Giuseppe Leuzzi
Proponendo
una sua “Società meridionale” all’inchiesta di Leo Longanesi sullo “stare in
società” – per “L’Italiano”, la rivista
fascista, nel 1932 – Brancati non dà una risposta. Ma trova che i modi di dire meridionali
non riflettono una società borghese. “Son tutti proverbi o locuzioni ricavate
dal linguaggio dei pescatori, cacciatori
e contadini”.
“Non
dico niente in un senso o nell’altro, perché nessuno dica che io ho detto
qualcosa in un senso nell’altro” è detto
austriaco – secondo l’eminente viennese Ernst Gombrich, lo storico dell’arte,
nelle memorie “Dal mio tempo”.
Risa di qua, Risa di là
Michele
Ainis ritorna a Messina per scriverne il peana – o non sarà un epicedio? –
sotto forma di romanzo, “Risa”. Da figlio predestinato, Ainis essendo in arabo sorgente o fontana, che
è quella di Orione, che fondò la città,
e\o quella del temibile Nettuno - che è anche, non si sapeva, il dio dei
terremoti. Risa il costituzionalista dice la città annegata. Sotto i 36 terremoti
nei due millenni cristiani, o tra i laghi (di Ganzirri) e il mare, e tra i due
mari, lo Ionio e il Tirreno. Una città stretta a tenaglia, la dice ancora, o a cavaliere, tra
i due mari e tra laghi e mari, e tra i Nebrodi e i Peloritani, tra la chiesa
latina e la chiesa greca (il vescovo di Messina è anche archimandrita), e tra
Mata e Grifone, i suoi giganti, la bianca e il nero (ma anche viceversa, va detto, le maschere sono intercambiabili). E gli sono mancati i due
vulcani, uno sul corno sinistro, Stromboli, e uno sulla coda destra, l’Etna.
Vulcani attivi, attivissimi Una città per questo allucinata?
Da
Ainis indietro, i grandi letterati messinesi del Novecento hanno tutti dentro qualcosa di
visionario: D’Arrigo, Consolo, Cattafi, Lucio Piccolo. Si direbbe effetto
tellurico. Ma è senza dubbio, e malgrado tutto, effetto di luce: Messina è
città luminosa, prende il meglio due mari. La luce del Nord, diafana,
ghiaccia, e quella del Sud.
Risa
per Messina sembra però nome usurpato. Stava per Reggio nella “Chanson d’Aspremont”.
Il primo ciclo cavalleresco, il primo scritto dopo che recitato, anche rispetto
agli originali cantari francesi. Una mescidanza del ciclo
cavalleresco provenzale-occitanico col ciclo carolingio del Reali di Francia e
col ciclo arturiano dei Cavalieri della Tavola Rotonda. Un trapianto voluto dai
Normanni appena arrivati, nell’XI secolo, nell’anonima “Chanson d’Aspremont” -
anonima, ma databile al primo Millecento, due-tre secoli prima che Andrea
da Barberino, divulgatore delle saghe francesi, ne ricavasse uno dei suoi “romanzi” di successo. La “Chanson” fece
da prologo alla più nota “Chanson de Roland” – e quindi all’“Orlando
innamorato” e all’“Orlando Furioso”.
I Normanni in Calabria e in Sicilia segnano il punto del trapasso delle due confessioni, dalla greca alla latina. Una non trascurabile corrente di pensiero ne vede il bizzarro
insediamento in Sud Italia in qualità di “agenti del papa”, per latinizzare
contrade di rito greco-ortodosso. L’Aspromonte era l’ultimo baluardo della
presenza bizantina da conquistare, nei secc. IX-XI – la conquista si
realizzò mediante il culto di una “santità” comune alle due pratiche, la Madonna.
Ma Risa è un’altra storia.
