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sabato 3 marzo 2018

Ombre - 406

Gli anglo-indiani difendono l’inglese, spiega Montefiori su “La Lettura”, gli afrofrancesi contestano il francese - come già i maghrebini. È la vacuità del nazionalismo africano, che nel mezzo secolo dalle  indipendenze ha depauperato quel po’ di patrimonio che residuava (sono spaventosi i passi indietro di Kenya, Somalia, Costa d’Avorio, Zimbabwe, Eritrea, Tunisia… la lista è interminabile), e i giovani manda allo sbando in Europa, immigrati aggressivi destinati all’elemosina. Ma è anche la verità dell’assimilazione. Che vuole essere una ascesa e non una discesa: se troppa, fino all’identificazione (Italia, Francia, Portogallo), è respinta – bisogna mantenere le distanze (Inghilterra, Germania). Il rispetto comincia da se stessi.

Il partito Comunista cinese non cambia più faccia periodicamente, si tiene a vita Xi Jinping. La dittatura si dichiara. Forte ora di Tencent, Alibaba e altri guardiani della rete, che controlla saldamente. Ma noi non lo sappiamo e non ci interessa.

Anche negli Usa, che sarebbero la superpotenza unica: il problema nei media americani è se non sia stato Trump, o magari suo genero, a facilitare questo lunga vita al presidente Xi. La politica estera come gossip, la politica mondiale.


Solo l’“Economist” ci fa la copertina: How The West Got China Wrong”, l’Occidente non ha capito nulla della Cina. Solo in Inghilterra si fa ancora la storia, un po’, e la politica internazionale. Come faremo d’ora in poci, con la Brexit – sarà per questo che ci hanno abbandonati, non capiamo nulla?

“Assenti la ripresa, una crescita per abitante pari a quella di Francia e Germania negli ultimi anni comparati dall’Ocse, l’export che ha superato quello francese fuori dall’Ue, i debiti netti sull’estero più bassi di quelli di Francia e Spagna e ormai quasi a zero, o una crisi bancaria arginata spendendo una  frazione del denaro pubblico usato in Germania, Olanda o Regno Unito”, lamenta Fubini sul “Corriere della sera” a proposito dell’immagine dell’Italia nella campagna elettorale. “Assenti”, lamenta, sui giornali esteri. Perché, sul “Corriere della sera” sono (stati) presenti?  

Andiamo a votare con un sistema elettorale complesso. E anche difficile evidentemente da spiegare, se i giornali vi dedicano pagine di cui non si capisce niente.
C’è anche questo, che il giornalismo di servizio non esiste più, i media non sanno dare una informazione che sia utile. Ma di più conta una politica aggrovigliata su se stessa, se partorisce in cinque anni un aborto.

Sarà l’elezione delle schede nulle record. E dei risultati impregiudicati a lungo, fra contestazioni di ogni tipo: il Rosatellum è fatto bene per questo. Ma allora si fanno le elezioni giusto per un po’ di spettacolo, un moviolone? Dio fa impazzire chi vuole perdere?


L’assassinio di un giornalista in Slovacchia, opera evidente di servizi segreti (l’assassino ha la fiducia della vittima e uccide con un colpo secco), viene imputata convenientemente a degli italiani da tempo lì residenti. Dei calabresi. Subito media e procuratori italiani sanno tutto di questi calabresi, che fanno parte della ‘ndangheta, che ne sono emissari, etc, che fino al giorno prima non conoscevano. In Italia non c’è bisogno degli hacker di Putin.  

Un’altra immagine solleva imperiosa la foto di gruppo del governo Di Maio: quella dei governi (i “governicchi”) che Andreotti imponeva a Berlinguer negli anni del compromesso storico: nomi ignoti, di nessuna autorevolezza, qualcuno in età. I governi del disprezzo.

Di tre concorrenti, diplomati, a un quiz Rai, due non sanno fare l’addizione. Non difficile: quanto fa 1829 più 90. È l’Italia alla vigilia del voto.

Un mostra celebra Giuseppe T ucci, l’orientalista, con foto delle sue spedizioni nel Tibet, e reperti della sua collezione. Un’altra mostra celebra Mario Schifano. Entrambe a New York. Tucci, Schifano?

Si vede nel postpartita Rai di Juventus-Atalanta di coppa una sola azione, quella del goal. Che l’emittente fa partire da lontano, da Benatia che rilancia la palla col petto, ma forse con la spalla, anzi col braccio – inquadratura rapida, di sbieco, per insinuare il dubbio. Facendola finire con un’angolazione in cui il fallo da rigore appare invece veniale. Chi ha detto che la tecnologia risolve? Basta un tecnico del montaggio, se non il regista della trasmissione, se non il giornalista in studio, dichiarato antijuventino, per cambiar e le partite. L’abc dell’informazione.

Nella legislatura che si chiude “ci sono stati gruppi parlamentari i cui membri in massima parte (parliamo del 51 per cento) non riuscivano a dichiarare agli uffici delle Camere nessuna attività lavorativa prima dell’ingresso in Parlamento, risultando, ai fini della posizione fiscale nell’anno precedente all’elezione, “incapienti”, parola sinonimica di disoccupati” - Pino Pisicchio, formiche.net.

Fa pena la regina Elisabetta schierata alle sfilate di moda londinesi, vecchierella di novantadue anni, per ridare un po’ di glamour a una piazza che la Brexit condanna alla emarginazione. La prefigurazione di una paese che si provincializza, contento.

Il bisbetico domato

L’addomesticamento di un uomo. Un grande sarto bisbetico e snob da parte della sua nuova pupilla, che ha preso sguarnita camerierina da caffé di paese. In  una imprecisata Inghiltera postvittoriana – è un film da interni, con due soli set.
Un racconto né buono né cattivo. Noioso ma onesto. Jamesivoriano, dell’Ivory che filmava i romanzi di E.M.Forster – un racconto forsteriano, benché il plot sia di Shakespeare, a generi invertiti. Onestamente interpretato, da attori con una sola espressione, Daniel Day-Lewis compreso.
Si segnala per la promozione, che ne ha fatto un capolavoro. Premiato a tutti i festival americani,  possibile plurimo Oscar, e film più stellato dei critici ossequienti, che lo mettono già in cineteca. .
Paul Thomas Anderson, Il filo nascosto

venerdì 2 marzo 2018

Problemi di base elettorali ante quem - 401

spock

Davvero gli italiani votano contro o per i poveri negri dell’Africa?

Chi le spara più grosse, Salvini o Di Maio?

Si può correre per far perdere un altro – le campagne elettorali non costano?

Potere al popolo, un altro partito per salvare l’Italia dai partiti?

C’è differenza tra Grasso e Ingroia – Grasso non ha la barba?

Traini è segno che gli italiani sono razzisti, o non sono razzisti?

Grillo voterebbe il governo di Di Maio?

