lunedì 17 dicembre 2018

Il mondo com'è (362)

astolfo


Giustizia – Due dei giudici che condannarono Carlo I a morte, Goffe e Whalley, emigrarono nel Connecticut dopo la Restaurazione, e vissero fino alla morte segregati in una grotta - P. Auster, “La stanza chiusa” (“Trilogia di New York”).

Patto Hitler-Stalin – Saranno ottant’anni fra pochi mesi, il 23 agosto, del patto a sorpresa, detto nelle storie diplomatiche “Molotov-Ribbentrop”, che avviò la seconda guerra mondiale una settimana dopo. Un evento molto traumatico, la porta aperta al conflitto, trascurato dalla storiografia per uan sorta di rispetto della Russia di Stalin. Un accordo anche in sé violento: un patto di non aggressione che era in realtà un patto di spartizione, in previsione cioè della guerra: Hitler si assicurava il non intervento sovietico mentre attaccava Polonia e Francia,  in cambio del passaggio all’Unione Sovietica dei paesi Baltici e della Finlandia. Non ci sono patti analoghi nella storia diplomatica, cioè di violenza sfrontata..

Il patto curiosamente minacciò l’“Asse”  Mussolini-Hitler. L’accordo che Mussolini annunciò come Asse a Milano in piazza del Duomo l’1 novembre 1936. Una settimana dopo che Hitler aveva riconosciuto come legittima l’occupazione italiana dell’Etiopia. Trasformato in “Patto d’acciaio” il 22 maggio 1939, contro il capitalismo (Francia, Inghilterra) e contro il bolscevismo (Urss). Doppiato dal patto Antikomintern, contro l’Internazionale comunista, sottoscritto da Hitler col Giappone il 25 novembre 1936, cui  l’Italia aveva aderito dodici mesi dopo.
Il patto Molotov-Ribbetrop fu visto da Mussolini come una violazione degli accordi italo-tedeschi – consentendo la neutralità nell’aggressione alla Polonia e alla Francia. “L’alleanza tra Mosca e Berlino è un mostruoso connubio”, annotava Ciano nei diari il 26 settembre 1939, “che si realizza contro lo spirito e la lettera dei nostri patti”

Populismo – Quello classico, registrato e definito dalla scienza politica, è russo e americano. Quello russo segnala la deriva terroristica, a partite dal 1860 circa, dall’abortita riforme agraria, dalla mancata liberazione della gleba, di movimenti diversi e anche opposti: slavofili, occidentalisti, democratici-rivoluzionari. Si organizzarono circoli rivoluzionari unitari. A partire dagli ani 1870 i “populisti” si adoperarono ad “andare bverso il popolo”, come chiedevano i socialisti rivoluzionari  Herzen e Bakunin, con iniziative di fatto. Circoli insurrezionali si erano già formati, “Seguaci di Čajkovskij”, “Circolo dei Siberiani”. Confluiranno nel movimento “Terra e libertà”, Zemli i volja, fondato nel 1876, con lo statuto specifico di “andare verso il popolo”. Cioè nelle campagne.
La cosa riuscì impossibile, i contadini non erano ricettivi, e l’associazione riportò i suoi obiettivi in ambito urbano, a difesa degli operai, con ogni mezzo. Quattro anni il gruppo più robusto dell’associazione si costituiva in Narodnia volia, “Volontà del popolo”, un’organizzazione politica urbana che puntava ad affermarsi col terrorismo, una deriva già avviata da un paio d’anni. I primi attentatori furono assolti. La più famosa, Vera Zasulič, che a gennaio 1878 aveva ferito a colpi di pistola il governatore Trepov, si giustifico sostenendo al processo che Trepov era responsabile di torture, e affermando la necessità “di attirare l’attenzione dell’opinione pubblica su questo crimine e di porre un argine alla cronica profanazione della dignità umana”. Lo steso farà Maria Kolenkina, arrestata per terrorismo a fine 1878. L’incriminato al terzo processo per terrorismo, nel 1879, Sergej Bobochov, argomenterà: “Non avevo nessuna intenzione di uccidere o ferire. O per meglio dire, mi era del tutto indifferente. Ho sparato solo perché, facendo fuoco, potevo esprimere apertamente la mia protesta contro i crimini del governo”.
Il terrorista russo soppianterà il cattivo italiano, il Carbonaro, in molta narrativa, anche di Conrad e Dostoevskij.