Il lungo poema è di una storia d’amore, tra Ruggieri
e Gallicella, della caduta di Risa (Reggio Calabria), e del giovane Rolandino,
che nell’Aspromonte ha l’iniziazione al cavalierato, e si scopre eroico,
imbattibile. Con l’accortezza di fare del nemico un occupante mussulmano – gli
invasori sono “Africanti” - invece che bizantino. Gli ingredienti che poi
diventeranno canonici.
“L’estrema
frontiera dell’occidente era collocata a sud e lì convenivano tutti gli
eserciti d’Europa al seguito di Carlomagno”, scrive la massima - e sola - conoscitrice del
poema, Carmelina Sicari, nel saggio “Il Sud e la lingua”: “In Aspromonte
Orlando vince Almonte e salva Carlo che sta già per soccombere”. Non senza
conseguenze, spiega la studiosa: “Il nome dell’Aspromonte risuona per tutta
Europa giacché entra nel novero delle canzoni di gesta, veri e propri manuali
di formazione umana e cavalleresca”.
Messina, d’altra parte, ora
dimenticata se non per l’ingloriosa vicenda del ponte, è stata a suo nome luogo
privilegiato delle lettere. Eco forse delle prime Crociate, alcune partirono
dal suo porto, e dei poemi che le accompagnarono. A partire da Boccaccio, con
la novella “Lisabetta da Messina”. Con ripetuti riferimenti di Bandello e
Shakespeare. Anche di Molière. In un apologo Diderot elogia “un calzolaio di
Messina”, che del laboratorio fa corte di giustizia. Schiller ha una “Sposa di
Messina”. Vittorini “Le donne di Messina”. Fino all’ “Horcynus Orca” di Stefano
D’Arrigo, 1975 – qui finisce la storia.
“Eufemio da Messina” è opera – una
tragedia – di Silvio Pellico prima della prigione: Eufemio, turmarca della
flotta bizantina, accusato per gelosia di avere sposato una monaca, si ribella
e finisce dal sultano di Tunisi. Nietzsche ha “Gli idilli di Messina”.
Nietzsche a un certo punto s’imbarcò a Genova, come Colombo proclamandosi Liberator
Generis Humanorum, su un cargo per Messina, dove sbarcò in barella, mezzo
morto, per decretarla, come già Sorrento e poi Roma, sua città ideale: “Questa
Messina è proprio fatta per me”.
È stata “patria dei barbieri” per
Soldati, della rasatura a mano libera. Più spesso torna nella letteratura
tedesca, Schiller appunto, Goethe, Jünger, Lenz, etc.: per essere stata forse
patria di Evemero, per il quale gli uomini sono dei, o luogo di raccolta di
crociate e flotte, che sempre portò buono ai cristiani, o perché si pronuncia
facile. Per molti è toponimo succedaneo, per chi va a Taormina, per i quadri
viventi di von Gloeden, e non ha il coraggio. Ma per molti altri no. Mark Twain
la dice fiabesca: “La città di Messina, di un bianco di latte, stellata e
scintillante di lampioni, era uno spettacolo fatato”. In crociera nel 1867, Twain
arriva allo Stretto alle due di notte d’inverno, ma “il chiaro di luna” trova “così
brillante che l’Italia da un lato e la Sicilia dall’altro si vedevano così
distintamente come se non fossero separate che dalla larghezza di una strada”.
Lo Stretto d
Messina è uno dei “luoghi maledetti” (Scilla e Cariddi) di Olivier e Sybille Le
Carrer, del
loro “Atlante dei luoghi maledetti”. Insieme col castello di Barbablù e altre amenità, A motivo della leggenda di
Scilla e Cariddi. Ma nell’esperienza del card. Newman è un luogo incantato. Il
cardinale, allora giovane presbitero anglicano in viaggio verso l’Italia
(qualche anno dopo, insoddisfatto del secolarismo anglicano, opterà per la
confessione cattolica, facendosi ordinare prete e ascendendo infine al
cardinalato), intrapreso nel dicembre 1830 per accompagnare l’amico Froude,
tubercolotico in cerca di climi migliori, da Londra a Gibilterra, Malta, la
Sicilia e Roma, nel corso del viaggio fu investito da una tempesta di mare.