Ma si vota sul serio o è uno scherzo?

spock@antiit.eu

Stendhal patito del selfie

È l’edizione Livre de Poche, la “prima edizione completa”, 1968, dei racconti di Stendhal,  a eccezione di quelli riuniti col titolo “Cronache italiane”, e degli abbozzi di racconto o romanzo. Più completa dell’edizione Pléiade di Henri Martineau. Messa insieme da Victor del Litto, allora stendhaliano principe. Collazionando i testi sui manoscritti. E provvedendoli di note dettagliate (cronolgia, forma, natura del progetto).
Venti pezzi, di cui sedici frammenti, postumi, Quattro racconti finiti, di cui tre licenziati da Stendhal, nota Del Litto, e uno postumo – ma Del Litto confonde: due racconti sono stati licenziati da Stendhal,”Le Philtre”, e “Le Coffre et le Revenant”, e due sono postumi, “Souvenirs d’un Gentilhomme italien” e “Mina de Vanghel”.
Materiali, più che altro. Testimonianza di una vcazione tardiva: Stendhal puntava a diventare autore di teatro, quella di romanziere è una vocazione di ripiego, avviata quando aveva già quarant’anni – ne vivrà quasi sessanta. E il primo romanzo “Armance”, 1827, un plagio, non è granché. Gli abbozzi servono a mettere in luce il doppio binario su cui si basano i due grandi romanzi: il romanzesco, calato nelle caratterizzazione, dei personaggi e le cose (usi, costumi, luoghi). E colato nella forma dell’egotismo, rapportato a se stesso. Tanti progetti e due grandi romanzi, una sola storia, del sé. Come avrebbe volute o potuto essere.
Stendhal, Romans et nouvelles, Livre de Poche

giovedì 1 marzo 2018

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (356)

Giuseppe Leuzzi

Proponendo una sua “Società meridionale” all’inchiesta di Leo Longanesi sullo “stare in società” – per  “L’Italiano”, la rivista fascista, nel 1932 – Brancati non dà una risposta. Ma trova che i modi di dire meridionali non riflettono una società borghese. “Son tutti proverbi o locuzioni ricavate dal linguaggio dei pescatori, cacciatori e contadini”.

“Non dico niente in un senso o nell’altro, perché nessuno dica che io ho detto qualcosa in un senso  nell’altro” è detto austriaco – secondo l’eminente viennese Ernst Gombrich, lo storico dell’arte, nelle memorie “Dal mio tempo”.

Risa di qua, Risa di là
Michele Ainis ritorna a Messina per scriverne il peana – o non sarà un epicedio? – sotto forma di romanzo, “Risa”. Da figlio predestinato, Ainis essendo in arabo sorgente o fontana, che è quella di Orione, che fondò la città, e\o quella del temibile Nettuno - che è anche, non si sapeva, il dio dei terremoti. Risa il costituzionalista dice la città annegata. Sotto i 36 terremoti nei due millenni cristiani, o tra i laghi (di Ganzirri) e il mare, e tra i due mari, lo Ionio e il Tirreno. Una città stretta a tenaglia, la dice ancora, o a cavaliere, tra i due mari e tra laghi e mari, e tra i Nebrodi e i Peloritani, tra la chiesa latina e la chiesa greca (il vescovo di Messina è anche archimandrita), e tra Mata e Grifone, i suoi giganti, la bianca e il nero (ma anche viceversa, va detto, le maschere sono intercambiabili). E gli sono mancati i due vulcani, uno sul corno sinistro, Stromboli, e uno sulla coda destra, l’Etna. Vulcani attivi, attivissimi Una città per questo allucinata?
Da Ainis indietro, i grandi letterati messinesi del Novecento hanno tutti dentro qualcosa di visionario: D’Arrigo, Consolo, Cattafi, Lucio Piccolo. Si direbbe effetto tellurico. Ma è senza dubbio, e malgrado tutto, effetto di luce: Messina è città luminosa, prende il meglio due mari. La luce del Nord, diafana, ghiaccia, e quella del Sud.
Risa per Messina sembra però nome usurpato. Stava per Reggio nella “Chanson d’Aspremont”. Il primo ciclo cavalleresco, il primo scritto dopo che recitato, anche rispetto agli originali cantari francesi. Una mescidanza del ciclo cavalleresco provenzale-occitanico col ciclo carolingio del Reali di Francia e col ciclo arturiano dei Cavalieri della Tavola Rotonda. Un trapianto voluto dai Normanni appena arrivati, nell’XI secolo, nell’anonima “Chanson d’Aspremont” - anonima, ma databile al primo Millecento, due-tre secoli prima che Andrea da Barberino, divulgatore delle saghe francesi,  ne ricavasse uno dei  suoi “romanzi” di successo. La “Chanson” fece da prologo alla più nota “Chanson de Roland” – e quindi all’“Orlando innamorato” e all’“Orlando Furioso”.
I Normanni in Calabria e in Sicilia segnano il punto del trapasso  delle due confessioni, dalla greca alla latina. Una non trascurabile corrente di pensiero ne vede il bizzarro insediamento in Sud Italia in qualità di “agenti del papa”, per latinizzare contrade di rito greco-ortodosso. L’Aspromonte era l’ultimo baluardo della presenza bizantina da conquistare, nei secc. IX-XI – la conquista si realizzò mediante il culto di una “santità” comune alle due pratiche, la Madonna. Ma Risa è un’altra storia.
Il lungo poema è di una storia d’amore, tra Ruggieri e Gallicella, della caduta di Risa (Reggio Calabria), e del giovane Rolandino, che nell’Aspromonte ha l’iniziazione al cavalierato, e si scopre eroico, imbattibile. Con l’accortezza di fare del nemico un occupante mussulmano – gli invasori sono “Africanti” - invece che bizantino. Gli ingredienti che poi diventeranno canonici.
“L’estrema frontiera dell’occidente era collocata a sud e lì convenivano tutti gli eserciti d’Europa al seguito di Carlomagno”, scrive la massima - e sola - conoscitrice del poema, Carmelina Sicari, nel saggio “Il Sud e la lingua”: “In Aspromonte Orlando vince Almonte e salva Carlo che sta già per soccombere”. Non senza conseguenze, spiega la studiosa: “Il nome dell’Aspromonte risuona per tutta Europa giacché entra nel novero delle canzoni di gesta, veri e propri manuali di formazione umana e cavalleresca”.
Messina, d’altra parte, ora dimenticata se non per l’ingloriosa vicenda del ponte, è stata a suo nome luogo privilegiato delle lettere. Eco forse delle prime Crociate, alcune partirono dal suo porto, e dei poemi che le accompagnarono. A partire da Boccaccio, con la novella “Lisabetta da Messina”. Con ripetuti riferimenti di Bandello e Shakespeare. Anche di Molière. In un apologo Diderot elogia “un calzolaio di Messina”, che del laboratorio fa corte di giustizia. Schiller ha una “Sposa di Messina”. Vittorini “Le donne di Messina”. Fino all’ “Horcynus Orca” di Stefano D’Arrigo, 1975 – qui finisce la storia.
“Eufemio da Messina” è opera – una tragedia – di Silvio Pellico prima della prigione: Eufemio, turmarca della flotta bizantina, accusato per gelosia di avere sposato una monaca, si ribella e finisce dal sultano di Tunisi. Nietzsche ha “Gli idilli di Messina”. Nietzsche a un certo punto s’imbarcò a Genova, come Colombo proclamandosi Liberator Generis Humanorum, su un cargo per Messina, dove sbarcò in barella, mezzo morto, per decretarla, come già Sorrento e poi Roma, sua città ideale: “Questa Messina è proprio fatta per me”.
È stata “patria dei barbieri” per Soldati, della rasatura a mano libera. Più spesso torna nella letteratura tedesca, Schiller appunto, Goethe, Jünger, Lenz, etc.: per essere stata forse patria di Evemero, per il quale gli uomini sono dei, o luogo di raccolta di crociate e flotte, che sempre portò buono ai cristiani, o perché si pronuncia facile. Per molti è toponimo succedaneo, per chi va a Taormina, per i quadri viventi di von Gloeden, e non ha il coraggio. Ma per molti altri no. Mark Twain la dice fiabesca: “La città di Messina, di un bianco di latte, stellata e scintillante di lampioni, era uno spettacolo fatato”. In crociera nel 1867, Twain arriva allo Stretto alle due di notte d’inverno, ma “il chiaro di luna” trova “così brillante che l’Italia da un lato e la Sicilia dall’altro si vedevano così distintamente come se non fossero separate che dalla larghezza di una strada”.
Lo Stretto d Messina è uno dei “luoghi maledetti” (Scilla e Cariddi) di Olivier e Sybille Le Carrer, del loro “Atlante dei luoghi maledetti”. Insieme col castello di Barbablù  e altre amenità, A motivo della leggenda di Scilla e Cariddi. Ma nell’esperienza del card. Newman è un luogo incantato. Il cardinale, allora giovane presbitero anglicano in viaggio verso l’Italia (qualche anno dopo, insoddisfatto del secolarismo anglicano, opterà per la confessione cattolica, facendosi ordinare prete e ascendendo infine al cardinalato), intrapreso nel dicembre 1830 per accompagnare l’amico Froude, tubercolotico in cerca di climi migliori, da Londra a Gibilterra, Malta, la Sicilia e Roma, nel corso del viaggio fu investito da una tempesta di mare. Cioè soffrì molto il mal di mare, poiché è quello di cui soprattutto parla nella corrispondenza. Per concludere poi con una nota di soddisfazione, al ricordo della notte trascorsa a metà giugno 1833 incalminato nello Stretto di Messina, alla vista dei lontani fuochi delle coste – incalminato, cioè in calma piatta – “lontani” in realtà vicini, lo Stretto è… stretto, ma remotizzati dalla notte. Ne trasse ispirazione per “Lead Kindly Night”, che viene presentato come “uno dei più begli inni della liturgia anglicana”.
L’inno è “The Pillar of the Cloud”, datato at sea, in mare, 16 giugno 1833:
Lead, Kindly Light, amid the encircling gloom
Lead Thou me on!....
Guida, luce gentile,
nello sconforto che ci attornia,
portami via!...”
L’inno è riferito allo Stretto di Messina dallo studioso del cardinale Simon Leys, “Le Studio de l’inutilité”. E avrebbe potuto essere, lo Stretto è, in ogni stagione, un luogo incantato – niente a che vedere con Scilla e Cariddi.  Ma il cardinale stesso, scrivendone agli amici, spiega che l’ispirazione gli venne negli stretti di Bonifacio, all’altezza della Corsica, mentre si trasportava a Marsiglia, da Palermo, dove era stato inferno per tre settimane - lui stesso non sapeva di che: diceva di nostalgia, di un malessere quindi psicosomatico, ma il suo valletto non gli credeva.

