Una mostra su un poeta.
Eppure regge. È una mostra sull’amore, essendo Ovidio il poeta dell’amore, nel
mito, nella statuaria, nella pittura. E più nella figurazione classica, buona
parte della mostra si regge sull’Archeologico di Napoli, con poche incursioni
nel Seicento. Dell’amore o della metamorfosi, che forse è l’Ovidio più in palla
oggi.
Fa in effetti un po’ senso
ripercorrere tanti amori nei due piani della mostra gigante, felici e infelici,
Bacco e Arianna, Teseo e Arianna, Piramo e Tisbe, Venere e Adone, Salmacide e
Ermafrodito, e trasvolate, anche queste felici e infelici, di Ganimede, Dedalo,
Icaro, in un’epoca inappetente quale stiamno vivendo, o volutamente, anche, frigida.
Ma, poi, Ovidio è pure il poeta delle metamorfosi – tema anch’esso usuale in antico,
ma con esiti che si amano meglio che non quelli di Apuleio o di Liberale. Il poeta
per questo da ultimo di Calvino, delle “Lezioni americane”, per la leggerezza –
ritmo, precisione, rapidità: un narratore conciso e immaginifico.
Indirettamente, la mostra
romana si colloca nel neo-sensismo, che recupera fino il paganesimo, nella
mitologia e nella fisica – Ovidio si appaia a Lucrezio. La mostra lo documenta
indirettamente. Con i tanti Ovidio “moralizzati”, così attestano i frontespizi,
manoscritti dei secoli XII-XV, e poi anche a stampa. Una mostra nella mostra,
per l’eleganza e la nitidezza dei caratteri amanuensi. La chiesa non ne tollerava
la licenziosità - come già probabilmemte l’imperatore Augusto, che il poeta suo
diplomatico d’improvviso, mentre era in missione in Germania, confinò sul mar
Nero – ma non voleva rinunciare al suo nome.
Francesca Ghedini (a cura
di), Ovidio, Scuderie del Quirinale
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