Giuseppe Leuzzi
“Il
più grande nemico della letteratura è la vita pubblica: i paesi in cui si vive
solo nelle piazze pubblica difficilmente hanno artisti o pensatori” – Joseph
Roth, “Autodafé dello spirito” (“Morte della letteratura tedesca”).
“Si
può dire che l’Occidente cominciò a pensare in Magna Grecia”, è una delle
“conversazioni” di Borges.
“La
natura ha dato la forza al Nord e l’intelligenza al Sud”, è di Jean de Mülley, sconosciuto
ai repertori che Stendhal dice storico svizzero e cita in “Dell’amore”. Non spiega
però quale è più produttiva, a meno di non giudicare dagli esiti, ora due
secoli dopo.
In
uno dei “forum” pre-postprandiali in tv due ragazze, una bionda, una bruna, si
lamentano dei meridionali, dei maschi: “Sono violenti, non aiutano, sono
possessivi”, etc. Sono due belle donne, bene abbigliate e truccate. Hanno poco
accento, avendo probabilmente esperienza di mondo, o di mondi diversi. Sono due
donne del Sud, da sempre cioè abituate a considerare poco gli uomini. Ma
restano convinte che i loro uomini sono peggiori dei bergamaschi o dei varesotti.
Carlyle
dice gli arabi “italiani d’Oriente”. Da intendersi come ingiuria al quadrato,
l’ometto dei grand’uomini disprezzando evidentemente gli arabi, oltre che gli
italiani.
Il dialetto
della fede
Torna
forte il dialetto al cinema. Specie nel napoletano stretto, dopo la serie tv
“Gomorra”. Ma anche in calabrese, rom, siciliano. E solo occasionalmente - “A ciambra” – con i sottotitoli in
italiano. Torna anche in teatro. Mentre si è perduto in letteratura – non si
scrivono più romanzi in dialetto, come cinquanta-sessant’anni fa, e i poeti
dialettali non sono più censiti.
Torna
il dialetto come comunicazione di massa. Non più per allargare le potenzialità
del linguaggio, come veniva usato e teorizzato nel revival letterario degli anni
1950-1960. Da scrittori di grande competenza
filologica, Gadda, Pasolini, i napoletani. Con innesti realistici: per rappresentare
azioni e tempi di impianto regionalistico, localistico. Il dialetto torna oggi
piuttosto per semplificare le proprietà del
linguaggio, restringerle. In formule più spesso, interiezioni e modi di dire –
per lo più imprecative, seppure giocose. Non come lingua di piccole patrie, che
schiude altri mondi, sotterranei, sommersi, obliterati, ma come koiné riduttivistica.
Il dialetto ha molte funzioni. Ma ora torna come per chiudere la
porta, isolare, estraniare. La ricezione essendo ormai desueta, un linguaggio
che vuole ghettizzare, turris eburnea volgare,
quale espressione del popolaresco, e non comunicare. Anche per volersi
incomprensibile ai più – i napoletano gomorresco. La lingua si vuole
da qualche tempo un trincea. Torna il dialetto con i linguaggi finto esotici,
trincerati, separatistici.
Torna
il dialetto anche nell’ambito di una semplificazione in genere del linguaggio,
dell’espressione. Su un substrato democraticistico: far emergere anche chi
possiede soltanto mille parole. È a questo aspetto della questione della lingua
che si è agganciato forse Francesco, il papa democratico. Che del dialetto ha
fatto addirittura negli ultimi mesi la lingua del papa. “Le
preghiere fatele in romanesco”, ha esortato il 19 giugno a un convegno romano.
Il 23 novembre è tornato sull’argomento senza fermarsi al romanesco: “Il
dialetto difende la storia di un popolo”.
Girato l’anno, battezzando il 7 gennaio i bambini nella Cappella Sistina
sotto il cielo di Michelangelo, forse per non farli piangere alla vista di quei
giganti muscolosi, ha ribadito: “La trasmissione della fede si fa soltanto in
dialetto” – “il dialetto dei bambini” aggiungendo, quando il coro dei pianti si
è infittito.
Il
dialetto come lingua della fede, dunque. Anche della speranza? Portare la fede
agli analfabeti, e non più gli analfabeti alla fede? Questa parte della questione
non è qui congruente. Ma, certo, la chiesa ne ha fatta di strada, sebbene tutta
in discesa, dal latino al dialetto. Il Sud, se non altro, è rimasto fermo.
Perché
dialetto vuol dire Sud, ecco il punto. Non si fa cinema
né teatro in dialetto lombardo, o piemontese: è il Sud che si pensa e si vede chiuso,
remoto. Il lombardo anzi si nobilita in italiano, con la “traduzione” oggi del
Porta, pensiero e opera dell’ottima Patrizia Valduga.
Il terremoto del Sud e quello del Nord
Si fa molto
rumore sui soldi rubati nella ricostruzione del Belice dopo il terremoto
cinquant’anni fa. Le tv e i giornali ci
fanno vedere ogni giorno opere incompiute o inutili. E su piazza si trovano
sempre commentatori locali compiaciuti: “Si ruba” – gli altri rubano.
Il tormento è
lungo, c’è anche tempo per raffronti ancora più negativi col Friuli: “Lì sì che
la gente è onesta e operosa”.
La verità è
che per la ricostruzione nel Belice furono stanziati 2.745 miliardi di lire, e
ne sono stati spesi, negli anni 1970-1980, la metà, 1.485. Per il terremoto del
Friuli, dieci anni dopo, sono stati stanziati e spesi 9.776 miliardi.
Ma è pure vero
che nel Friuli non si sono perduti una lira per un motivo semplice: non
fidandosi dello Stato, giustamente, le hanno escogitate tutte per ricostruire.
