giovedì 20 dicembre 2018

Lenin platonico


“Un «Europeo medio», un «funzionario puntuale e zelante del disordine», un imbrattacarte incapace di fare qualcosa  al di fuori dei campi della teoria, un piccolo borghese  casalingo e abitudinario, sperduto nella rivoluzione proprio come un capitano nel bel mezzo della sommossa; in sostsnza un fanatico del buon senso”.
Una biografia che è un racconto, è inevitabile con Malaparte. D’invenzione, cioè, vera. Non ha i  vertici visionari vero-falsi di “La pelle” o di “Kaputt”. E anzi ha già molto dei futuri verbali di comitati e burò politici che ci ammorberanno per mezzo secolo nel dopoguerra,  chi ha detto questo e chi ha detto quello. Ma la frusta riaffiora, la vena distruttiva-costruttiva che sarà la cifra dello scrittore. Alleviata (o aggravata) dal mistilinguismo, dallo zompettamento costante in francese, e perfino in inglese, da compilatore allegro.
La curatrice Mariarosa Bricchi è ben addentro all’ambigutà del personaggio – di Malaparte e non di Lenin - e la mette a frutto nella postfazione, che è il vero racconto, a partire da “il romanzo lo scrive in pochi mesi”. L’intuizione gli sarà venuta da una risposta che Lenin ragazzo avrebbe dato al vecchio Nikolaï Chelgounov, che lo esortava a impegnarsi nelle lotte operaie: “Io non sono ciò che voi chiamate un uomo d’azione”.
Lenin non era un condottiero, ma per molto tempo non si poté dire, nel 1930 quando Malaparte ne scrisse e dopo – dopo quest’opera presto trascurata e riemersa postuma, senza alcuna eco. Era un intellettuale borghese, un piccolo borghese sociologicamente, Il Kleinbürger di cui anche in Engels, e Marx. Che Malaparte trasforma in “funzionario del disordine”. Liberali, anarchici, gli stessi socialisti non sono  materia che lui possa accettare. È un uomo d’ordine, che “non si batte per la libertà ma per il potere”. E tipicamente un uomo di partito – in questo sicuramente marxista, si può aggiungere, anche Marx era estremamente fazioso. Ma, di più, un Robespierre: un uomo d’ordine – il parallelo con l’Incorruttibile prende molte pagine.
Le rivoluzioni sono borghesi. Piccolo borghesi: il termine, ora desueto, con i sinonimi “filisteismo” e “invidia sociale”, distingue una borghesia passionale, non critica, protagonista e vittima dell’opinione pubblica, di una saggezza politica mal digerita e pulciosa, sospettosa, vittimista. Malaparte ne scrive tra il 1929 e il 1932, spiegando nel “Prologo”: “Il pericolo più grosso che minaccia la società moderna è proprio lo spirito borghese da cui sgorga la logica che domina la vita e l’opera rivoluzioanria di Lenin; questo spirito fanatico che si rinviene da tre secoli all’origine di tutte le rivoluzioni, di tutte le avventure morali, politiche e intellettuali dell’Europa. Ci sarebbe da affermare che, al diventar quel che si chiama mostro, l’essere piccolo borghese sia proprio  condizione indispensaile”.
Non c’è molto altro. In apertura anche un panopticon impressionante dell’“essere russo”. Completato sul finale, alle pp. 185-187, sulla libertà impossibile: “Il dramma della libertà, in Russia, tien più della natura che della politica”. Il russo non sa essere solo. Per il resto poco o nulla, a meno di non essere esegeti della storia del comunismo. E qui peraltro niente che non si sappia. Una compilazione di resoconti giornalistici e memoriali. La vecchia letteratura settatrice cui ci aveva abituati il partito Comunista, di nessun interesse, tanto più oggi per l’irrilevanza storica – come documenti di costume, di un modo di essere nei partiti comunisti, per bande, ci sono testimonianze migliori, di primo piano, meglio scritte, a partire dallo stesso Marx, il più mafioso di tutti, e arguto.
