Donna
italiana – Corrado Alvaro, l’inventore del “mammismo”,
aveva in contemporanea fato anche l’anamnesi della “donna italiana”. Nella recensione
del film “Bellissima”, di Visconti, per Anna Magnani – il 12 gennaio 1952 sul “Mondo”.
Un’anamnesi vecchia ormai di quasi settant’anni, e quindi sorpassata. Ma
storicamente non inutile.
Nello stesso anno Alvaro riprenderà il tema
in un breve saggio che intitolerà “Il mammismo”, sul ruolo centrale della donna
nella famiglia. Una sintesi che viene ascritta alle origini calabresi dello
scrittore, come se avesse voluto dare consistenza nazionale allo stereotipo della
donna mediterranea, cioè della “donna del Sud”. Ma Alvaro aveva un’altra idea
del modo di essere e del ruolo della donna. Nella recensione, che intitolò “Ritratto
di donna”, porta l’ammirazione incondizionata che gli hanno suscitato l’attrice
e il regista verso considerazioni di ordine più generale: “Il fatto più
notevole è che non si tratta dell’interpretazione di un personaggio in condizioni
eccezionali e romanzesche, ma di una donna della classe media, romana, in
alcune giornate di vita e in un piccolo romanzo delle illusioni e delusioni
quotidiane. Alla fine, abbiamo un ritratto di donna italiana, di quelle che
hanno spazientito tanta letteratura e che è stato sempre ambizione di scrittori
italiani e stranieri poter raffigurare”.
Lui non se lo propone, ma proseguendo l’incantata
recensione lo abbozza, sempre desumendolo dalla interpretazione di Anna Magnani
e di Visconti. Che sono riusciti a tirare “le scene di vita quotidiana fuori
della convenzione salottiera” nella quale sono avvolte “nei film e nel teatro
italiano” – “la naturalezza e l’istintività che corrono le nostre strade,
raramente si ritrovano sulla scena”. In Anna Magnani trova “un repertorio
completo” della donna italiana. Che così raffigura: “Quella mobilità, quel
miscuglio di fantastico e di pratico, di capacità d’illusione e di realismo;
quella sessualità ignara che pare sempre sul punto di cedere e che ha un
ritegno in qualche cosa di molto profondo, quella ostinata fedeltà
fondamentale, quell’esperienza d’uomini e dei loro desideri formatasi
attraverso una pratica ancestrale di difese e di sapienza degli inganni; quel
senso del pericolo che una bella donna nostra sa di portare n sé con la misura
esatta del dramma che ella può scatenare; quei momenti di debolezza subito
ripresi; e l’attaccamento al nucleo familiare; e il culto dei figli come
volontà di potenza familiare.
Manomorta – È la tara dell’Italia, della borghesia italiana. L’appropriazione
dei beni ecclesiastici – la “manomorta”, in teoria inalienabile. A partire
dalle leggi Siccardi del 1850, con un’esplosione negli anni 1860-1862, da prima
ancora della spedizione dei Mille, per la spartizione dei beni negli ex Stati
papalini, e poi nell’Ex Regno borbonico, in Sicilia soprattutto e a Napoli. E
ancora dopo, dopo Porta Pia. L’appropriazione di beni architettonici e
culturali a fini privati, di pochi speculatori.
Palazzi, collezioni, giardini urbani edificabili,
e subito edificati. Opere pie umanitarie, di assistenza ai poveri e ai malati, smantellate.
Perfino gabinetti scientifici, come quello gesuita al Collegio Romano a Roma, smantellati
e svenduti. Tra “compari” di governo. Con entrate minime o nulle per lo Stato.
Senza nemmeno un verbale di acquisizione – la storia della manomorta ecclesiastica
appropriata dallo Stato italiano, cioè dagli “amici degli amici”. Quando in
vece le regole erano chiare.
In precedenza il timorato regno borbonico
aveva requisito i beni della chiesa, in occasione di grandi catastrofi, come i
terremoti. Ma redigendone minuta di acquisizione, e dando conto del loro uso,
dopo averli costituiti e amministrati in apposito titolo, della Cassa
Sacra.
