Visto lontano dal clamore
degli Oscar, un film malinconico, della
vita quotidiana in America come ebetudine. Nel Middle West, che negli Usa è il
Sud Italia, dove il peggio si produce –
il Sud avendovi conservato una sua nobiltà, per quanto perdente. Si dice questo
“Tre manifesti” il film della “fine dell’American Dream”, ma è l’ennesimo,
ormai non si contano più, ed è del genere demenziale, senza le risate.
Non il pulp, alla Leone o Peckinpah. Una sorta di “neorealismo”
americano, introdotto nel 1975 da Altman, regista “europeo”, con “Nashville”, e
dallo stesso indirizzato sulla stupidità – l’incantamento come stupidità. Una
narrazione di forza, la forza dell’onestà. Di comunità confuse, nell’etica, nei
generi, di donne virilizzate e uomini femminilizzati, nelle semplici convenienze quotidiane, senza
un orizzonte.
Il commediografo irlandese
McDonagh non può vederlo diversamente. Come già Wenders, in “Paris, Texas”. E i
fratelli Coen con “Fargo” – anche loro americani ben “europei”, nel taglio
della fotografia e del montaggio, nei dialoghi, nei “mostri”. Storie non di
poveri e i ricchi. Non di cattivi e innocenti, violenti e buoni. Ma poveri,
ricchi, buoni, cattivi tutti messi nella stessa rete, della stupidità: bere,
cantare, sposarsi, lavoriccchiare, fare a pugni, bruciare, picchiare, essere
picchiati. Senza odio e senza scopo.
“Tre manifesti” accumula una
serie impressionante di eventi, anche drammatici, e molto drammatici, del
niente: stupro, assassinio, tumore mortale, suicidio, incendi, aggressioni. Una
sorta di catalogo redigendo dell’insensibilità – stupidità – made in America.
Al meglio nevrotica. La vita di paese – di comunità – esibendo in una catena di
nullità, imbelle, imbecille.
Martin McDonagh, Tre manifesti a Ebbing, Missouri
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