Cioè soffrì molto il mal di mare, poiché è quello di cui soprattutto parla
nella corrispondenza. Per concludere poi con una nota di soddisfazione, al
ricordo della notte trascorsa a metà giugno 1833 incalminato nello Stretto di
Messina, alla vista dei lontani fuochi delle coste – incalminato, cioè in calma
piatta – “lontani” in realtà vicini, lo Stretto è… stretto, ma remotizzati
dalla notte. Ne trasse ispirazione per “Lead Kindly Night”, che viene
presentato come “uno dei più begli inni della liturgia anglicana”.
L’inno è “The Pillar of the Cloud”, datato at sea, in mare, 16 giugno 1833:
“Lead, Kindly
Light, amid the encircling gloom
Lead Thou me on!.... “
Guida, luce gentile,
nello
sconforto che ci attornia,
portami
via!...”
L’inno
è riferito allo Stretto di Messina dallo studioso del cardinale Simon Leys, “Le
Studio de l’inutilité”. E avrebbe potuto essere, lo Stretto è, in ogni
stagione, un luogo incantato – niente a che vedere con Scilla e Cariddi. Ma il cardinale stesso, scrivendone agli
amici, spiega che l’ispirazione gli venne negli stretti di Bonifacio,
all’altezza della Corsica, mentre si trasportava a Marsiglia, da Palermo, dove
era stato inferno per tre settimane - lui stesso non sapeva di che: diceva di
nostalgia, di un malessere quindi psicosomatico, ma il suo valletto non gli
credeva.
Fu sede del secondo collegio per l’istruzione
dei non professi, registra la storia dei gesuiti, dei giovani laici - dopo quello
aperto nel 1544 a Gandia, la città tra Valencia e Alicante, dal futuro santo Francisco
Borgia per i moriscos. Essendo venuto al
corrente di quello che era accaduto a Gandia, Jerónimo Doménech pensò di
fondare un collegio a Messina, avendovi trovato un’immensa ignoranza nel
clero: coinvolse nell’iniziativa Eleonora Osorio, la moglie del viceré di Sicilia,
e il 19 dicembre 1547 le autorità cittadine chiesero a Ignazio l’invio di
insegnanti, ai quali si garantiva cibo, vestiario e alloggio – poi il collegio
fu spostato ad Acireale.
Pascoli, che ci abitò con la
sorella Mariù, ne mantenne ricordo ottimo: “Io ci ho passato i cinque anni
migliori, più operosi, più lieti, più raccolti, più raggianti di visioni, più
sonanti d’armonie della mia vita”, scriverà qualche anno dopo, il 10 luglio
1910 a Ludovico Fulci – deputato radicale di Messina per vent’anni, mazziniano,
docente di Diritto Penale. Fa grande caso Dumas nelle sue opere più tarde -
specialmente ne “I garibaldini”, dove lo ritrova tra i sobborghi marinari
(allora) di Messina, dai nomi beneauguranti di Pace e Paradiso - del capitano
Arena, persona e personaggio del suo romanzo di viaggio “Lo speronare”, insieme
col giovane militare francese esule De Flotte: un siciliano dal “volto buono,
sempre sereno, anche nella tempesta”.
Fu l’ultima ad arrendersi ai
Savoia, dopo Gaeta, il 13 marzo 1861. Ma di Messina Emerson ricorda che “in un
giorno di pioggia tutte le vie si accesero di ombrelli rossi”. Era stata la
città che per prima aveva chiesto la Costituzione nel ’48, finendo per dare il nome
al Re Bomba, Ferdinando II delle Due Sicilie, che la distrusse per due terzi,
raccapricciando l’Europa.
