venerdì 7 dicembre 2018

Ritorno alla patria, preoccupato

Una celebrazione. Su un’opera non celebre, benché dignitosa. Della patria, e forse della dignità, perduta. Gli interpreti eccezionali, oltre alla concertazione di Chailly, hanno contribuito: il portentoso basso russo Ildar Abdrazakov, un baskir, uno di quelli del Volga al seguito di Attila, col quale fecero ritorno in patria, e la soprano Saioa Hernández dall’estensione interminata, entrambi su un registro sempre normale, senza forzature. Ma il successo è politico.
Verdi è stato ripescato al suo meglio (ma ci aveva già ripensato due anni fa La Fenice, che l’opera aveva commissionato al giovane Verdi - nonché Muti in più occasioni, anche al Met di New York), malgrado la regia confusa di Livermore, di moderno e antico - e l’equivoco di Salò, che dopo Pasolini affascina il mondo gay. Ma più dell’opera, del ripescaggio, dell’esecuzione, ha impressionato il paratesto. Il canto dell’inno di Mameli in sala. Dopo l’applauso intenzionale e non rituale, insistito, a Mattarella, unico argine al disgoverno. E il quarto d’ora di applausi, al termine dell’opera patriottica. Come se il pubblico della Scala, dopo averci imposto Salvini, con i siculo-campani di Grillo, si fosse pentito.
“Wodan non falla, ecco il Walhalla”, intonava subito minaccioso il rude libretto di Temistocle Solera in apertura. Su una sorta di day after: “Or macerie, deserto e ruina\ su cui regna miseria e squalor”.
Giuseppe Verdi, Attila, Teatro alla Scala

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