Quello americano è anch’esso di sinistra più che di destra. Anche se ha capitalizzato meno che la destra. E ha radici anch’esso nel secondo Ottocento. Ma non resta marginale successivamente nella storia americana, è anzi a essa centrale – la sola novità oggi, poteva scrivere Marino de Medici per il Centro di Ricerca Luigi Einaudi a marzo del 2016, a proposito della competizione nelle primarie presidenziali di Sanders e Trump, “è che per la prima volta nella storia americana due populisti dei partiti maggiori si contendono la Presidenza”.
È formidabile populista, andando a ritroso, Bernie Sanders, lo “sconosciuto senatore ‘socialista’ del Vermont”, che ha movimentato le ultime campagne elettorali americane contro la corruzione della stessa politica, la corruzione legale, sotto l’ombrello della “Citizen Unite”, la decisione della Corte Suprema nel 2010 che ha liberalizzato il finanziamento della politica, asservendola ai grandi interessi (Hillary Clinton, avversaria di Sanders alle primarie Democratiche, finanziava la sua campagna con centinaia di milioni di dollari). Sanders raccoglieva su questo terreno i frutti di una campagna lanciata da un Partito Progressista un secolo prima, fin dal 1912, un  partito che si voleva di lotta alla corruzione politica. E si faceva forte dei movimenti spontanei tipo Occupy Wall Street, contro i soprusi della comunità finanziaria e gli sgravi fiscali a favore dei ricchi – mentre Trump a desta raccoglieva l’eredità dei Tea Party, e la Marcia dei Contribuenti su Washington del settembre 2009, contro la fiscalità eccessiva.
Il Progressive Party si è immortalato tra le due guerre nella figura di Robert La Follette, governatore del Wisconsin, senatore repubblicano, candidato presidenziale: precursore di Franklin Delano Roosevelt e del New Deal, in particolare dell’abolizione del lavoro infantile, della Tennessee Valley Authority, la cassa del mezzogiorno americana, della legge sindacale (Wagner Labour Relations), della Consob americana, la Securities Exchange Commission. Era “Progressista” anche il Repubblicano Fiorello La Guardia.
Alle presidenziali del 2000 il populismo vedeva in gara Ralph Nader, il “consumerist”, protettore dei consumatori, e lo stesso candidato democratico Al Gore – lo schiarimento populista, se fosse stato unito, avrebbe sconfitto largamente George W.Bush jr., che invece vinse. Gore si era presentato alla convenzione democratica, e aveva vinto, con un programma interamente populista: contro l’industria petrolifera, del tabacco e della farmaceutica, contro le assicurazioni sanitarie,  contro l’inquinamento per l’ambiente puro.
Nel 1992 il ruolo di “terzo candidato”, su una piattaforma populista, antitasse eccetera, fu assunto dal milionario Rosse Perot. Che non vinse, ma non perse male. Tra le due elezioni c’era stata l’esperienza interessante di “Pat” Patrick Buchanan, un ex collaboratore di Nixon e di Reagan, ma cattolico, e in quanto tale fautore di una “guerra culturale”: all’immigrazione sregolata, al multiculturalismo, all’aborto, ai diritti dei gay. Una piattaforma con la quale condizionò a lungo le primarie repubblicane.
Era stato populista di grande richiamo il vice di Truman alle elezioni del 1948, Henry Wallace. Che il suo programma aveva intitolato “Century of the Common Man”, all’Uomo Comune contemporaneo dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini in Italia. Ma a tendenza spiccatamente di sinistra, antimilitarista e anticapitalista.
I riflessi letterari sono stati cospicui anche in America – ma anche in questo campo più a destra che a sinistra: da Upton Sinclair a Ezra Pound. Più dichiarati però, avvertiti, in scrittori di colore: W.E. DuBois, primo nero “addottorato” negli Stati Uniti, scrittore politico vigoroso, e Ida Wells, nata schiava, l’iniziatrice dei diritti civili, fondatrice della Naacp.
In parallelo con il Progressive Party a inizio Novecento, anche se non in collegamento, si svolse l’attività politica di Theodore Roosevelt alla presidenza. Energico riformatore delle società per razioni, nonché fautore dello scorporo dei monopoli, e del primo ambientalismo.
Il movimento si era manifestato negli Usa, prima che con il Progressive Party, in difesa del mondo agricolo dopo la guerra civile, e la vittoria del Nord “industrialista e banchiere”. Anticapitalista. Antimonetarista: a lungo combatté l’istituzione della banca centrale, e l’ancoraggio del dollaro all’oro, proponendone invece la liberalizzazione, o l’aggancio all’argento. Un Populist Party fu attivo prima del Progressive Party a cavaliere tra Otto e Novecento. Espressione di un precedente Greeenback-Labour Party, che si proponeva appunto il “greenback dollar”, la moneta sganciata dall’oro. E chiedeva una tassazione progressiva dei redditi. Un partito che si ricorda per una riforma importantissima, ma non populista, nota come XVIImo Emendamento: l’elezione diretta dei senatori mediante il voto popolare – prima i senatori erano eletti dai congressi statali, cioè dai grandi interessi che si compravano, letteralmente, le nomine.   

Revisionismo – In Italia è stato precocissimo sul fascismo. Montanelli, resistente e tutto, anche se della venticinquesima ora, carcerato anche a Regina Coeli dopo l’8 settembre, pubblicava un “Buonuomo Mussolini” già nel 1947. Sospettato di plagio da Malaparte, che minacciò querela – Malaparte voleva la primogenitura. Il successo de “Il buonuomo Mussolini” creò un genere. Che Paolo Monelli ha coronato due anni dopo con un “Mussolini piccolo borghese”.


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