Femminicidi - La donna è il maggiore corpus delicti della storia degli esseri viventi e della contemporaneità,
inclusi gli ebrei probabilmente dell’Olocausto, e gli animali domestici nei
paesi arabi, per numero e gravità delle offese.
Innatismo – Da Erodoto e Platone
a Federico II e a Montaigne e Descartes, la tradizione è antica del linguaggio
innato, fino al ”ragazzo selvaggio” dell’Aveyron, del film di Truffaut. Erodoto racconta di due neonati isolati alla nascita
dal faraone Psammetico, nell’VIII se colo a.C., con l’imposizione alla balia di
non pronunciare una parola in loro presenza, che invece parlano – la prima parola
che pronunciano è “pane” in frigio, la lingua della balia. Analogo esperimento
di Federico II non ebbe esito perché i neonati morirono prima di cominciare a
articolare la lingua. L’argomento di Platone
è meglio reso da Montaigne: “Apologia per Raymond Sebond”, il teso più
organico e ampio dei “Saggi”: “Credo che un bambino che sia stato cresciuto in
perfetta solitudine, remoto da ogni associazione (che sarebbe un dura
esperienza) avrebbe una qualche forma di linguaggio per esprimere le sue idee. È
non credibile che la Natura abbia negato a noi questa risorsa che ha donato a tanti
altri animali” – ma qui per imprinting, per “istruzione”.
Madrepatria - Per Hannah Arendt
con Heidegger dopo Hitler non è solo un letto ritrovato, c’è l’amore della
patria. Di un uomo che è la lingua e la
cultura. Con cui esprimersi in libertà.
Ci voleva una filosofa per scoprire la vera madre: quando si perde
la lingua si perde tutto. Non è una malattia, non grave, si sopravvive, ma
senza gusto.
Gli emigrati a lungo hanno cercato moglie al paese d’origine, una
qualsiasi ma che lo scambio consentisse nella lingua comune, riposante,
rinfrancante. Sia pure solo per la triviale quotidianità - ma non c’è altra
intimità, nelle grandi questioni non c’è scambio, chi vive solo lo sa, non si
mutuano pensieri elevati: si comunicano esperienze e identità. Nel non detto,
se si parla la stessa lingua.
Male - Ben prima di
Eichmann Hannah Arendt era stata colpita dall’ordinarietà del male. Nello
stesso suo amore indefettibile per Heidegger probabilmente: un amore
intellettuale, certo, verso un incantatore di vergini, ma anche sensuale e
perfino bestiale. Già di Rahel Varnhagen diceva: “Lei è un esempio dell’amore
nella sua forma più banale”. Ma lei, Hannah, più di Rahel ha cavalcato
appassionata tutti i fossi e le miserabili barriere, degli appuntamenti
disattesi, della viltà del suo uomo e maestro, della riduzione inequivoca a
oggetto. Sarà stata la sola walchiria di tutta la storia del nazismo, il
Leandro della trama d’amore della nuova umanità, di uomini deboli – anche nel
bene: di una debolezza che è però resistente.
È vero che il male è banale, alla portata degli
scemi. Il filosofo e scrittore Friedrich Hielscher, rilasciato dopo la tortura,
benché nazionalrivoluzionario e tutto, amico di Ernst Jünger, animatore
dell’Ahnenerbe di Goebbels, caduto in disgrazia per aver promosso un sistema
“tribale frazionato” medievale contro la modernizzazione di Hitler, trovò i
suoi aguzzini seduti alla scrivania dietro le scartoffie. Ma i tedeschi non
sono scemi.
Hannah Arendt fa sua la banalità
del male di Bernanos in uno strano modo, anche di essere ebrea. In Bernanos angoscia:
che il male sia comune fa paura. In lei è quasi una difesa, tra la chiamata di
correo che allevia la colpa e la banalizzazione del reato. Ciò nasce dal fatto
che Eichmann è niente, un contabile – e che molti capi delle Comunità ebraiche
lo erano: Eugenio Zolli, il rabbino di Roma che si battezzò, ne dà attestato
straziante, di vanità e superficialità. Per il fascino del numero, che
anch’esso fa tedeschi gli ebrei. Mentre l’Olocausto è storia di mille storie,
di milioni di storie, di bambini strappati alla famiglia, di uomini e donne
strappati alle case, uno per volta, con schieramento di carri, moto, mitra,
cani, con frastuono di urla, latrati, invocazioni, lacrime, mancamenti, alle
luci dell’alba o nelle tenebre della notte, assalti ripetuti migliaia, milioni
di volte, per settimane, mesi, anni, rinnovati a ogni campo di smistamento, a
ogni stazione ferroviaria, a ogni campo di sterminio, a ogni appello nel campo,
la mattina, la sera, la notte. È questo l’orrore, che tutta questa sofferenza
si lascia cancellare da numeri, regolamenti, organizzazioni, percentuali.
