Verdi è stato ripescato al suo meglio (ma ci
aveva già ripensato due anni fa La Fenice, che l’opera aveva commissionato al
giovane Verdi - nonché Muti in più occasioni, anche al Met di New York), malgrado la regia confusa di Livermore, di moderno e antico - e
l’equivoco di Salò, che dopo Pasolini affascina il mondo gay. Ma più
dell’opera, del ripescaggio, dell’esecuzione, ha impressionato il paratesto. Il
canto dell’inno di Mameli in sala. Dopo l’applauso intenzionale e non rituale,
insistito, a Mattarella, unico argine al disgoverno. E il quarto d’ora di applausi,
al termine dell’opera patriottica. Come se il pubblico della Scala, dopo averci
imposto Salvini, con i siculo-campani di Grillo, si fosse pentito.
“Wodan non falla, ecco il
Walhalla”, intonava subito minaccioso il rude libretto di Temistocle Solera in
apertura. Su una sorta di day after:
“Or macerie, deserto e ruina\ su cui regna miseria e squalor”.
Giuseppe Verdi, Attila, Teatro alla Scala
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