Un passato di spessore, insomma, di
una cittadona oggi informe, di passaggio per il traffico col continente. Già
committente di Antonello, Caravaggio, Ribera, Guercino, Mattia Preti,
Rembrandt, per mani munifiche e di gusto, da ultimo nel Seicento Antonio Ruffo della Scaletta, di Bagnara là di fronte oltre lo Stretto, collezionista reputato in tutta Europa, fra artisti, procuratori e connoisseurs - lasciò una collezione di 1.500 quadri. Il nobile e ricco Bembo - che inventerà l’italiano, sarà l’amante di
Lucrezia Borgia e morirà cardinale - venne a impararvi il greco da Costantino
Lascaris, che la città non sa chi sia – come del resto Evemero e lo stesso
Bembo. La città mantiene postura strepitosa e quartieri di nome Paradiso, Pace,
Contemplazione. Ma trascura Antonello e Caravaggio, che tuttora ospita.
Trascura anche Alessandro Scarlatti, che vi è nato. Per non dire di Polidoro
Caldara detto da Caravaggio che vi è sepolto, rifugiato in città da Roma dopo
il Sacco – ucciso da un discepolo, Tono Calabrese, in un tentativo di rapina (un
ragazzetto, per come lo ha lasciato dipinto Polidoro nell’“Adorazione dei pastori”
a Capodimonte, uno dei tanti): nel primo catalogo del secolo d’oro, di Giovan
Paolo Lomazzo, “Idea del Tempio della Pittura”, 1590, Polidoro da Caravaggio è
tra i sette “governatori dell’arte”, lui con Leonardo, Michelangelo, Raffello,
Mantegna Tiziano, e Gaudenzio Ferrari. Antonello vi ebbe una
mostra nel 1953, ma era un’idea del buonissimo architetto Scarpa, veneziano.
Con
un ruolo all’improvviso invertito rispetto a Reggio Calabria, sia “Risa” l’una
o l’altra città. Reggio
e Messina, benché divise dallo Stretto, sono da tempo considerate dai geografi
una “conurbazione”: due città integrate. Con un ruolo subordinato di Reggio nei
confronti di Messina. Che aveva l’università, i migliori specialisti e le
migliori cure, i migliori negozi di abbigliamento, e perfino le migliori
pasticcerie. Un porto migliore, a uso militare a civile, con un arsenale –
cantiere navale militare. Più impieghi e più investimenti di Reggio. Una
squadra in serie A, o almeno in serie B. E faceva i giornali (“il” giornale, la
“Gazzetta del Sud”) per Reggio.
La
conurbazione era più egualitaria in materia religiosa e sportiva: molti
messinesi erano – e sono - devoti della Madonna di Polsi in Aspromonte. E
andavano – e vanno – a raccogliere funghi e sciare in Aspromonte piuttosto che
sull’Etna. Ma più estesa, e quasi ancillare, era la devozione di Palmi e Reggio
per la Madonna della Lettera di Messina, e anche per la Madonna Nera di
Tindari. E di tutto il reggino per Mata e Grifone, i “giganti” di cartapesta di
Messina. Nel quadro di una subordinazione di Metauros (oggi grosso modo Gioia
Tauro), che pure era colonia locrese, a Messina-Zancle.
Fino a pochi anni fa Messina era la capitale della Calabria,
culturale, commerciale e professionale – si andava a Messina anche per il
dentista. Ora ogni città calabrese si può dire più ricca di Messina, che si è
ridotta a fare da transito dall’A 3 all’A 18, ai traghetti canguro roll on-roll off. A pochi metri dall’approdo dei canguro ha un
museo provinciale pieno di Antonello e Caravaggio, ma nessuno lo sa – Antonello
che
visse quarantanove anni appena, e lascia quarantanove capolavori, da Dresda a
San Diego di California. Messina ha liquidato la
cinquecentesca università, relegandola in irraggiungibili periferie, e il
commercio, riducendosi al ruolo di piccolo società di galantuomini, chiusa nelle
ville di Ganzirri e Capo Faro mentre fuori imperversa il popolazzo vile e
corrotto – che non c’è più, nemmeno quello, solo immigrati nordafricani
spaesati, per piazza Cairoli e il viale San Martino. Ha rifatto in piccolo la
fuga da se stessa che ha fatto Marsiglia – ora però recuperata dopo un
trentennio di abbandono. Mentre le città calabresi hanno ognuna la loro
università, i centri commerciali rutilanti e, bene o male, l’ospedale.