Esibire,
come si fa negli ex lager, i diagrammi e i calcoli costi\benefici alla
Mengele, tante proteine tante giornate di lavoro, disattiva la terribilità del
male, lo rende banale e quasi innocuo.
Hannah Arendt visse gli ultimi giorni della guerra, e la verità
dei campi, sgomenta per la distruzione della patria tedesca, contro
l’esaltazione dei vincitori e il morgenthavismo, la riduzione della Germania a
campo sterile. È su questo sentimento che codificò il totalitarismo, la nuova
categoria politica dopo la classificazione di Platone. Che è anzitutto un atto
di fede.
Il nazismo fa per questo antieuropeo: “L’umanesimo, la cultura
europea, lungi dall’essere alle origini del nazismo, vi era così poco
preparata, così come a ogni altra forma di totalitarismo, che per capirlo e
tentare di venirne a capo, né il suo vocabolario concettuale né le sue metafore
tradizionali possono servire”. E il male banale, ordinario. Per la compassione, se non
l’amore, per la Germania. O il disprezzo. O tutt’e due, un atto d’amore
disperato, con rabbia. E voglia di credere: il male radicale può
non essere banale.
Ma è vero che l’ideologia conta poco nel totalitarismo. Conta in
democrazia, dove provoca danni. Nei regimi distruttivi la distruzione conta più
delle idee: avesse Hitler eliminato tutti gli ebrei, non per questo la sua
politica di annientamento si sarebbe fermata.
Nascere –
“Non essere nati è una maledizione”. Il pazzo savio di Paul Auster in “La città
di vetro”, il primo racconto della “Trilogia di New York”., ha un’altra veduta,
non convenzionale, della questione: il non nato è “condannato a vivere fuori
del tempo, dove non c’è giorno né notte”. E senza “neppure la possibilità di
morire”.
Nichilismo - “Tu ti credi un nulla, ed è in te che risiede il
mondo”, Avicenna.
Tucidide - Traditori di tutti, “La guerra del
Peloponneso” sembra Scerbanenco. L’atto
di nascita dell’Occidente, della storia, la politica, la retorica, i diritti, è
un seguito di guerre tribali, astiose, spietate, e di tradimenti senza fine.
La differenza con
l’Africa odierna è che ad Atene si scriveva, Tucidide sa scrivere. A parte il
dialogo fra gli ateniesi e i melii, assurto a chiave dell’opera, e della
sapienza politica dell’Occidente, da Atene a Washington, ma sembra alla
Campanile.
Tutti tradiscono
tutti, a Sparta come a Atene. Tucidide, ateniese e democratico, parteggia per Sparta,
surrettiziamente.
Una democrazia,
quella di Atene, che non aveva amici, né estimatori, solo schiavi e sudditi
ribelli. Alcibiade, che tutto perse, Tucidide invece fa “bello-e-buono”, solo
troppo ricco – se lo buggerava?
Tucidide è
perfido. Anche se non si capisce come mai gli spartani, che sconfiggono sempre
Atene, non vincono mai: erano ritardati? E alle somme fa combattersi in tanti,
fra isole, città, paesi, che la popolazione attuale, tre milioni di greci
maschi tra i 15 e i 60 anni, non sarebbe bastata. Il tradimento moltiplica le
orecchie, se non le menti e le braccia?
Verità – “News gratis? La
verità costa”, titolo di giornale. A parte la pretesa che la news sia la verità – normalmente è tutto
l’opposto, la news comunque la fabbrica – perché la verità costerebbe? Perché è
quella “scientifica”, di scienza applicata, milionaria.
zeulig@antiit.eu
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