Fu sede del secondo collegio per l’istruzione dei non professi, registra la storia dei gesuiti, dei giovani laici - dopo quello aperto nel 1544 a Gandia, la città tra Valencia e Alicante, dal futuro santo Francisco Borgia per i moriscos. Essendo venuto al corrente di quello che era accaduto a Gandia, Jerónimo Doménech pensò di fondare un collegio a Messina, avendovi trovato un’immensa ignoranza nel clero: coinvolse nell’iniziativa Eleonora Osorio, la moglie del viceré di Sicilia, e il 19 dicembre 1547 le autorità cittadine chiesero a Ignazio l’invio di insegnanti, ai quali si garantiva cibo, vestiario e alloggio – poi il collegio fu spostato ad Acireale.

Pascoli, che ci abitò con la sorella Mariù, ne mantenne ricordo ottimo: “Io ci ho passato i cinque anni migliori, più operosi, più lieti, più raccolti, più raggianti di visioni, più sonanti d’armonie della mia vita”, scriverà qualche anno dopo, il 10 luglio 1910 a Ludovico Fulci – deputato radicale di Messina per vent’anni, mazziniano, docente di Diritto Penale. Fa grande caso Dumas nelle sue opere più tarde - specialmente ne “I garibaldini”, dove lo ritrova tra i sobborghi marinari (allora) di Messina, dai nomi beneauguranti di Pace e Paradiso - del capitano Arena, persona e personaggio del suo romanzo di viaggio “Lo speronare”, insieme col giovane militare francese esule De Flotte: un siciliano dal “volto buono, sempre sereno, anche nella tempesta”.
Fu l’ultima ad arrendersi ai Savoia, dopo Gaeta, il 13 marzo 1861. Ma di Messina Emerson ricorda che “in un giorno di pioggia tutte le vie si accesero di ombrelli rossi”. Era stata la città che per prima aveva chiesto la Costituzione nel ’48, finendo per dare il nome al Re Bomba, Ferdinando II delle Due Sicilie, che la distrusse per due terzi, raccapricciando l’Europa.
Un passato di spessore, insomma, di una cittadona oggi informe, di passaggio per il traffico col continente. Già committente di Antonello, Caravaggio, Ribera, Guercino, Mattia Preti, Rembrandt, per mani munifiche e di gusto, da ultimo nel Seicento Antonio Ruffo della Scaletta, di Bagnara là di fronte oltre lo Stretto, collezionista reputato in tutta Europa, fra artisti, procuratori e connoisseurs - lasciò una collezione di 1.500 quadri. Il nobile e ricco Bembo - che inventerà l’italiano, sarà l’amante di Lucrezia Borgia e morirà cardinale - venne a impararvi il greco da Costantino Lascaris, che la città non sa chi sia – come del resto Evemero e lo stesso Bembo. La città mantiene postura strepitosa e quartieri di nome Paradiso, Pace, Contemplazione. Ma trascura Antonello e Caravaggio, che tuttora ospita. Trascura anche Alessandro Scarlatti, che vi è nato. Per non dire di Polidoro Caldara detto da Caravaggio che vi è sepolto, rifugiato in città da Roma dopo il Sacco – ucciso da un discepolo, Tono Calabrese, in un tentativo di rapina (un ragazzetto, per come lo ha lasciato dipinto Polidoro nell’“Adorazione dei pastori” a Capodimonte, uno dei tanti): nel primo catalogo del secolo d’oro, di Giovan Paolo Lomazzo, “Idea del Tempio della Pittura”, 1590, Polidoro da Caravaggio è tra i sette “governatori dell’arte”, lui con Leonardo, Michelangelo, Raffello, Mantegna Tiziano, e Gaudenzio Ferrari. Antonello vi ebbe una mostra nel 1953, ma era un’idea del buonissimo architetto Scarpa, veneziano.
Con un ruolo all’improvviso invertito rispetto a Reggio Calabria, sia “Risa” l’una o l’altra città. Reggio e Messina, benché divise dallo Stretto, sono da tempo considerate dai geografi una “conurbazione”: due città integrate. Con un ruolo subordinato di Reggio nei confronti di Messina. Che aveva l’università, i migliori specialisti e le migliori cure, i migliori negozi di abbigliamento, e perfino le migliori pasticcerie. Un porto migliore, a uso militare a civile, con un arsenale – cantiere navale militare. Più impieghi e più investimenti di Reggio. Una squadra in serie A, o almeno in serie B. E faceva i giornali (“il” giornale, la “Gazzetta del Sud”) per Reggio.
La conurbazione era più egualitaria in materia religiosa e sportiva: molti messinesi erano – e sono - devoti della Madonna di Polsi in Aspromonte. E andavano – e vanno – a raccogliere funghi e sciare in Aspromonte piuttosto che sull’Etna. Ma più estesa, e quasi ancillare, era la devozione di Palmi e Reggio per la Madonna della Lettera di Messina, e anche per la Madonna Nera di Tindari. E di tutto il reggino per Mata e Grifone, i “giganti” di cartapesta di Messina. Nel quadro di una subordinazione di Metauros (oggi grosso modo Gioia Tauro), che pure era colonia locrese, a Messina-Zancle.
Fino a pochi anni fa Messina era la capitale della Calabria, culturale, commerciale e professionale – si andava a Messina anche per il dentista. Ora ogni città calabrese si può dire più ricca di Messina, che si è ridotta a fare da transito dall’A 3 all’A 18, ai traghetti canguro roll on-roll off.  A pochi metri dall’approdo dei canguro ha un museo provinciale pieno di Antonello e Caravaggio, ma nessuno lo sa – Antonello che visse quarantanove anni appena, e lascia quarantanove capolavori, da Dresda a San Diego di California. Messina ha liquidato la cinquecentesca università, relegandola in irraggiungibili periferie, e il commercio, riducendosi al ruolo di piccolo società di galantuomini, chiusa nelle ville di Ganzirri e Capo Faro mentre fuori imperversa il popolazzo vile e corrotto – che non c’è più, nemmeno quello, solo immigrati nordafricani spaesati, per piazza Cairoli e il viale San Martino. Ha rifatto in piccolo la fuga da se stessa che ha fatto Marsiglia – ora però recuperata dopo un trentennio di abbandono. Mentre le città calabresi hanno ognuna la loro università, i centri commerciali rutilanti e, bene o male, l’ospedale.