Lo
storico Galasso documenta, “La Calabria spagnola”, un traffico molto più
intenso a Messina nel Cinquecento rispetto a Reggio. E nella stessa Reggio un
buon terzo delle operazioni portuali in capo ad agenti e committenti messinesi.
Oggi il traffico è invertito. Reggio ha centri commerciali, musei e rovine ben
curate, ristoranti, pasticcerie, e l’università, mentre Messina si è ristretta.
Imbruttita anche. Reggio si ripulisce,
ed è perfino un porto attivo, anche se solo per l’immigrazione irregolare, mentre
Messina è un porto bello e vuoto, se non per imbarcazioni minime della Marina
Militare – le traghetto dalla Calabria
utilizzano un attracco fuori città verso capo Faro, lontano dal porto, allo
snodo con le autostrade per Catania e Palermo. A Messina attraccano 150 navi
crociera l’anno, ma per prendere l’autostrada per Taormina.
Al
museo - la galleria provinciale, con gli Antonello e i Caravaggio - Longanesi
scopriva “la tristezza siciliana , antica di secoli, che li lega e ci segue da
una stanza all’altra”. Di quadri alle pareti “tutti eguali, scuriti e sinistri,
come dipinti dallo stesso artista in secoli diversi”. Lo sono ancora. Al “gran
caffè” di Messina, che sarà stato l’Irrera di piazza Cairoli, all’epoca un
monumento fastoso degli anni 1930, rutilante di specchi, marmi, pasticceria
policroma, Longanesi trovò tutti eccitati dalla sua presenza – dalla presenza
del forestiero: “Il caffè è gremito di folla rumorosa e eccitata; tutti
guardano noi, nuovi del luogo; e ci guardano insistenti, con occhi desolati e
teneri che sembrano celare un amoroso lamento”. Come le bestie allo zoo guardano
il visitatore.
“Vista dal ferry boat che attraversa lo
Stretto dal continente, Messina appare una piccola città portuale
ragionevolmente prospera, con alcuni grandi moderni palazzi di uffici,
soprattutto banche, sul lungomare, e con ville graziose di media grandezza
distribuite sulle colline dietro la città. L’impressione è falsa. Messina è di
fatto una città morta”. È la silhouette
che della città disegna Margaret Carlyle, “The Awakening of Southern Italy”,
1962. Avendoci vissuto in quegli anni per fare le scuole, non si può che
testimoniarlo: era città gradevole. Che fosse morta però non si vedeva. Sarà
accertato qualche anno dopo, quando la città e la gloriosa università
riusciranno anche a imbruttirsi, nello squallore. La storia come freccia può
andare al rovescio.
Meridionale era il fascismo
Era – si voleva - “Sud” l’Italia fascista,
orgogliosamente, la reincarnazione leghista avrebbe problemi ad avallarlo. Per tutti
il corsivo che apre “L’Italiano”, la rivista di Arpinati e Mussolini, diretta
da Leo Longanesi, al n. 1, il 14 gennaio 1926. È con un programma di Sud contro
Nord che la rivista si propone:
“I popoli nordici hanno la nebbia, che va
di pari passo con la democrazia, con gli occhiali, col protestantesimo, col
futurismo, con l’utopia, col suffragio universale, con la birra, con Boecklin,
con la caserma prussiana, col cattivo gusto, coi cinque pasti e la tisi
Marxista.
“L’Italia ha il sole, e col sole non si
può concepire che la Chiesa, il classicismo, Dante, entusiasmo, l’armonia, la
salute filosofica, il fascismo, l’antidemocrazia, Mussolini.
“Questo giornale cercherà di dissipare le
nebbie nordiche che sono scese in Italia per offuscare il sole che Dio ci ha
dato”.
leuzzi@antiit.eu