Una cultrice della materia fa i conti con
l’antisemitismo del suo profeta Heidegger, nei “Quaderni neri”, prima e dopo. Da heideggeriana
sempre di ferro, non pentita.
Donatella Di Cesare se ne è fatto anzi un
programma. Che così spiegava a Antonio Carioti, presentando questo lavoro alla
prima edizione. Allora nota come vice-presidente della Fondazione Heidegger, a
marzo 2015 si era dimessa, dopo le dimissioni del presidente, Günter Figal,
quando aveva letto i punti controversi (antisemiti) dei “Quaderni neri”, ma
professandosi ben heideggeriana: “Figal considera quei brani rivoltanti e non vuole più essere collegato a
Heidegger. lo al contrario ritengo che proprio i Quaderni neri impongano di
approfondire e ampliare il dibattito su quello che rimane il più importante
pensatore del Novecento, per capire le origini filosofiche del suo
antisemitismo».
All’inizio
c’era Lutero
Una riedizione lievemente aumentata, a un
anno dalla prima, e dopo molte ristampe. Per tenere conto del volume di “Quaderni neri” successivo ai primi tre, 1931-1941: le “Anmerkungen” I-V, 1942-1948. Con
un uso per una volta funzionale, significante, della terminologia originale
tedesca, non oppositivo – ma i rimandi ai “Quaderni neri” purtroppo non sono stati
aggiornati sulla traduzione italiana intanto intervenuta, per i primi tre dei quattro
volumi che raccolgono i taccuini (la traduzione del quarto e ultimo, 1942-1948,
si annuncia per maggio), e sono quindi inutilizzabili: il décalage nei rimandi è di
circa 15 pagine in più, per l’edizione italiana (anche di altri titoli, per es.
Valéry, “La crisi del pensiero”, non si dà il riferimento all’edizione
italiana). Centrale alla trattazione la parte terza, “La questione dell’essere
e la «questione ebraica». Centrale per il lettore è la parte seconda, la breve,
sorprendentissima, storia dell’antisemitismo nella filosofia tedesca, a scuola
dalla teologia di Lutero, l’inventore della Ausrottung
degli ebrei, della Vernichtung,
l’annientamento, lo sterminio (i suoi “Judenschriften”
ebbero larga diffusione negli anni 1920): “La Filosofia e l’odio per gli
ebrei”.
Una resa dei conti con Heidegger sull’aspetto forse più nequitoso
del suo nazismo. Un tour de force,
appassionato e applicato. Un exploit,
per quanto controvertibile. Una rilettura di Heidegger alla luce della
“questione ebraica” che lui stesso pone, più scopertamente nel “Quaderni neri”,
gli appunti (ordinatissimi) 1930-1948 che ora si pubblicano. Ma anche prima e
dopo – le note di “Heidegger e gli ebrei” prendono sessanta pagine, la
bibliografia una ventina abbondante .
Con la testimonianza, infine, del non detto, documentata:
l’antisemitismo filosofico in Germania, da Lutero in qua, e l’arrampicata sugli
specchi “dopo Auschwitz”, all’insegna del “tradimento” e della “vendetta”,
ancora, senza colpa. Alla fine del lungo, insistitito, atto d’accusa, Di Cesare
lascerà il suo profeta “immerso nelle
brume della Foresta Nera”. Ma sempre santo.
(L’amore
del tedesco)
Il riesame di Heidegger alla luce della
“questione ebraica”, che è il fulcro della trattazione, “La questione
dell’essere e la questione ebraica”, sa di azzardo. Ma la ricostruzione – l’atto
di accusa – è circostanziata e filante. Heidegger politico è indifendibile, e
lui se ne sarebbe offeso: non si scusò in pubblico e nemmeno in privato, non
con Celan, che lo commuoveva, non con Hannah Arendt, che lo tolse dall’inferno,
dopo averlo innamorato.
Ottime pagine si leggono peraltro proprio
sul rapporto tra Celan e Heidegger. Per la loro contradittorietà. Un’amicizia,
si può dire, tra i due, durata vent’anni. Con stima, da entrambe le parti.
Heidegger, che non leggeva nulla di nessuno, lesse e apprezzò Celan. Il poeta
ha lasciato 33 volumi di Heidegger minutamente commentati.