Lo storico Galasso documenta, “La Calabria spagnola”, un traffico molto più intenso a Messina nel Cinquecento rispetto a Reggio. E nella stessa Reggio un buon terzo delle operazioni portuali in capo ad agenti e committenti messinesi. Oggi il traffico è invertito. Reggio ha centri commerciali, musei e rovine ben curate, ristoranti, pasticcerie, e l’università, mentre Messina si è ristretta. Imbruttita anche. Reggio si ripulisce, ed è perfino un porto attivo, anche se solo per l’immigrazione irregolare, mentre Messina è un porto bello e vuoto, se non per imbarcazioni minime della Marina Militare  – le traghetto dalla Calabria utilizzano un attracco fuori città verso capo Faro, lontano dal porto, allo snodo con le autostrade per Catania e Palermo. A Messina attraccano 150 navi crociera l’anno, ma per prendere l’autostrada per Taormina.
Al museo - la galleria provinciale, con gli Antonello e i Caravaggio - Longanesi scopriva “la tristezza siciliana , antica di secoli, che li lega e ci segue da una stanza all’altra”. Di quadri alle pareti “tutti eguali, scuriti e sinistri, come dipinti dallo stesso artista in secoli diversi”. Lo sono ancora. Al “gran caffè” di Messina, che sarà stato l’Irrera di piazza Cairoli, all’epoca un monumento fastoso degli anni 1930, rutilante di specchi, marmi, pasticceria policroma, Longanesi trovò tutti eccitati dalla sua presenza – dalla presenza del forestiero: “Il caffè è gremito di folla rumorosa e eccitata; tutti guardano noi, nuovi del luogo; e ci guardano insistenti, con occhi desolati e teneri che sembrano celare un amoroso lamento”. Come le bestie allo zoo guardano il visitatore.
“Vista dal ferry boat che attraversa lo Stretto dal continente, Messina appare una piccola città portuale ragionevolmente prospera, con alcuni grandi moderni palazzi di uffici, soprattutto banche, sul lungomare, e con ville graziose di media grandezza distribuite sulle colline dietro la città. L’impressione è falsa. Messina è di fatto una città morta”. È la silhouette che della città disegna Margaret Carlyle, “The Awakening of Southern Italy”, 1962. Avendoci vissuto in quegli anni per fare le scuole, non si può che testimoniarlo: era città gradevole. Che fosse morta però non si vedeva. Sarà accertato qualche anno dopo, quando la città e la gloriosa università riusciranno anche a imbruttirsi, nello squallore. La storia come freccia può andare al rovescio. 

Meridionale era il fascismo
Era – si voleva - “Sud” l’Italia fascista, orgogliosamente, la reincarnazione leghista avrebbe problemi ad avallarlo. Per tutti il corsivo che apre “L’Italiano”, la rivista di Arpinati e Mussolini, diretta da Leo Longanesi, al n. 1, il 14 gennaio 1926. È con un programma di Sud contro Nord che la rivista si propone:
“I popoli nordici hanno la nebbia, che va di pari passo con la democrazia, con gli occhiali, col protestantesimo, col futurismo, con l’utopia, col suffragio universale, con la birra, con Boecklin, con la caserma prussiana, col cattivo gusto, coi cinque pasti e la tisi Marxista.
“L’Italia ha il sole, e col sole non si può concepire che la Chiesa, il classicismo, Dante, entusiasmo, l’armonia, la salute filosofica, il fascismo, l’antidemocrazia, Mussolini.
“Questo giornale cercherà di dissipare le nebbie nordiche che sono scese in Italia per offuscare il sole che Dio ci ha dato”.

leuzzi@antiit.eu

Una tempesta tira l’altra

Tutto quello che può succedere in barca. Di brutto, una catastrofe dietro l’altra.
”L’autore più venduto al mondo” si fa assistere da un coautore rampante, uno specialista di mare?, per uno storione familiare che è una diavoleria. Un patto matrimoniale scatena una serie feroce di delitti. A Napoli si direbbe di scalogna nera, per tutti. Ma non c’è tempo per fare ironia, si corre – si legge di corsa. Su un composto semplice, molto. L’America dei ricchi, come spesso nei gialli Usa – anche nei romanzi mainstream, ma non al cinema (l’ultimo film di Spielberg, “The Post”, è un’eccezione). Senza sorprese: subito sappiamo che la famiglia deve sparire in mare dove sta facendo una crociera “formativa”, sulla barca del padre, dopo vi è morto il padre – Napoli avrebbe da ridire anche qui. Sappiamo pure subito che la famiglia la scampa. Ma ogni pagina stilla lo stesso adrenalina.
Grande tecnica del racconto, grandissima. Quasi fredda – scontata. E tutto pretestuoso – senza credibilità, il lettore è sempre “estraniato”, Brecht sarebbe contento. Ma ben maneggiato, ottimamente, il lettore non si può – non si vuole – distrarre. Con pointes d’autore, come per dire: sappiamo fare di meglio. Il Grande Avvocato che si deve esibire per trucchi suoi in chiesa, alla predica, “trovava ironico, quasi divertente, che molti potenziali abilissimi avvocati vestissero abiti religiosi. In fondo, anche loro avevano un grande talento nel convincere le persone a credere in fatti che non si potevano dimostrare”. E un processo esemplare – una maiuscola parodia - del processo esemplare made in Usa che tanto si vanta, di come il colpevole certo nella decantata procedura si fa assolvere, giudici alcune casalinghe e quattro vecchietti o nullafacenti. 
James Patterson-Howard Roughan, Come una tempesta, Tea, pp. 317 € 6,90

