Bartolo è un angiologo e
informatico romano, di origine afroitaliano, che ha lavorato e lavora molto in Africa
a sud del Sahara, in una dozzina di paesi, nella telemedicina, come formatore, e
vuole dare del continente una immagine riposante, traendolo fuori dall’inferno
nel quale i media superficiali lo avvoltolano – ne ha
già scritto, sempre con la stessa vivace empatia, in “Sognando l’Africa in sol
maggiore”. Ma, involontariamente, soprattutto in questi giorni, col rapimento
della ragazza volontaria in Kenya, dà anche il senso di una cooperazione
internazionale che, per quanto mossa da buona volontà, è pregiudizialmente esterna
e quasi offensiva in Africa. Che è povera ma non stupida o incapace. Con l’eccezione
appunto della medicina, o di altri casi di formazione.
Il titolo è molto gettonato
in rete, tra canzoni, moda, belle modelle. E l’Africa purtroppo è chic per molti
volontari perché ne hanno opinione al fondo razzista, del mangiabanane disceso
dall’albero, buono ma ingenuo, etc., e povero, tanto povero, mentre l’africano
è come tutti e forse, se non altro per il bisogno, meglio addestrato e quindi
più acuto. Più rapido, più abile, più realista o intelligente, capace cioè di
capire la realtà delle cose – succedeva anche con gli italiani emigrati poveri,
alla seconda generazione tutti professionisti brillanti, facili.
Introducono Gervaso e
Camilleri, pregiando la capacità di raccontare di Bartolo. E questo è vero, alcuni
racconti non sono prevenuti, di maniera - altri invece, che l’autore e
l’editore sembrano privilegiare, è ancora del genere Madison Avenue, coloristico,
del “fate la carità”, l’immagine pubblicitaria dell’Africa.
Michelangelo Bartolo, L’Afrique c’est chic, Infinito, pp. 176
€ 13
Nessun commento:
Posta un commento