Classico – È tribale. È sinonimo
di universale, ma è il fondamento del tribalismo: della tradizione, il più
possibile legate al luogo, alla comunità. Per questo la cultura classica ha
bisogno di poco: ha l’ascendente dei vecchi miti e dei riti tribali. E si
esercita etnicamente, l’identificazione su cui fa aggio è di tipo parentale,
sanguigno – da qui la cultura dei primati, da Gioberti a Heidegger, che a prima
vista è balzana.
Io
-
L’Io non è nella fisica. Ed è, risalendo a Rimbaud e anzi a Nerval, prima che a
Heidegger, sorpassato. L’estraneità è invece un fatto fisico. Non c’è la
freccia del tempo, come Mach ha intuito e Zermelo dimostra, ci sono stati disordinati,
l’equilibrio si riforma continuamente – situazioni che si ripropongono, eterni
ritorni. Le semplici osservazioni di Zermelo sui gas mostrano che l’entropia e
il disordine non crescono col tempo, ma semmai con le dimensioni.
Boltzmann già aveva associato entropia e
disordine, ma li vedeva crescere col tempo. Una veduta conservatrice della
natura e della storia o, chissà, rivoluzionaria. Non era vero, e Zermelo lo
dimostrò. Se è un fatto di dimensione, l’Io sarebbe
dunque una persona robusta. Ma chi è Zermelo? Ha rivoluzionato la termodinamica,
ma non è don Abbondio, è peggio, nessuno lo ricorda. La sua eliminazione della
freccia del tempo, che doveva migliorare la costruzione di Boltzmann, portò
invece quest’ultimo, il miglior fisico dell’epoca, al suicidio.
È vero
però che la prima persona al presente storico è ingombrante, una rappresentazione
doppia - del soggetto che rappresentando se stesso si situa e si capisce. Per
questo è faticosa. Inevitabile, l’autore è un personaggio della propria
narrazione. Non necessariamente l’agente primo, ma sempre prim’attore. In
Aristotele il personaggio è al plurale – è più d’uno. E si chiama “agente”. Non
di polizia, ma quello che agisce, fa la realtà.
L’autore
è uno stratega. In primo luogo di se stesso: distaccato, misurato. Bene. Basta
allora rettificare
la postura, tenersi eretti? Non piegare il collo, il vizio che si prende leggendo
è dannoso, non solo alla cer-vicale. Si vede guardando avanti. Sapendo che non
si compete con chi ti vuol male, i carabinieri hanno ragione.
Meraviglia – Prima che in
Jeanne Hersch, quale motore della conoscenza, era in Vico, “La Scienza Nuova”,
Laterza, 1967, p. 200, “la naturale curiosità,
ch'è figliuola dell’ignoranza e madre della scienza, la qual partorisce,
nell'aprire che fa della mente dell'uomo, la meraviglia…”
Spirituale – Ha molto di
materiale. Non maturano solo i prodotti naturali e i processi
produttivi, di più maturano e anzi induriscono le ideologie, e si dovrebbe dire
le psicologie. Anche il sociale è un po’ minerale: in una società integrata,
che viene da lontano, i rapporti si legano per molti fili, culturali, storici,
tribali. Anche le egemonie e le sudditanze, per quanto risentite o protestate.
Storia – “Lo storico
è, per professione, un falsificatore della storia”, M. Heidegger, “Note I”
(“Note I-V”, p. 122): “Lo storico è la personificata negazione della storia”. O
anche, p. 123: “La storiografia è la psicologia della storia oggettivata” – e
“la psicologia è la storiografia dell’ “inconsapevole”, del “profondo”, dell’
“originariamente tipico”.
Tribù – Residua o
riemerge con la globalizzazione. Contro le emigrazioni e la misgenation da una parte, o come
fondamento religioso o culturale, di divisione e contrapposizione. Riemerge col
fenomeno politico confuso che si labella genericamente come “populismo”. Tribalismo
sarebbe più corretto: la “razza” rivendicata da chi ha meno da rivendicare, dal
punto di vista del potere, del reddito, e anche tribale in senso proprio.
A
lungo atteso come insorgenza nazionalistica, delle piccola patrie, l’inevitabile
movimento di bascula contro la globalizzazione si orienta invece verso un
tribalismo vecchia maniera. Poco definibile (circoscrivibile) ma acuto.
Umorismo – “Una
fioritura silenziosa della libertà”, il severo Heidegger si diverte per una
volta in poche righe dei suoi fitti quaderni neri, “Note I-IV”, p. 243. C’è chi
ne manca, “allora è un povero babbeo”. Però, questo caso può essere
dell’“umorismo vero”: “Può anche significare che l’umorismo non si mostra
immediatamente”, che “resta trattenuto nell’atteggiamento del pensiero”.
È
una riflessione occasionale, sperduta. Ma il filosofo mostra di saperne di più,
sulla qualità dell’umorismo, e sul rapporto dell’umorista stesso con
l’umorismo, col suo bisogno di fare umorismo: “Forse questo buon umore, quello
inappariscente, è il solo genuino. Laddove l’umorismo si fa chiassoso, si
tradisce facilmente come scappatoia e velamento di una profonda insicurezza”,
cui magari il soggetto pensa di “essere sfuggito”. Mentre, al contrario,
“l’umorismo invisibile non va affatto a parare nell’insicuro e nel forzato
perché è una fioritura silenziosa della libertà. Per questo resta raro. Ancora
più raramente esso viene riconosciuto”.
L’appunto
termina con l’usuale rapporto tra umorismo e malinconia: “Che l’umorismo possa
essere lo stesso di una sana malinconia sarà comprensibile solo a pochi uomini.
L’umorista, generalmente, ha in misura minima buon umore”.
zeulig@antiit.eu
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