mercoledì 28 febbraio 2018

Letture - 334

letterautore

Antifascismo – Malaparte, confinato a Lipari, passò presto, per “interessamento di una misteriosa signora” (Edda Ciano, la figlia di Mussolini) libero di fatto, e provvisto per gli spostamenti di un’Alfa ministeriale, con autista. Animava la corte di Edda col marito Costanzo Ciano nella lunga vacanza in Versilia – di cui Ciano erano i signori.

Corrado Alvaro procurò a Malaparte e Maccari fascistissimi una patente di antifascismo. Fu nel 1931: Malaparte direttore e Maccari redattore capo della “Stampa”, fecero avere il premio letterario  del giornale a Corrado Alvaro, che era inviso a Mussolini. Per questo furono licenziati dal senatore Agnelli, i padrone del giornale. O così si disse. Un’altra corrente di pensiero vuole che Maccari fu licenziato per avere illustrato un ricevimento a corte con una  lista vecchia di presenti – tra essi un principe che era intanto morto. E Maccari era alla “Stampa” per volere di Malaparte. Il quale da parte sua fece intendere di avere avuto una tresca con la nuora del senatore – la madre dell’Avvocato e le sue sorelle.

Friedrich Hebbel – Il primo tragediografo della borghesia è “il genio della brughiera e della inesauribile ananke protestante”, J. Roth, “Al bistrot dopo mezzanotte”, 266.

Gallenga – Maria Monaci Gallenga compare nella Parigi di J.Roth, “Al bistrot dopo mezzanotte”, 38: “Nella mostra dell’artigianato”, 1925, “gli Italiani hanno un padiglione con le stoffe, dipinte in oro e argento,  della signora Gallenga. Mantelli e abiti sontuosi dagli ornamento rinascimentali. Qui si danno convegno le signore americane.  Per ore palpano le stoffe e le provano tutte.. Le più giovani, con il nasino corto e belle gambe affusolate, si drappeggiano voluttuose in questi mantelli alla Borgia, e sembrano ragazze del varietà. Anche le attempate e formose matrone, con grandi occhiali di corno, non sanno resistere alla tentazione e si avvolgono pure loro in un rinascimentale abito da sera di velluto rosso o viola”.
Stilista, la prima italiana a Parigi, la signora Gallenga fu anche la prima a produrre alta moda per molti – poi alta moda pronta, che farà la fortuna dei couturier italiani a partire dai tardi anni 1970, negli Usa, in Giappone e in Germania.
                              
Gesù – Era brutto? Lo sostiene Origene nel “Contra Celsun”. Cioè il Celso da contraddire lo aveva sostenuto, e Origine su questo punto gli dà ragione. Come l’avranno saputo?

Museo – Nuove prospettive di gestione apriva giù J. Roth tra le due guerre, in una corrispondenza dalla Francia - “Lione”, poi nella raccolta  “Nella Francia meridionale”: “La nuova vita non fiorisce dalle rovine. Sono le rovine a fiorire nella nuova vita. In un museo non sarebbero altro che reperti”.

Pollicino – La sua storia “è semplicemente la storia dell’uomo” – G.K.Chesterston, “Eretiche”: “Il gigante ucciso da Pollicino si considerava come il superuomo. Verosimilmente, riteneva Pollicino un essere piccolo e limitato che tentava di arrestare la marcia in avanti della vita”. Ma sbagliava: “Il piccolo Pollicino era il campione delle regole permanenti dell’umanità, del principio: un uomo una testa; un uomo una coscienza; del principio: una sola testa un solo cuore. Era totalmente indifferente alla questione di sapere se il gigante era un gigante particolarmente gigantesco. Tutto quello che desiderava sapere era se il gigante era un buon gigante, cioè se poteva servire a qualcosa”.

Roma – Lo statista, diplomatico, filologo e filosofo tedesco Wilhelm von Humboldt, fratello maggiore del naturalista ed esploratore Alexander, modellatore del liceo tedesco, col ginnasio, scrisse alcune centinaia di sonetti. Tra essi alcuni dedicati a Roma, dove fu ambasciatore dal 1803 al 1808: “Alla ragazza romana”, “all’uomo romano”, al ricordo del figlioletto Wilhelm, ai “Domatori di cavalli” nel piazzale del Quirinale, che il bambino ammirava, morto di malaria l’estate dello stesso 1803 ad Ariccia dov’era in villeggiatura. Sono tutti componimenti nostalgici, per dire che non avrebbe pensato di separarsene mai più, e che i presto i destini si ricongiungeranno, con la città “di grandezza divina”. Ne “I domatori di cavalli” immagina il bambino, col quale doveva avere attraversato il piazzale namno nella mano, che lo aspetta: “Solo un sentiero porta all’Olimpo stellato,\ e lungo il baratro profondo arriva all’ombra della notte.\ Può apparire terribile a chi lo percorre con passo solitario\ me, ahimé, attende gentile la mano soccorrevole del figlio”. 

Salgari – Fu caratteristicamente eroe e martire del fascismo – caratteristicamente perché dileggiato e osannato sempre in eccesso, non c’erano parole abbastanza buone né abbastanza cattive, il fascismo si vuole netto e tagliente. “Il Selvaggio” di Maccari, la rivista di Strapaese, fa grande caso nel n. 2 del 1928 di un Paolieri che sulla “Nazione” ha “messo a posto” Salgari: “Non solo scriveva con la sciatteria degli scrittori a poche lire la dispensa, ma non poteva essere un vero e proprio educatore, come ad esempio l’impareggiabile Giulio Verne, a causa della sua completa mancanza di cognizioni scientifiche, oltre che di sintassi e di lingua. Il Salgari non era che un abile rimpolpettatore del Mayne-Reid,  dell’Aymard, del Boussenard e, soprattutto, dell’Assollant”. Un ottimo pedigree, ma la razza migliorava con Salgari.

Sherlock Holmes – È ben establishment. Per indirizzo, vizi, parentele, clientela, palmarès dei casi risolti. Ha casi anche rognosi e “duri”, da duro noir  americano, ma non lavora per fame, né per pagarsi l’alcolismo, vizio da poveri, e anzi non si fa pagare, un vero aristocratico.