In precedenza ancora l’ultima dei Medici, Anna
Maria Luisa dei Medici, l’ultima del casato fiorentino, legava i beni di
famiglia allo Stato, consentendo di avere gli Uffizi, l’Accademia e tutti i palazzi
ancora in bello stato. Elettrice palatina per matrimonio – era andata sposa a
un principe tedesco, avendo Luigi XIV e la corte di Spagna impedito che si costituisse
per matrimonio un regno del Piemonte-Toscana, primo nucleo dell’Italia – era tornata
a Firenze per prendersi cura dei beni di famiglia alla morte del fratello Gian
Gastone, l’ultimo granduca, nel 1737, e salvarli dalla dinastia dei Lorena, che
le potenze europee imponevano a Firenze. Tre mesi dopo la morte del granduca,
il 31 ottobre dello stesso 1737, con un Patto di Famiglia subito pubblico lasciava
i beni dei Medici, con semplicità a chiarezza, “per ornamento dello Stato, per
utilità del Pubblico, e per attirare la curiosità dei Forestieri”. Dopo avere
espressamente proibito che la nuova dinastia potesse “levare fuori della Capitale
e dello Stato del Granducato Gallerie, Quadri, Statue, Biblioteche, Gioje, ed
altre cose preziose”. Non era difficile.
Masse - La “civiltà delle masse” è degli anni 1920. Avvertita come un
esito della guera, un fatto storico: le masse tenute al fronte per cinque anni non
erano più “fuori del mondo”. Ma come un’evenienza negativa; di appiattimento
culturale, incapacità politica, rischio d’ingovernabilità sociale. Una polemica
di cui fu subito culmine e motore “La ribellione della masse” del filosofo
spagnolo Ortega y Gasset, 1930. Una polemica quindi che fa un secolo, senza che
antidoti siano stati trovati. Ma nemmeno proposti: la polemica è infatti viziata
dal risentimento, come ogni polemica intellettuale, senza sostegno sociologico.
Sociologicamente si propone come un collo d bottiglia perdurante, se dopo un
secolo le masse sono sempre i barbari alle porte.
Piccolo
borghese – Il termine torna indicativo per questa fase
politica italiana – finite le ideolgoie, e finita anche la funzione trainante
delle élites, culturali e politiche.
Il Kleinbürger di Engels, il rabiat gewordene Kleinbürger, il piccolo
borghese arrabbiato-furioso. e dello
stesso Marx. Dell’equivalenza mediocrità, buon senso, grandezza. Autoreferente,
ma in riferimento a una forma incontestabile di uguaglianza, dell’uno che vale
uno – o al buio tutti i gatti sono grigi. Ma, si direbbe, di una mediocrità
buona per i periodi di gestione, non per l’innovazione, per il cambiamento
quando si impone. Ovvero: la soluzione può venire comoda per arrivare al successo,
ma poi il piccolo borghese non può che gestire l’esistente, bene o male.
Malaparte, che sull’immagine di un Lenin piccolo
borghese ha costruito il suo biopic del fondatore del bolscevismo, lo vede
all’apogeo quando può infine rinunciare alla rivoluzione, per una “nuova politica
economica” che è la vecchia, anche se deve deludere i suoi compagni di sempre,
l’uomo di mano Trockij per primo: “Finis, le grands gestes, le avventure
pericolose, i colpi di testa, i tours de main, les jeux du hasard, finis, les
foules massées dans les rues, le mitragliatrici ai crocicchi, le bandiere rosse
sui campi di battaglia, i rulli dei tamburi, l’ebbrezza della vittoria, l’orgoglio
di poter «briser d’un coup de poing l’horizon da sa destinée»”. Tutti dovranno
diventare funzionari dela rivoluzione.
E ancora: “La grandezza di Lenin”, il buon’uomo,
il piccolo borghese, “è fatta di piccole cose. Il suo genio ardente e
meticoloso, la sua volontà al tempo stesso timida e violenta, non sono che un’insieme
di sentimenti e qualità mediocri. È la mediocrità del genio e del carattere di
Lenin che, sola, ha salvato al rivoluzione bolscevica. Là, dove Cesare,
Cromwell, Napoleone auraient échoué, Lenin è riuscito”.
Il piccolo borghese ha connotazione negativa
nelle lingue europee, sinonimo di filisteo, o conformista intellettuale, e di
conservatore contro i suoi stessi interessi, per invidia sociale, e di massa di
manovra della propaganda, o opinione pubblica. “Il piccolo borghese” di Bernanos
“dipende interamente dall’ordine stabilito,che ama come se stesso”. Ma può
lasciarsi anche trasportare dalla collera – In Francia anzi è frequente, per i
“gilets jaunes” e altra sollevazioni analoghe. È l’orizzonte che definisce il
piccolo borghese. Che può essere più produttivo se limitato.
astolfo@antiit.eu
Nessun commento:
Posta un commento