venerdì 7 dicembre 2018

Alla scoperta dell’Iran, che esisteva prima di noi

Panahí al meglio, pur in una trama drammatica. Con la lentezza, e la radicata fermezza, paciosa anche nel dramma, dell’antica civiltà nella quale si muove. Un viaggio in questa civiltà, nella sua parte più remota, perfino desolata, e tuttavia ricostituente.
Il regista interpreta se stesso. Impedito di espatrio dagli ayatollah, può tuttavia viaggiare per il paese. Si fa quindi protagonista, per accompagnare col suo suv una famosa attrice in pensiero per una ragazzina di un ignoto villaggio dell’Iran profondo che le ha mandato un video del suo suicidio, da aspirante attrice che i i suoi genitori coartano. Il pretesto non è credibile: Panahí, regista celebrato tourné autista lo spiega alla nevrotica attrice. È un video professionale, sarà uno scherzo. Ma presto sono in un altro mondo: minuto, parlato, lento, limitato, che però è, sarà, il loro mondo, preciso, chiaro, garbato, e sempre intelligente.   che ha impellente bisogno di ritrovare una ragazza Agli arresti domiciliari da dodici anni perché non piace agli ayatollah, può assentarsene per accompagnare come autista in un remoto paese a mezza giornata da Teheran un’amica attrice in angoscia. Una ragazza del paese sua ammiratrice, che vuole fare l’attrice, le ha mandato un video in cui sceneggia la propria impiccagione perché i genitori non glielo consentono.  
La storia ha un po’ di senso politico, ma non tanto - e poi non è lo scopo di Panahi, quali che siano i suoi rapporti col regime khomeinista, che comunque gli consente di girare film. Il senso dei film di Panahi, come di Kiarostami e altri cineasti iraniani, è il linguaggio: semplice, posato, radicato. Le immagini si dipanano e non si accavallano, lente e semplificate come le parole. E il senso di comunità nel linguaggio, anche con gli umili e gli abbandonati.
Una festa identitaria, nel senso buono, della convivenza felice e non del tribalismo chiuso. Pacificata e pacificante. Di un senso unitario, quasi di pace, profondo, inalterabile.  Anche se ci sono ferite. Attori famosi di prima della rivoluzione sono introdotti nella storia, lui impedito di rientro, lei, Shahnaz, impedita di lavorare, che anch’essa vive nel villaggio, dove passa le giornate dipingendo. L’attrice impedita, l’attrice in voga e l’aspirante attrice passeranno la notte insieme, a ciacolare e fare teatro, in immagini fuggevoli, di ombre cinesi: sono i tre volti del titolo – ma della vecchia Shahnaz non lo vedremo, del codice comune fa parte anche il rispetto.
Ci sono molto Orienti Medi, e l’Iran esiste da molto prima di noi - anche se il “Corriere della sera” riesce a mortificare Panahí in Pahani. Anche questo è un film di viaggio, come i tanti della cinematografia iraniana, in un paese da scoprire benché, perché, vecchio, vecchissimo. 

Jafar Panahí, Tre volti

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