Tedeschi - “I tedeschi nuovi, borussificati” (da Bismarck) sono di Joseph Roth, “Al bistrot dopo mezzanotte”, 276.

letterautore@antiit.eu

L’amore non muore

O libro dei dolori? Patrizia Valduga vi piange Giovanni Raboni, l’“infinitamente amato” della dedica, nella lunga agonia. Arrabbiato anche. Contro Milano: “La tua Milano, amore, fa paura\ e mi tratta da esule e sbandita”. O contro i giornalisti, una lunga tirata, interminabile. Una sorta di eco alle “Canzonette mortali”, 1983, la raccolta che Giovanni aveva dedicato a Patrizia, nella quale si chiedeva: “Avrò il coraggio\ di tacere, sorridere, guardarti\ che mi guardi morire”. Ma ilare: un libro vivo, vivace. A partite dalla ritmica rima perfetta, iterativa, in seconda linea - compreso il cuore-amore.
Versi malinconici, di una che vive e ama “morentemente”. Ma non  sconfitti, non rassegnati, versi rumorosi - “Oh Dio della pietà, mostra pietà”. La poesia è inerme di fronte al male. Ma se non può evitarlo, può disinnescarlo. Una lunga sofferenza e la morte precoce si svuotano sommersi da questo pieno d’amore.
Un tributo grato più che disperato. A chi è stato tutto, a fronte di niente – “io sempre a chiedere come una figlia”. Con citazioni da Raboni, in dialogo costante. Fino all’ultima confessione, una memoria insorta a morte intervenuta: la violenza subita bambina che la mutila dell’abbandono, della voluttà.
Ai 23 componimenti versati in postfazione ai versi postumi di Raboni, due brevi raccolte sono accostate. Della rimembranza, la più dolorosa, che riporta alla bimba di due anni, dell’orco che l’ha marchiata a vita: “Amare e non potermi abbandonare\ fare l’amore e non poter godere…”.. Un ultimo segreto, confidato a futura memoria, nella morte essendo cadute le difese, della battaglia perduta per riconquistare l’eros: “Ed è così che la poetessa erotica\ ha un erotismo che non ha due anni!” La terza è la riconciliazione, ma su ali di sdegno: verso la città, la stagione letteraria, il deserto dei tartari dell’opinione (l’editoria, la critica, la letteratura, la riflessione…): la novità non può compensare la perdita.
Patrizia Valduga, Libro delle laudi, Einaudi, pp. 66 € 8,50

martedì 27 febbraio 2018

Problemi di base femminili - 400

spock

„Quel che difende le donne è che pensano che tutti gli uomini siano uguali, mentre ciò che perde gli uomini è che credono che tutte le donne siano diverse.“ (Ramon Gomez de la Serna”’)?

“Dalle altre femmine uno può salvarsi, può scoraggiare il loro amore, ma dalla madre chi ti salva” (Elsa Morante)?

Perché gli uomini sono romantici e le donne no?

Fino al femminicidio?

La donna è fragile – al tatto?
  
“Non è vero che le donne siano fragili. Io mi so difendere da sola” (Emanuelle Seigner)?

“Quando una donna distrugge come un uomo, la trovano una cosa naturale e tutti la capiscono. Quando invece cerca di creare come un uomo, non la trovano una cosa naturale e non l’approvano” (Anton Čechov)?

spock@antiit.eu

L'amore che non si dice

Pene dell’amore che non dice il suo nome. Il titolo deriva da “chiamami col suo nome”, l’intercalare-chiave di “Beloved”, amatissima, il romanzo di Toni Morrison sulla privazione d’identità dei neri in America.
La storia di una lunga lenta seduzione. Con inversione dei ruoli – dei desideri – tra sedotto e seduttore. Il  desiderio è del ragazzo, diciassettenne. Il sogno della pederastia. Ma come è giusto anche in chiave gay: l’amore giovanile non si vergogna, si dichiara, non conosce ostacoli.
Un film molto candidato ai premi, ma di regia piana, quasi didascalica. Scritto da James Ivory, sentito in un primo tempo per la regia, ne risente la calligrafia. La lentezza anche – la lunghezza.
Il premio è andato proprio a Ivory.
Luca Guadagnino, Chiamami col tuo nome



lunedì 26 febbraio 2018

La rete all’era delle bufale

Si è trovato un giudice per impedire che google digitalisse il sapere – lede il diritto d’autore. Nella scienza c’è dunque un diritto d’autore: il giudice merita di essere immortalato. Non si trova invece un giudice contro le bufale e i Russiagate – l’occupazione principale della Cia, che ha una tradizione in materia nella guerra fredda, ma non ha il diritto di imporcela ora, che nessun comunismo ci minaccia.
Si protegge la proprietà ma non la verità. Ognuno può dire quello che vuole, non c’è più il falso, la denigrazione, la calunnia. Gli affari sì, le opinioni no, possiamo venire fregati, liberamente.

L’Europa è tedesca

La nomina d’arbitrio di De Guindos, dopo l’Ema a Amsterdam, conferma che tutto in Europa, anche le vicepresidenze, si decide a Berlino. Schierando quali frontmen questo e quello – la Francia per la nomina del ministro spagnolo alla Bce, l’Estonia (o era la Lituania) per l’assegnazione dell’Ema a Amsterdam – ma quali esecutori di un deliberato tedesco.
L’Europa tedesca è un fatto, e non da ora. Non se ne vuole prendere atto, e si porta a esempio Draghi, nominato presidente Bce mentre l’italia era nella crisi del debito – nella crisi di Borsa sul debito. Ma Draghi fu nominato per fare una cosa che un presidente Bce tedesco, o della galassia tedesca (olandese, austriaco, belga, baltico, etc.), avrebbe avuto qualche problema a fare: salvare le banche tedesche e collegate.
Il successore del francese Trichet a Francoforte doveva essere tedesco, il presidente della Bundesbank Axel Weber. Ma il 2011 è anche l’anno, oltre che del debito italiano, delle banche tedesche, a rischio fallimento. Draghi va a Francoforte invece di Weber, scelto da Berlino, col compito di salvarle: “È la prima cosa che Draghi ha fatto subito dopo il suo insediamento l’1 novembre 2011: un intervento spettacolare a salvaguardia delle banche. Un gigantesco prestito a tre anni a bassissimo costo che ha salvato tutti, ma soprattutto le banche tedesche, olandesi, belghe e austriache. Salutato come una “Grande Bertha” dai consulenti di Angela Merkel, per una volta non critici - Stabile Architektur für Europa, rapporto 2012/2013 del Consiglio degli esperti economici, pubblicato a novembre 2012. Una cannonata: era “Bertha” il supercannone tedesco nella Grande Guerra” (Giuseppe Leuzzi, “Gentile Germania”, p. 94). Solo dopo un anno Draghi si occuperà del debito. E più perché era sopravvenuta la crisi del debito spagnolo – intervenne, sempre mandato da Berlino, per la Spagna, non per l'Italia.

