Diario a ritroso dell’autore a sessantacinque anni che decide – come già
trent’anni prima, in “L’invenzione della solitudine” – di ritrarsi in tutti gli
istanti di cui ha memoria, “un catalogo di dati sensoriali”. Per sfuggire
all’inverno piuttosto che per addentrarvisi, all’inverno della vita. Una
ricognizione a partire dai sei anni, quando si vede a piedi nudi scendere dal
letto e andare alla finestra, mentre fuori nevica. Proprio come ora - gli
inverni sono gelidi a Brooklyn, tra ghiacci e venti.
Aneddoti, battute, scherzi, incidenti, avvenuti o mancati per caso. Secondo
un programma che l’autore decide subito, di “piaceri
fisici e dolori fisici”: “I piaceri del sesso innanzitutto, ma anche quelli del
mangiare e del bere, di stare nudo in un bagno caldo, di grattarti un prurito,
di starnutire e di scorreggiare, di stare a letto un’ora in più, di voltare la
faccia verso il sole in un mite pomeriggio di tarda primavera o d’inizio estate
e sentire il tepore posarsi sulla pelle”. Essere attraverso il corpo, le
sensazioni - la memoria delle sensazioni - fisiche. Ma di eventi minimi,
viaggi, pranzi, cibi, bevande, rapporti sessuali, il cui acme è la prostituta
del Quartiere Latino a Parigi, dall’improbabile nome Sandra, che dice una poesia
di Baudelaire – di passata un aborto, indotto a una compagna occasionale, a
diciannove anni. E molte morti, naturalmente.
È l’occasione anche, a proposito di contaminazioni
fisiche, di dare fisionomia alla madre. Dopo averla ridata al padre nel
precedente “L’invenzione della solitudine“. Non c’è solo l’inizio della terza
età, c’è la fine della madre, del principio vitale di cui è difficile elaborare
il lutto. Una sorta di fine della vita attiva. Il padre ricorda morto trentadue
anni prima - mentre faceva l’amore con la sua nuova compagna - quando lui, Paul, a
trentatré anni, era “ancora in lotta su tutti i fronti, ancora mangiando
la terra del fallimento”. Ma dello storione familiare si ferma per fortuna ai
nonni.
Niente di che. Ben raccontato. Ci sono periodi anche
di una pagina, della cui costruzione non ci si accorge, filanti. E pezzi di
bravura, sulla scia di David Foster Wallace – o è il viceversa? Una decina di
pagine le prende, scena per scena, un film del 1950, “D.O.A.”, di un Rudolph
Maté, per dirsi straniero a se stesso.: “Siamo tutti alieni a noi stessi”
(D.O.A, dead on arrival) - l’esperimento di “Trilogia di New York”, con “Le catene della colpa”, Robert Mitchum nel film di Tourneur del 1947, ampliato. Altre
lunghe pagine sulle cose che può fare una mano, centinaia. Fino alla sorpresa: di che stiamo parlando? Dopo
il selfie, o sotto? La sola novità è che Auster si è laureato
(M.A.) con Edward Said, con una tesi “L’arte della fame”, su Hamsun, Kafka,
Céline e Beckett. E ha scritto un giallo che non ha pubblicato.
Una “automedicazione”, come la moglie dice il rimemorare? Che concilia,
forse, con la vita banale di ognuno – dove sono gli eroi? Una celebrazione
anche dell’amore coniugale, con la scrittrice Siri Hustvedt.
Paul Auster, Diario d’inverno, Einaudi, pp. 184, ril. € 18,50
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