Un’amicizia, quella
di Celan per Heidegger, e una stima profonda, quella di Di Cesare per lo stesso,
monumentale, salvifica, e degli ebrei tutti si può dire (si ricorderà la passione
di Hannah Arendt per la “madrelingua”, e dei tanti altri emigrati forzati) nei
confronti del tedesco, la lingua. La matrice, quindi tutto: la filosofia, la
storia, e l’acuminato silenzio.
Un interminabile corpo a corpo, questo tra teutonismo e ebraismo, a letto
come in armi, in una sorta di avvinghiamento distruttivo e appassionato – l’essenza della logica Amico\Nemico: essere-per-il-nemico. Succede per Heidegger
come per Wagner, altro grande antisemita – con l’esito, non casuale?, dell’identificazione
in Heidegger, lo Zerstörer, e il
pregiudizio verso Adorno, che invece ha visto e detto giusto.
Antisemitismo
metafisico
La politica non è per Heidegger
incidentale e trascurata. I “Quaderni Neri” mostrano che fu sua attenzione costante. Costante fu anche il suo
antisemitismo. Un po’ anche pratico – non è assunto del libro - ma soprattutto filosofico, in una con la
(ri)caduta nella metafisica. Nella “tradizione della metafisica occidentale”:
“Nel suo antisemitismo metafisico Heidegger non è isolato: segue una lunga scia
di filosofi, da Kant a Hegel e a Nietzsche”.
C’è un antisemitismo “metafisico”,
filosofico. Con l’aiuto di Poliakov e altri esperti, Donatella Di Cesare rifà
la storia di questo antisemitismo radicale, sempre forte in Germania da Lutero
in qua: Kant, Fichte, Hegel, Nietzsche, Frege, e fino a Hitler, al capitolo
“Popolo e razza” del “Mein Kampf”, cui dà spessore anche filosofico, Carl
Schmitt e Heidegger. Una ricostruzione originale, seppure sintetica, di grande
lettura. Il Nietzsche che voleva “far fuori tutti gli antisemiti” era solo
arrabbiato perché coltivavano un “falso” antisemitismo, lui aveva quello vero,
radicale, esclusivo.
L’ebreo sfugge a Kant, alla
sistematizzazione della ragione, che quindi evoca-avoca l “eutanasia dell’ebraismo”.
La sua riflessione, “La religione nei limiti della sola ragione”, è teologia
luterana razionalizzata. Kant, Hegel, Nietzsche, Heidegger, l’ebreo è
caratterizzato dalla losigkeit, dalla
mancanza: di Dio e del mondo. È “una metafsica
dell’ebreo”, sintetizza Di Cesare: l’ebreo non
è, “l’ebreo è come la pietra, weltlos”,
senza mondo, senza consistenza.
Su Kant c’è da obiettare, nella persona e
nel pensiero. Su Hegel meno, ma è pur sempre quello che fece discendere la
grande filosofia tedesca dall’ebraismo – anche dall’ebrasimo, ci sono poche
cose che Hegel non ha fatto. Nel
discorso inaugurale a Heidelberg il 28 ottobre 1816, poi in “Lezioni sulla storia della filosofia”, che
dice la filosofia in Germania erede dell’ebraismo: la Germania rappresentando
come la depositaria finale del ”fuoco sacro” dello spirito, dice proprio così
Hegel, del Geist, compito che una volta era spettato “alla nazione
ebraica”. Le genealogie sono rischiose, ma se fossero vere? Dei tedeschi non
c’è da fidarsi, a lungo hanno voluto invece essere greci, però…
La questione Di Cesare complica con la
(ri)caduta dello stesso Heidegger nel Geist,
lo spirito che invece lui, a differenza di Hegel, disprezzava. Un fantasma si aggiràaper la filosofia tedesca, alemannica, heideggeriana: lo spirito, prima fermamente respinto, parte della deprecata metafisica, poi evocato. Heidegger, che disprezzava lo “spirito”, lo diceva “ebraico”. Cioè, Heidegger non lo dice ma Derrida glielo fa dire, nella conferenza del 14 marzo
1987 al Collège de France, sul tema “Heidegger: questioni aperte”, a proposito
della polemica allora accesa sul suo nazismo - poi pubblicata, rimpolpata, come “Dello spirito: Heidegger e
la questione”. La vera “questione” è l’antisemitismo di Heidegger.
