“Un «Europeo medio», un
«funzionario puntuale e zelante del disordine», un imbrattacarte incapace di
fare qualcosa al di fuori dei campi della
teoria, un piccolo borghese casalingo e
abitudinario, sperduto nella rivoluzione proprio come un capitano nel bel mezzo
della sommossa; in sostsnza un fanatico del buon senso”.
Una biografia che è un racconto, è inevitabile con Malaparte.
D’invenzione, cioè, vera. Non ha i vertici visionari vero-falsi di “La pelle” o
di “Kaputt”. E anzi ha già molto dei futuri verbali di comitati e burò politici
che ci ammorberanno per mezzo secolo nel dopoguerra, chi ha detto questo e chi ha detto quello. Ma
la frusta riaffiora, la vena distruttiva-costruttiva che sarà la cifra dello
scrittore. Alleviata (o aggravata) dal mistilinguismo, dallo zompettamento
costante in francese, e perfino in inglese, da compilatore allegro.
La curatrice Mariarosa Bricchi è ben addentro all’ambigutà del personaggio
– di Malaparte e non di Lenin - e la mette a frutto nella postfazione, che è il
vero racconto, a partire da “il romanzo lo scrive in pochi mesi”. L’intuizione
gli sarà venuta da una risposta che Lenin ragazzo avrebbe dato al vecchio
Nikolaï Chelgounov, che lo esortava a impegnarsi nelle lotte operaie: “Io non sono
ciò che voi chiamate un uomo d’azione”.
Lenin non era un condottiero, ma per molto tempo non si poté dire,
nel 1930 quando Malaparte ne scrisse e dopo – dopo quest’opera presto trascurata
e riemersa postuma, senza alcuna eco. Era un intellettuale borghese, un piccolo
borghese sociologicamente, Il Kleinbürger
di cui anche in Engels, e Marx. Che Malaparte trasforma in “funzionario del
disordine”. Liberali, anarchici, gli stessi socialisti non sono materia che lui possa accettare. È un uomo
d’ordine, che “non si batte per la libertà ma per il potere”. E tipicamente un uomo
di partito – in questo sicuramente marxista, si può aggiungere, anche Marx era
estremamente fazioso. Ma, di più, un Robespierre: un uomo d’ordine – il parallelo
con l’Incorruttibile prende molte pagine.
Le rivoluzioni sono borghesi. Piccolo borghesi: il termine, ora
desueto, con i sinonimi “filisteismo” e “invidia sociale”, distingue una borghesia
passionale, non critica, protagonista e vittima dell’opinione pubblica, di una
saggezza politica mal digerita e pulciosa, sospettosa, vittimista. Malaparte ne
scrive tra il 1929 e il 1932, spiegando nel “Prologo”: “Il pericolo più grosso
che minaccia la società moderna è proprio lo spirito borghese da cui sgorga la
logica che domina la vita e l’opera rivoluzioanria di Lenin; questo spirito
fanatico che si rinviene da tre secoli all’origine di tutte le rivoluzioni, di
tutte le avventure morali, politiche e intellettuali dell’Europa. Ci sarebbe da
affermare che, al diventar quel che si chiama mostro, l’essere piccolo borghese sia proprio condizione indispensaile”.
Non c’è molto altro. In apertura anche un panopticon impressionante
dell’“essere russo”. Completato sul finale, alle pp. 185-187, sulla libertà
impossibile: “Il dramma della libertà, in Russia, tien più della natura che
della politica”. Il russo non sa essere solo. Per il resto poco o nulla, a meno
di non essere esegeti della storia del comunismo. E qui peraltro niente che non
si sappia. Una compilazione di resoconti giornalistici e memoriali. La vecchia
letteratura settatrice cui ci aveva abituati il partito Comunista, di nessun
interesse, tanto più oggi per l’irrilevanza storica – come documenti di
costume, di un modo di essere nei partiti comunisti, per bande, ci sono testimonianze
migliori, di primo piano, meglio scritte, a partire dallo stesso Marx, il più mafioso
di tutti, e arguto.
