Filosofia
dell’esistenza –
Heidegger se ne dissocia esplicito e polemico ancora nel dopoguerra, nei
quaderni neri “Note I-V”, 96-97: “«Filosofia dell’esistenza» – Forse proprio
quelli cui ci si riferisce con questo nome
si curano che il mio pensiero non venga scambiato con essa. Sarebbe
utile che gli interessati che danno un peso così grande allo ‘spirito pubblico’
si distanziassero anche pubblicamente”. Il riferimento è ai filosofi che polemizzavano,
era il dopoguerra, contro il nazismo e le dittature, Jaspers, Sartre – che “si
occupavano di politica”: lo “spirito pubblico” che indispone Heidegger è la
politica, di più quando si esercita sulle “riviste”.
“Utile
solo per ciò che è pubblico”, continua il § dei “quaderni neri” sulla “filosofia
dell’esistenza”, come codice politico o morale, presumibilmente, “al pensiero
stesso questa essenza non-pensante non serve a nulla, dal momento che quello
non ha certo bisogno di ciò che è utile”. Con un ultimo cenno di disprezzo: “La
mediocrità, faticosamente pompata verso l’alto, dei fanatici non può mai formare
un’atmosfera di pensiero”..
Leggere – È
λεγειν, raccogliere in greco, legare, si sa. Lo strumento del pensare e del
dire.
Senza
lettura non c’è linguaggio? Lettura anche come ascolto.
Il
linguaggio è sociale, naturalmente, ma anche la riflessione individuale,
segreta, nascosta. .
Meta – È l’Ersatz, un trasformatore universale a
basso voltaggio, di ogni “realtà”. Ne è insofferente Heidegger, che non cessa
di rilevarlo, ma non senza ragione. L’όδός presocratico, rileva, il sentiero,
la vita, trasforma in Metodo – lo fa già Socrate. Lo stesso si può dire degli
altri composti, dal metabolismo alla metatesi e ala metempsicosi, alla metalogica,
alla metalinguistica. E alla metafisica, naturalmente, che al fisica trasforma
in ipotesi.
Pensare – È
scrivere. Si scrive perché si pensa, nota Heidegger nei quaderni neri “Note
I-V”, 89 – bisognava pensarci. E
viceversa, pensare implica scrivere. Non solo nel senso di redigere, ordinare,
affinare, anche nel senso di pubblicare, rendere pubblico, mettere in comune.
Funzione limitativa, secondo Heidegger: “Che cosa significa questo ‘pubblicare’
– ‘ far uscire’ – far ‘apparire’ un libro?”. Per uno scopo di utilità, e “anche
per dare una prova del fatto che l’autore è ancora efficiente e che da lui ci ‘si’ può ancora ‘aspettare qualcosa’”.
Ma questo va a scapito della riflessione: “Secondo il lavoro ‘compiuto’ nella
dimensione pubblica dell’insegnamento e della pubblicazione, l’esigenza del
silenzio” viene insidiata. Apparendo “inadeguata e come un egoismo del privato
e addirittura come una fuga, o perfino come una stizza nauseata”. Ma ce n’è
un’altra?
È
funzione sociale. Si penserà meglio tacendo, riflettendo, ma se non si comunica
(si scrive, si insegna, si pubblica), si resta nel vago e nel nulla. La verità
incomunicata non è. Il pensiero è relazionale, col pensiero degli altri
(passato) e col futuro (scoperta), e ha una funzione sociale. In funzione degli
altri, con gli altri. È pensiero la formazione, anche solo trasmettere le
conoscenze.
Heidegger
lo trova comunque “impelagato nelle esigenze quotidiane”, del lavoratore, per
uno stipendio, che deve costruire casa, e fare la spesa. Ma è di più.
Valori – Si meritano un
aforisma secco di Heidegger, dopo le prolisse critiche – forse l’unico dei
prolissi “quaderni neri” – in “Note I” 14: “Ciò che più di tutto è privo di
valore sono proprio «i valori». Nessuno «vive» e «muore» per dei «valori»”. E invece sono dei fari, anche insidiosi.
Del fare e dello stesso Essere – dello stesso Heidegger. Nella stessa Germania,
negli stessi anni del quaderno: morivano in milioni per l’antisemitismo – o l’antisemitismo
era solo una questione d’interesse, di appropriazione? E per l’odio degli slavi
– come si fa per un altro motivo a pretendere di occupare un paese dieci o
venti volte più grande della Germania?
Verità – Heidegger ne
contesta il concetto nel “quaderno nero” “Note II” come “la strana opinione
secondo cui l’obiettivo del pensiero sarebbe la verità”. E prosegue con questo
argomento: “Questa strana opinione crede che il pensiero abbia qualcosa a che
fare con la «logica», della cui essenza oggi non si sa ancora nulla”. Una
condanna ennesima: la “logica” di Heidegger come è noto – qui ribadisce: “Come
hanno mostrato una volta le mie lezioni” – è “la risoluta mancanza di meditazione
riguardo al λογος” e una “mancanza di pensieri” se non su “ciò che è logico della
logica”.
Ma
in questi termini applicabile alla sua come a ogni altra riflessione. Attorno
al’Essere piuttosto che attorno alla Verità – alla verità dell’essere. Magari
partendo “dalle origini”, come lui di sé pretende, perché no. Ma, certo,
filosofare è inutile – ineffettivo,
inconcludente. È spizzicare la carne alo shawarma,
o kebab – questa non gli sarebbe
piaciuta?
Le lezioni cui Heidegger rimanda
sono il corso del fatidico 1934, l’anno del Rettorato nazista, sulla “logica
come meditazione sul linguaggio”. Non – non ancora – di radicale ripulsa.
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