Il terreno di coltura è lo Spirito, che non è l’esprit francese ma
il Geist, con i connessi geistig e
geistlich. Che Heidegger non usa prima, se non tra diminutive virgolette, e
anzi sconsiglia, ma dal “Discorso del Rettorato”, 1933, e poi per una ventina
d’anni a profusione, fino alla lettura di Trakl. Cioè fino alla riabilitazione
– questo a Derrida è mancato? Ma no, anche dopo: fino alla fine, all’intervista
a futura memoria allo “Spiegel”, sotto il nome di destino, la Führung,
il Gemüt, il Volk (il Volk…), il
Dio nascosto, l’alba che non può mancare, il viaggio incognito. Fino al
ritorno, dopo la sconfitta e il silenzio imposto nei pochi anni fino alla
riabilitazione, del “destino inevitabile”, tra l’Occidente e l’Oriente assenti
(ben presenti, ma “vuoti”) - via Trakl. Dopo averlo temprato via Hölderlin e
(l’incolpevole) Schelling. Col “fuoco” e la “fiamma”, spirituali beninteso, che
tanto infiammano Derrida, detective ignaro.
Derrida, altro heideggeriano stregato, del pensiero e della lingua, fa un’altra
storia del semitismo nella filosofia tedesca. È lui che celebra lo Hegel del discorso inaugurale a
Heidelberg il 28 ottobre 1816, che dice la filosofia in Germania erede
dell’ebraismo. Le genealogie, è vero, sono rischiose - anche perchè, come i tedeschi
si volevano e si vogliono greci, molti ebrei si volevano e si vogliono
tedeschi. Il pensiero di Heidegger è perfino trasparente, pur nella sua
sorniona allusività - altrove si direbbe mafiosità. Che Derrida, benché
appassionato delle decifrazioni, trascura - la sua questione è “dei pensieri e
degli impensieri” di Heidegger. Di Cesare meno, ma non del tutto.
Questione
ebraica”
C’è una “questine ebraica” nella
filosofia. Nella “filosofia occidentale”, in realtà tedesca. Di Cesare ne fa la
questione centrale, seppure surrettizia. Più “centrale” per essere surrettizia Perfino mascherata, per una strategia dell’occultamento-dissimulazione:
Heidegger e Carl Schmitt fanno antisemitismo radicale evitando accuratamente la
parola, “Jude”, spregiativa. Col rischio – l’esito – di comprovarla. L’occultamento
è ingegnoso, se è vero che in tutta la sterminata opera di Heidegger “non si
trova una sola frase antisemita”, come vuole il “Dictionnaire Martin
Heidegger”.
Per questo aspetto la questione non è
nuova. Simulazione-dissimulazione, si finisce nell’imbuto di Bourdieu, “L’ontologia politica di Martin
Heidegger” (tradotto “Führer della filosofia? L’ontologia…”), che fa di
Heidegger un campione della “dissimulazione”, volendo argomentare il contrario
- Bourdieu critica chi trascura
l’autonomia dello “spazio filosofico” rispetto all’impegno politico, ma poi
mostra come questi spazi Heidegger articoli nell’“ambiguità”, e non a caso o
per errore, ma per una precisa strategia di comunicazione. Heidegger ha dovuto,
ma di più voluto, atteggiarsi, per una sua propria idea del suo pensiero e del
suo spazio pubblico. Da qui allusioni, sottintesi, qui lo dico e qui lo nego,
affermazioni-distinzioni, si affanna Bourdieu in difesa: ciò non gli ha
impedito di “produrre” un “discorso filosofico”, indenne anche da
condizionamenti politici o partitici, ma senza spiegare le strategie
linguistiche, le ragioni del dire e non dire – non potevo, non era possibile,
non ho avuto il coraggio, una qualsiasi ragione.
In realtà Heidegger fino all’ultimo,
all’intervista che ha voluto postuma con lo “Spiegel”, non ha disgiunto il
“discorso filosofico” dall’impegno politico. Questo è vero, Donatella Di Cesare
ha ragione. Ma senza secondi fini, era uno così, tutto d’un pezzo - allo
“Spiegel” dice: “(I francesi) quando cominciano a pensare parlano tedesco”,
senza perifrasi. Nel quarto
quaderno, che copre gli anni 1942-1948, la Tötungsmaschinerie,
la fabbrica di morte, e la Vernichtung,
l’annientamento, ritornano, più di una volta, ma vedono vittima la Germania, e
sono opera degli Alleati contro i buoni tedeschi. In quest’ultimo quaderno sono
gli americani, “che a ben guardare sono europei” (maledetta Europa?), che hanno
fatto guerra alla Germania, non viceversa.
