mercoledì 21 novembre 2018

Diario d'autore, a ritroso

Diario a ritroso dell’autore a sessantacinque anni che decide – come già trent’anni prima, in “L’invenzione della solitudine” – di ritrarsi in tutti gli istanti di cui ha memoria, “un catalogo di dati sensoriali”. Per sfuggire all’inverno piuttosto che per addentrarvisi, all’inverno della vita. Una ricognizione a partire dai sei anni, quando si vede a piedi nudi scendere dal letto e andare alla finestra, mentre fuori nevica. Proprio come ora - gli inverni sono gelidi a Brooklyn, tra ghiacci e venti.
Aneddoti, battute, scherzi, incidenti, avvenuti o mancati per caso. Secondo un programma che l’autore decide subito, di “piaceri fisici e dolori fisici”: “I piaceri del sesso innanzitutto, ma anche quelli del mangiare e del bere, di stare nudo in un bagno caldo, di grattarti un prurito, di starnutire e di scorreggiare, di stare a letto un’ora in più, di voltare la faccia verso il sole in un mite pomeriggio di tarda primavera o d’inizio estate e sentire il tepore posarsi sulla pelle”. Essere attraverso il corpo, le sensazioni - la memoria delle sensazioni - fisiche. Ma di eventi minimi, viaggi, pranzi, cibi, bevande, rapporti sessuali, il cui acme è la prostituta del Quartiere Latino a Parigi, dall’improbabile nome Sandra, che dice una poesia di Baudelaire – di passata un aborto, indotto a una compagna occasionale, a diciannove anni. E molte morti, naturalmente.
È l’occasione anche, a proposito di contaminazioni fisiche, di dare fisionomia alla madre. Dopo averla ridata al padre nel precedente “L’invenzione della solitudine“. Non c’è solo l’inizio della terza età, c’è la fine della madre, del principio vitale di cui è difficile elaborare il lutto. Una sorta di fine della vita attiva. Il padre ricorda morto trentadue anni prima - mentre faceva l’amore con la sua nuova compagna - quando lui, Paul, a trentatré anni, era “ancora in lotta su tutti i fronti, ancora mangiando la terra del fallimento”. Ma dello storione familiare si ferma per fortuna ai nonni. 
Niente di che. Ben raccontato. Ci sono periodi anche di una pagina, della cui costruzione non ci si accorge, filanti. E pezzi di bravura, sulla scia di David Foster Wallace – o è il viceversa? Una decina di pagine le prende, scena per scena, un film del 1950, “D.O.A.”, di un Rudolph Maté, per dirsi straniero a se stesso.: “Siamo tutti alieni a noi stessi” (D.O.A, dead on arrival) - lesperimento di Trilogia di New York, con Le catene della colpa, Robert Mitchum nel film di Tourneur del 1947, ampliato. Altre lunghe pagine sulle cose che può fare una mano, centinaia.  Fino alla sorpresa: di che stiamo parlando? Dopo il selfie, o sotto? La sola novità è che Auster si è laureato (M.A.) con Edward Said, con una tesi “L’arte della fame”, su Hamsun, Kafka, Céline e Beckett. E ha scritto un giallo che non ha pubblicato.
Una “automedicazione”, come la moglie dice il rimemorare? Che concilia, forse, con la vita banale di ognuno – dove sono gli eroi? Una celebrazione anche dell’amore coniugale, con la scrittrice Siri Hustvedt.

Paul Auster, Diario d’inverno, Einaudi, pp. 184, ril. € 18,50

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