Anche se hanno dovuto regalare alle banche un terzo delle somme stanziate.
Hanno sprecato ma hanno ricostruito - anche velocemente, una quindicina d’anni.
La ‘ndrangheta
globale
Una
decina d’anni fa, capitalizzando su “Gomorra”, i servizi segreti si sono
pagati l’annata dichiarando la ‘ndrangheta l’organizzazione criminale più
ramificata e potente del mondo. Dopodiché giudici e carabinieri si sono
affaccendati a provare l’assunto. Il generale Del Sette, lasciando il comando
dei carabinieri che ha avuto negli ultimi tre anni, ha portato a merito della
sua gestione il contrasto alla ‘ndrangheta. Ultimo evento la retata di un paio
di centinaia di ‘ndranghetisti, e politici asserviti alla ‘ndrangheta, a Cirò,
Crotone, e alcune località della Germania. L’impero era costituito da bottiglie
di Cirò vendute con etichette di “famiglia”, “Zì Tommaso”, “Desiré”. Desiré è
in effetti nome molto locale, evocativo.
Ma
ne imponevano anche l’acquisto? E la bevuta?
L’annata
‘ndrangheta è stata di grande successo mediatico. I servizi l’hanno allora
riproposta, al centro delle loro relazioni, del lavoro di prevenzione svolto
nell’anno, per quasi un lustro. Comodamente: la ‘ndrangheta è sempre meglio che
lavorare. La ‘ndrangheta mondiale consente anche di viaggiare: luoghi ameni,
alberghi e ristoranti pagati, diaria.
Intimidazioni
e ricatti di ogni genere si susseguono nel frattempo giornalmente in ogni luogo
della Calabria. Senza che se ne denuncino e arrestino i colpevoli. Senza
nemmeno che si cerchino. Si aspetta che
si internazionalizzino?
Sicilia
Ha
molta storia e scarsa memoria. Non ricorda più nemmeno Pirandello.
Non una parola ha speso l’Italia per i centocinquant’anni della
morte di Pirandello. Ma non se ne ricorda nemmeno la Sicilia, che pure ama le
celebrazioni, specie della sicilianità.
Sicilybycar,
ditta di autonoleggio, fa mezza pagina di pubblicità sui maggiori quotidiani su
questo tema: “Disponiamo di una flotta con gomme da neve”. Un sogno?
Il
5 luglio 2001 il “Corriere della sera” pubblicava una letterina di Camilleri
che negava di essere l’autore di una lettera pubblicata il giorno precedente a
sua firma. Una lettera che deprecava un articolo del 26 giugno in cui Francesco
Merlo criticava Camilleri. Ma è vero che Merlo, a commento dell’en plein di Berlusconi nel voto in
Sicilia, invece di spiegarne il
perché (la scelta delle candidature vincenti nei collegi uninominali), parlava
di Camilleri come di “letteratura masochista che per divertire il mondo
oltraggia la Sicilia”. Catania (Merlo) contro Agrigento (Camilleri)?
I
siciliani non sono mai in pace con se stessi. Può essere divertente, ma poi
stufa.
L’epopea
dell’isola ha celebrato Cicerone, nelle orazioni “In Verrem”, curiosa e
incondizionata: ottocento pagine di lodi a tutto campo: arte, saggezza, gusto,
laboriosità, ricchezza, onestà. Curiosa perché le orazioni furono prodotte in
un processo penale di corruzione.
“Palermo
la capitale mondiale della droga” e “Milano la capitale mondiale della moda”
sanciva in sintesi Anonimo Lombardo, l’autore nel 1991, all’origine della Lega,
del pamphlet “Della guerra dei
politici contro il Nord e contro l’Italia”. I lombardi hanno un’idea chiara del
mondo, la Sicilia sembra evitarla.
Nel
primo film “Il padrino”, 1972, sempre di Francis Ford Coppola ma sceneggiato da
Mario Puzo, non compare mai la parola mafia – non compare nemmeno nel “Padrino”
di Puzo in lingua originale. Per i siciliani emigrati non esisteva – esisteva il
crimine organizzato, non una confraternita mafia. Riti, formulari, giuramenti,
che appesantivano la vecchia letteratura colportistica delle società segrete,
sono stati resuscitati poi, da giornalisti e giudici in vena di “storia”.
Non
c’è verità, l’isola non la coltiva. Il dato scarno, semplice. Non è semplice –
e non è vero - il verismo di Verga, non alla maniera di Balzac, di Flaubert.
Perfino Sciascia ha una vasta area di riserva mentale.
Il
25 ottobre 1995 un furto di 9 miliardi di lire, cifra iperbolica, fu effettuato
con successo al Porto di Palermo. Nelle 24 ore la somma fu recuperata intatta e
i ladri furono arrestati. L’episodio andò in gloria della mafia – che allora
era Riina, tre anni dopo gli eccidi…
C’è
una rispondenza forte tra Milano e la Sicilia, la spacconaggine, nella forma
della oneupmanship. Con la differenza
che Milano, sotto l’albagia, è operosa – almeno dal lunedì al venerdì, già a
partire dalle sette, di mattina.
“L’odio
in questo bel paese”, scrive Stendhal della Sicilia, “non proviene mai da un
interesse di denaro”. Stendhal forse (non) ha visitato la Sicilia, ma ne scrive
in più punti, “Passeggiate romane”, “Vita di Rossini”, “Roma, Napoli e
Firenze”, “La duchessa di Paliano”. Impossibile contraddirlo.
Un’altra
sua certezza è: “Per i siciliani la parola ‘impossibile’ non esiste, quando
sono infiammati dall’amore o dall’odio”.
leuzzi@antiit.eu