Lenin e il bolscevismo fu tema dominante per Malaparte fra il 1929 e
il 1932, dapprima da inviato della “Stampa” a Mosca, poi da direttore del “Mattino”
e della stessa “Stampa”. La curatrice documenta tre Lenin di Malaparte in tre
anni: “Intelligenza di Lenin”, raccolta di articoli, 1930, “Technique du coup
d’État”, 1931, e sulla scia del successo della “Technique” questo “Le bonhomme
Lénin”, concordato a Parigi con l’editore Grasset, per i buoni uffici di Daniel
Halévy, 1932. Senza variazioni di rilievo tra l’una e l’altra pubblicazione,
anzi con riutilizzo di interi pezzi Bricchi li rilegge in parallelo, segnalando
riusi e innovazioni. Il “buonuomo” Lenin accostando al “brav’uomo francese” di
Prezzolini “una quindicina d’anni prima”, in “La Francia e i francesi nel
secolo XX”.
Questa edizione è una prima. La pubblicazione in italiano fu
rinviata nel 1932, e poi ancora nel 1939, quando tutto era pronto da Bompiani
sotto il titolo di “Lenin Buonanima”. Si fece dieci anni dopo, per accompagnare
il successo di “La pelle”, ma in traduzione dal francese. E in questa traduzione
Lenin fu ripreso da Vallecchi nel 1962, nell’edizione delle opere di Malaparte
curate da Enrico Falqui. L’originale italiano dandosi per perduto. Un
manoscritto è stato successivamente rinvenuto nelle carte dello scrittore, un
canovaccio non definito, con molti tratti
in francese, soprattutto le citazioni, e con pagine mancanti. È questa
edizione, che Bricchi ha completato nelle poche pagine mancanti con la
traduzione dal francese, che si ripubblica.
Non vivace, con le solite generalizzazioni “tipiche”: “il” russo,
“il” rivoluzionario, “il” comunista”. Un libro voluto, da analista politico, ma
non sentito. Ci vorrà tempo a Malaparte per perfezionare col brio e la leggerezza
questo frusto filone, con “Maledetti toscani” e le numerose appendici. E
tuttavia, per il centenario che non si è celebrato della Rivoluzione d’Ottobre,
un tributo. Di un fascista. Di un paese fascista, che ne boicottò la
pubblicazione ma senza ragione plausibile. “Appena si parla di libertà”, il
messaggio è, il messaggio di Malaparte, e vale non solo per i russi, “lo Stato
deperisce. «Dove c’è libertà non c’è Stato». In questo assioma di Lenin è
contenuta tutta la sua concezione rivoluzionaria dello Stato”.
Il tentativo, non riuscito, è di far passare Lenin per uno qualunque.
Un po’ romantico, come tutti i rivoluzionari, ma con una moglie (e una
suocera), la bicicletta, i libri, le titubanze, i magoni, gli scoppi di
collera, e di riso, gli amici che poi sono nemici, e viceversa. Ciò di cui
Lenin si occupa, un mese prima del colpo di Stato sulla “Pravda”, e dieci
giorno dopo la coquista del potere in un decreto governativo, è il monopolio
statale degli annunci pubblicitari. Come se fosse “possible, nello Stato
comunista, la sopravvivenza della stampa borghese”, e delle banche e industrie
che la foraggiano. “Come tutti i piccolo borghesi fanatici, razza redoubtable
et actuelle, egli spingeva il suo fanatismo a tal punto che aveva il più
profondo rispetto per le sue idee, e spingeva a un tal grado il rispetto per le
sue idee, che egli le credeva bienfaisantes. Vi era del filantropo in quel
mostro allo stato platonico”.
Un Lenin platonico, ideale di se stesso, non è male. La zampa c’è,
le zampate poche.
Curzio Malaparte, Il buonuomo
Lenin, Adelphi, pp. 311 € 20
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