Lenin e il bolscevismo fu tema dominante per Malaparte fra il 1929 e il 1932, dapprima da inviato della “Stampa” a Mosca, poi da direttore del “Mattino” e della stessa “Stampa”. La curatrice documenta tre Lenin di Malaparte in tre anni: “Intelligenza di Lenin”, raccolta di articoli, 1930, “Technique du coup d’État”, 1931, e sulla scia del successo della “Technique” questo “Le bonhomme Lénin”, concordato a Parigi con l’editore Grasset, per i buoni uffici di Daniel Halévy, 1932. Senza variazioni di rilievo tra l’una e l’altra pubblicazione, anzi con riutilizzo di interi pezzi Bricchi li rilegge in parallelo, segnalando riusi e innovazioni. Il “buonuomo” Lenin accostando al “brav’uomo francese” di Prezzolini “una quindicina d’anni prima”, in “La Francia e i francesi nel secolo XX”.  
Questa edizione è una prima. La pubblicazione in italiano fu rinviata nel 1932, e poi ancora nel 1939, quando tutto era pronto da Bompiani sotto il titolo di “Lenin Buonanima”. Si fece dieci anni dopo, per accompagnare il successo di “La pelle”, ma in traduzione dal francese. E in questa traduzione Lenin fu ripreso da Vallecchi nel 1962, nell’edizione delle opere di Malaparte curate da Enrico Falqui. L’originale italiano dandosi per perduto. Un manoscritto è stato successivamente rinvenuto nelle carte dello scrittore, un canovaccio non definito,  con molti tratti in francese, soprattutto le citazioni, e con pagine mancanti. È questa edizione, che Bricchi ha completato nelle poche pagine mancanti con la traduzione dal francese, che si ripubblica.
Non vivace, con le solite generalizzazioni “tipiche”: “il” russo, “il” rivoluzionario, “il” comunista”. Un libro voluto, da analista politico, ma non sentito. Ci vorrà tempo a Malaparte per perfezionare col brio e la leggerezza questo frusto filone, con “Maledetti toscani” e le numerose appendici. E tuttavia, per il centenario che non si è celebrato della Rivoluzione d’Ottobre, un tributo. Di un fascista. Di un paese fascista, che ne boicottò la pubblicazione ma senza ragione plausibile. “Appena si parla di libertà”, il messaggio è, il messaggio di Malaparte, e vale non solo per i russi, “lo Stato deperisce. «Dove c’è libertà non c’è Stato». In questo assioma di Lenin è contenuta tutta la sua concezione rivoluzionaria dello Stato”.
Il tentativo, non riuscito, è di far passare Lenin per uno qualunque. Un po’ romantico, come tutti i rivoluzionari, ma con una moglie (e una suocera), la bicicletta, i libri, le titubanze, i magoni, gli scoppi di collera, e di riso, gli amici che poi sono nemici, e viceversa. Ciò di cui Lenin si occupa, un mese prima del colpo di Stato sulla “Pravda”, e dieci giorno dopo la coquista del potere in un decreto governativo, è il monopolio statale degli annunci pubblicitari. Come se fosse “possible, nello Stato comunista, la sopravvivenza della stampa borghese”, e delle banche e industrie che la foraggiano. “Come tutti i piccolo borghesi fanatici, razza redoubtable et actuelle, egli spingeva il suo fanatismo a tal punto che aveva il più profondo rispetto per le sue idee, e spingeva a un tal grado il rispetto per le sue idee, che egli le credeva bienfaisantes. Vi era del filantropo in quel mostro allo stato platonico”.
Un Lenin platonico, ideale di se stesso, non è male. La zampa c’è, le zampate poche.
Curzio Malaparte, Il buonuomo Lenin, Adelphi, pp. 311 € 20

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