Il fascismo ha due facce, nelle riviste si vede

Un fascismo trascurato che fa più specie: quello letterario. E non per la qualità della scrittura, che a tratti pure c’è, ma per un’ambivalenza caratteristica, ricorrente in ogni populismo, che non si mette ancora a fuoco: il fanatismo del popolare e il disprezzo dello stesso. O del popolo-plebe, massa d’urto disprezzata.
Tutt'e tre le riviste escono a ridosso dell'assassinio di Matteotti, per rinsaldare i ranghi dei fascisti “buoni, contro gli estremisti. “Il Selvaggio”, la rivista di Maccari e Malaparte, è squadrista, e anzi “bastonatrice”, misoneista, provinciale. Ma con punte notevoli di irrisione, se non di resistenza. “L’Italiano”, la rivista di Longanesi, è fascistissima, finanziata da Arpinati e Mussolini. Anch’essa fa “elogi al bastone”, a opera dello stesso Longanesi. Malaparte vi si produce in plurime “Cantata dell’Arcimussolini” – in una è oggi molto “romana”: “O Mussolini faccia dura\ quando ti metti a far buriana?”. E tuttavia irride spesso l’esistente, e non solo con le barzellette. “900”, la rivista di Bontempelli, è un organo di propaganda: propaganda la letteratura italiana all’estero – all’inizio usciva in francese. Ma pubblica alla prima uscita, per la prima volta in italiano Joyce, e Virginia Woolf. Mussolini era così, strapaese e stracittà, populista (“un grande popolo”) e censorio (“un popolo di analfabeti”).
Le riviste culturali del fascismo sono come il fascismo. Di illimitata violenza verbale “Il Selvaggio” e “L’Italiano”. Scioviniste – la misallogenia che oggi è plebea fu a lungo borghese. Fa senso leggere Soffici, che a Parigi in lunghi anni si era formato e affermato, .sproloquiare di  “enorme brutalità e crudeltà” francesi. Becero. Contro l’“intellettualismo”. Contro il “modernismo”. Contro l’architettura razionale. La lista è lunghissima dei personaggi, anche politici, di regime, sanzionati. Cialtrone. Contro il passatismo e insieme contro le avanguardie artistiche. La stessa polemica strapaese-stracittà è provinciale. La lista è lunghissima dei personaggi, anche politici, di regime, sanzionati volgarmente e sempre con violenza da Maccari, Grillo non ha inventato nulla – tra i denigrati, senza ragione ma con astio, Salgari: non è un “buon educatore”….
Molta violenza verbale era d’uso, effetto delle avanguardie - il “cretinismo” delle crociate Dada, etc.. Ma di più incide l’ambivalenza mussoliniana, plebea e elitistica. Per quanto insolenti, zavorrate fino all’insostenibilità. le riviste sono ancora vive. Ancora in edizione, questa vecchia antologia, di quando ancora se ne facevano, è un tesoretto: con tutti i limiti di Strapaese e Stracittà, e del fascismo negli anni del fascismo, ma le riviste che antologizza sono ben nutrite. Con Maccari, l’“Orco Bisorco” di Strapaese-“Il Selvaggio”, collaborano Malaparte, Palazzeschi, Ungaretti, Alvaro, Soffici, Rosai, De Pisis, e si sdoganano  Bilenchi, Brancati, Tobino, Morante, Guttuso, Longanesi. Con Longanesi a “L’Italiano”, che pubblica Kafka, D.H.Lawrence (un poema, tradotto da Moravia), Sorel, Chaplin (“Il comico nel cinema”) nel 1933, alla vigilia dellAsse, collaborano Malaparte, Comisso, Savinio, Soldati, Comisso, La nuova letteratura sovietica”, con un racconto del futuro Nobel Sciolochov, Moravia, Brancati, Banti. “900” di Bontempelli, cui il curatore non può risparmire la notazione afflittiva (“La critica è sempre stata avara nei confronti di Bontempelli…”), è un concentrato di firme notevoli, resistenti agli anni.Molta roba poi ripudiata, per essere uscita sul “Selvaggio” e “L’Italiano”, merita riconsiderazione. I doppi sensi di Palazzeschi sullo “spirito”, davanti, didietro, etc…. Bilenchi, doppiamente Strapaese per essere nativo di Colle val d’Elsa, dove “Il Selvaggio” nascque e prosperò, nel fascism toscano specialmente becero, lascerà presto Maccari e Mussolini. Ma il suo Pisto (“Storia di Pisto”), poi rimosso, è un pezzo d’antologia, da storia del fascismo: è  il fascismo, una figurazione dello squadrista-tipo, e la critica dello stesso. Un racconto che materalizza il corpaccione schizoid di Mussolini, che propone e impone la cosa, e la critica di essa: la boria, la brutalità, la superficialità, la non applicazione, e il disprezzo dell’inettitudine.
“Il Selvaggio”, farraginoso nei testi, molto disparati nella qalità, è di gusto sicuro, e innovatore, per la grafica e la pittura. Si celebra pure Grosz, “L’Italiano” con uno scritto di Dos Passos, “900” con Yvan Goll.
Luciano Troisio (a cura di), Strapaese e Stracittà. «Il Selvaggio» «L'Italiano» «900», Canova, pp.385 + 57, ill. € 15

domenica 25 febbraio 2018

Secondi pensieri - 336

zeulig

Conoscere e capire – Due funzioni diverse - soprattutto se riguardano la Germania: è l’argomento principale degli scritti dispersi di Joseph Roth raccolti nella silloge “Al bistrot dopo mezzanotte”. Di fatto una testimonianza francofila (occidentale) e antitedesca, una presa di coscienza e una denuncia. Dei germanisti oltre che della loro Germania “mitica”.
La distinzione viene nella nota “Il nemico storico”, dedicata a Clemenceau. Ma dopo un devastante “Il mito dell’anima tedesca”, in cui Roth fa i conti direttamente con i germanisti. E interviene a proposito della Germania bismarckiana del 1870 guglielmina del 1914, e di Clemenceau, che sempre le si oppose, radicale, perché la “capiva”, ne capiva la natura: “Era il solo politico e statista francese che avesse capito i Tedeschi – i Tedeschi nuovi, borussificati, conosciuti forse li avevano anche altri…”.
La differenza è rilevabile in due modi: “In Occidente è scontato dire di «conoscere un paese e il suo popolo» quando se ne sia studiato la lingua, si sia vissuto nelle sue città, se ne siano percorsi i villaggi, i boschi e le strade, e si sia abbia avuto modo di parlare con il maggior numero possibile di persone dei ceti più diversi. Invece si scopre che presso alcuni popoli le abitudini, i costumi, le forme statali, politiche e sociali cambiano con una frequenza tale per cui un straniero, tornando dopo cinque anni nel paese che pensava di avere studiato a fondo, è costretto a ricominciare da capo”. La comprensione è di altro tipo che la conoscenza, va alla radice della cose. Anche solo per intuito.
La conoscenza è importante ma non risolutiva: “La maggior parte di coloro che intraprendono viaggi di studio vedono di un popolo solo quelle peculiarità che, per antica tradizione, sono considerate i suoi caratteri distintivi: lingua, abbigliamento, usi, paesaggio. Tutto questo vale, anche se solo approssimativamente, in paesi che hanno un carattere stabile, una forza ostinata, uno sviluppo coerente  una grande libertà di organizzare in modo individuale la propria vita”. Non nel caso della “Germania borussa”. Che fa aggio su questo desiderio di “conoscenza” – vogliono una Germania “mitica” (eddiana, faustiana, bayreuthiana), diamogli una Germania mitica.

