paese immobile. Minime anche e
bisognose: sono per lo più racconti di durezze e perfino di fame. Di ragazzi
scalzi, uomini piegati sulla zappa. E adulti servi della gleba. Che mangiano
pane asciutto, e fave con i vermi. Un mondo asftittico – ripetitivo chiuso: non
c’è bene, non c’è luce, i poveri non si amano, non amano. Alle falde joniche
dell’Aspromonte – che di suo è un mondo di luce - negli anni prima della guerra
e subito dopo. Come in un film di Abel Ferrara, di luci come ombre. Che non è
vero, ma è quello che si vuole, perché si vende, che si vuole sentire raccontare: le “anime nere”
sono invenzione mercantile, giacché e finché si vendono. Sulla scia dell’Alvaro
di “Gente in Aspromonte”, negli anni del neo realismo, con dediche a Vittorini
e Bilenchi.
Racconti vivi benché scontati, perché Strati ha capacità di osservazione e
padronanza della rappresentazione ancora sorprendenti, quando esce dalla
“linea”. Col gusto della narrazione. Come in “Gianni Palaia di Melissa”,
che i fatti di Melissa (l’occupazione delle terre nel crotonese, represse dai Carabinieri
che tiravano ad altezza d’uomo – “i poveri arricchiti diventano carogne”) evoca
nella vita quotidiana degli emigrati in Svizzera, isolati nel disprezzo. O nel
racconto che dà il titolo alla raccolta, la mezzora sul traghetto dello stretto
di Messina, viaggio quotidiano nel dopoguerra di tanti studenti calabresi come
l’autore, una commedia dai mille risvolti. Il viaggio a Reggio del piccolo
vaccaro di Bianco, duecento pagine, “Avventure in città”, sfida il modello
picaresco: ogni minima cosa, e tutto vi è minimo, è memorabile.
Saverio Strati, Gente in viaggio
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