Una reviviscenza del
cinema-verità, con riprese “dal vivo”, tipo “fuori onda” o telecamera nascosta.
Di un evento drammatico e alla fine anche tragico: la chiusura minacciata di
una fabbrica, con 1.100 licenziamenti, malgrado i sacrifici dei lavoratori per tenerla
in vita, deciso da una multinazionale allogena - la fabbrica è in Francia, la proprietà
in Germania. Molto eloquente. Benché un solo attore sia professionale, o
professionalmente noto, Vincent Lindon, I comprimari, ottimi caratteristi, recitano “se stessi”, hanno nella
sceneggiatura lo steso nome che da attori, e qualcuno anche la stessa
professione - avvocatessa nel film avvocatessa nella vita. Tutto insomma molto
veritiero. Anche teso, da un montaggio ben calibrato. Che però non commuove.
Più che il fatto – un fatto specifico
– sceneggia dei ruoli. La multinazionale fa la multinazionale, remota, falsa, il
politico fa il politico, chiacchierone, il sindacalista fa il sindacalista – e siccome
c’è un sindacalismo oltranzista e uno realista, i sindacalisti per lo più
litigano tra di loro, eccetera. Non manca la violenza, quando la giusta collera
sfugge di mano.
Un saggio ponderato, anche
equanime. Se non commuove però appassiona. Forse perché sorprendente come
soggetto. Sul fondo della paura, certo, che il mercato alimenta ormai da troppi
anni, dell’incertezza, della crisi continua, insostenibile.
Stéphane Brizé, In guerra
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