Femminismo – Il fondamento più saldo trova nei vangeli apocrifi. E nella “Pistis Sophia”. Dove si persegue – con insistenza – l’annullamento della dualità di genere. Si torna nel Regno dopo aver eliminato la dualità, “sicché non vi sia più né maschio né femmina” (“Vangelo di Tommaso”, 22). La divisione maschio-femmina origina la morte: “La morte sopravvenne allorché la donna fu separata da lui (da Adamo). Se rientra in lui, e se egli la prende in sé, la morte non ci sarà più” (“Vangelo di Filippo”, 68,20). Ma, allora, a prezzo della sterilità.  
Le Marie sono “più perfette” negli apocrifi essenzialmente perché androgine. Elette in quanto oltrepassano l’uomo, e lo oltrepassano componendo lo sdoppiamento maschio-femmina nell’uno. Con l’assunzione letterale dell’invettiva di Gesù sulla via del Calvario alle donne di Gerusalemme: “Verrà un giorno in cui si dirà: beate le sterili  e i grembi che non hanno generato”. Il femminismo si esprime nella verginità – e la realizza. Il cuore della sophia della donna, e la creazione spirituale, è questa verginità, il segno divino. Che l’androginia esprime e realizza.
Il femminismo si esprime nell’annullamento della propria specificità, del proprio essere. Non si impone la donna all’uomo, sia pure nella eguaglianza dei diritti, si rinuncia all’essere donna – come si nega l’essere uomo. L’abolizione dei generi, come di ogni particolarità, di ogni specificità, è un’autoabolizione.

Heidegger – È l’intellettuale post-bellico, al modo di Gadda, Céline, Jünger, Ernst von Salomon, in parte anche Musil  – il “figlio” frastornato-confuso della Grande Guerra (la “Guerra dei Trent’ani”, la guerra civile europea, dal 1870 al 1945). La prima guerra mondiale lo ha marchiato ai – gli ha rubato i vent’anni. Vive il dopoguerra da estraneo, alla “meccanizzazione!”, alla “stupida tecnica”. Una voragine specialmente sentita dagli intellettuali ebrei austriaci, più esterni alla frattura in atto dal 1870, J. Roth, S. Zweig – in parte anche Canetti., Schulz. Una prospettiva di lettura e una contestualizzazione andrebbero operate in questo senso.
Heidegger andrebbe comunque storicizzato. Fu nazista “come tutti” in Germania, specie gli apolitici. Molti intellettuali non lo furono, anche tra i conservatori (Thomas Mann per tutti), ma era parte di un mondo intellettuale: Heidegger era un isolato. Anche questo aspetto andrebbe analizzato: era un outsider, non ce n’è uno si può dire più di lui.
Heidegger resta sempre un provinciale. Anche quando fu “riconosciuto”, in Italia, in Germania, poi in Francia. Rifiuterà Berlino. Anche Monaco. Non saprà che dire a interlocutori illustri e di spessore, Celan, lo stesso Char malgrado l’amicizia agreste. Fu sempre legato al localismo, alemanno, svevo, hebeliano. Il vero test dell’antisemitismo di Heidegger lo avrà fatto Hannah Arendt, la volpe che per tana si costruisce una trappola. I “Quaderni neri” non sono antisemiti come hanno voluto gli stessi editori (Donatella Di Cesare), se non per lo stigma del cosmopolitismo, ingiuria suprema per il filosofo.


Medio Evo  – Si rappresenta, per le spesse stratificazione imposte dall’Umanesimo, dal ritorno ai codici e ai classici, quale mondo di ingenuità e ignoranza. L’assioma stereotipo è quello di Joseph Roth, che pure conosceva il Medio Evo e lo amava, a Les Baux, all’aria cristallina di montagna: “Non c’è bisogno di essere un ingenuo cavaliere del Medioevo per credere di essere passati in sogno attraverso una parete di vetro”. Perché il cavaliere del medioevo sarebbe stato ingenuo? E non sognava, pure lui? Un Medioevo “ingenuo” ma già “problematico” – lo stesso Roth ne avverte la sostanza,: “tragico” anzi, più che “problematico”.

Odio – È dei santi? Più della misericordia, e come si concilia? Per il cristiano sì – Luca, 14, 16: “Se uno viene a me e non odia il padre e la madre, la moglie e i figli e i fratelli e le sorelle, ed anche la sua vita, non può diventare  mio discepolo”.
Il verbo non è equivoco: misein, odiare.

Storia – Non si fa più – la storiografia. Sull’esempio degli Stati Uniti che ne hanno fatta poca e a malincuore, e dal dopoguerra non più?
Spadolini (“Giolitti e i cattolici”, “Il papato socialista”, “L’opposizione cattolica d a Porta Pia al ‘14”), per dire, aveva già fatto la storia del giolittismo, sui documenti, cinquant’anni dopo i fatti. La storia del fascismo si è fatta, abbastanza, fino agli anni 1970. Soprattutto sui memoir. Poi solo per generi, e specialisti. Della Repubblica, che ha fatto settanta e più anni, non sappiamo niente, se non per memoria personale.

zeulig@antiit.eu 

Maria viene con le immagini – a furor di popolo

Maria non parla, o poco, nei vangeli. E ha un Figlio che non ha riguardi per lei. È presente nella chiesa più che nei vangeli. E nelle imnagini più che nei testi: Maria è presente dacchè le immagini hanno preso a circolare. Cacciari la rintraccia e la segue, pure nel suo ruolo di deipara, madre di Dio, come appare ed è sentita (figurata) dai pittori, Masaccio, Piero, Simone Marini, Angelico, Mantegna, Giovann Bellini, Rogier van der Weyden.
Una lettura iconologica, ma non un diversivo. Densa anzi, concettosa Con la terminologia, più appopriata, della mariologia ortodossa: la kekharitoméne, la glykophilousa, la theotòkos. Con l’ausilio di Rilke, W.H.Auden, “Oratorio di Natale”, Dante, gli evangelisti. Col contrappunto della letteratura apocrifa. Un procedimento fertile per Cacciari di molte illuminazioni.
L’esito è una affascinante lettura sapienziale, filosofica più che teologica. Anche di civiltà, incidentalmente: nel richiamo a Oswald Spengler, alla sua notazione che la Riforma ha eliminato il culto mariano - non senza conseguenze, va aggiunto. Densa di figurazioni concettuali: l’accettazione (la creazione come humilitas), il silenzio, l’ombra, la terra, l’intimità, la ieraticità (il ruolo, il potere). E concepire come comprendere: Maria medita concependo.
Una mariologia particolare, in una disciplina ora trascurata, ma ben forte fino al papa Giovanni Paolo II. Una preghiera di fatto, in forma di contemplazione. Che parte sottolineando la genealogia dubbia, postribolare, di Maria per parte di madre - falla che la letteratura apocrifa si dedicherà a colmare. Ma poi manca la genesi del culto nel suo aspetto più singolare: la devozione popolare. Vero è il ruolo centrale nella mariologia delle figurazioni: Maria è presente dacchè le immagini hanno preso a circolare. Che però erano – sono – le forme dela comunicazione popolare, prima che esercizio estetico.
Massimo Cacciari, Generare Dio, Il Mulino, pp. 105, ill. € 12