Heidegger
kabbalista
Il fulcro è la ricaduta nella metafisica,
con la questione ebraica, lungamente argomentate. La metafisica aborrita, che
l’Essere risolve nell’ente, nei “Quaderni neri” è imputata all’ebraismo: “Per
Heidegger esiste un nesso di complicità tra metafisica e ebraismo…. Esito unico
e aberrante della modernità, il potere ebraico è il predominio dell’ente. La
condanna non potrebbe essere più schiacciante” (del potere? della metafisica?).
Tutto questo al coperto, nel non detto.
Un compito Donatella Di Cesare si assume
analogo a quello svolto dal Bourdieu citato su Heidegger campione della “dissimulazione”. Fino poi a fare del silenzio
la scaturigine del linguaggio – come di fatto è. Distinguendo, certo, tra la
reticenza, il Verschweigen, e il passare sotto silenzio, l’Erschweigen,
il corpo fertile del non detto. Uno che sapeva cosa voleva quando non voleva
dire.
Su questo non detto, fa giganteggiare una “metafisica ebraica”, di cui ai
“Quaderni neri”, con la “metafisica occidentale” al centro dell’attenzione (critica)
di Heidegger. Mette anzi la “questione ebraica”, l’ebraismo, al centro della
filosofia - della “filosofia occidentale”, in realtà tedesca. In alternativa a
quasi tuta la filosofia tedesca, derivata dalla teologia luterana.
Un “ebreo” viene ipostatizzato, con una “filosofia
occidentale”. Un ebraismo elevato a contraltare della “filosofia occidentale”. O
anche non contro, ma della stessa consistenza e rilevanza. E fa come se la
“metafisica occidentale” vivesse nel e per l’antisemitismo: “L’Ebreo è
insediato nel cuore del pensiero di Heidegger, nel centro della questione per eccellenza
della filosofia”.
Come? “L’antisemitismo ha una provenienza
teologica e una intenzione politica. Nel caso di Heidegger assume anche un rango
filosofico” – teologica, cioè luterana. Ma, se così è, se è una contesa alla
pari, è una guerra semmai di titani, non antisemitismo. Che è invece la
“distruzione” (Zerstörung) degli
ebrei. Fisica, non metafisica. A meno che una “metafisica ebraica” non ci sia.
Anzi, la colpa di Heidegger non è stata il nazismo, è stata la ricaduta, a
proposito dell’ebraismo, nella metafisica: “Ecco la profonda, ingiustificabile,
«colpa»: Heidegger «si compromette con la metafisica»”, Di Cesare conclude con
Lyotard.
Di più – di questo giallo si può svelare
la conclusione: “Non si può non constatate questa sorprendente coincidenza, nel
nulla, e nella reazione del nulla, tra Heidegger e la Kabbalah” – attraverso, opina ancora Di Cesare in nota, Meister
Eckhart e Jakob Böhme. E continua: “Una convergenza che si estende anche al
modo di intendere il nulla, che non è mera negazione. Segreto, nella sua presenza, inaccessibile, nella sua
accessibilità, il nulla è la profondità
dell’Essere, è la tenebra da cui sorge ogni luce…”. L’antisemita Heidegger
ebreo in quintessenza… Ma non è una burla: il linguaggio non perdona.
Una dichiarazione d’amore? Molto
naturalmente è contestabile – l’assunto è forte, la filosofa l’avrà scontato. A
supporto – a difesa di Heidgeger, non più isolato nella colpa – cita, come già
Derrida, anche una conferenza di Valéry, 1919, alla fine della guerra, “La crisi del pensiero”, che non c’entra
nulla. Nel contesto di “Heidegger e gli ebrei”, ma pure nell’esposizione che
Derrida ne fa in una lunghissima
nota, Valéry non c’entra nulla, è solo il vezzo citazionista di Derrida. Ma serve
a fare di Heidegger un mezzo fratello, solo un po’ traviato.
Suscita scandalo la conferenza di Brema,
dicembre 1949? Ci sarebbe di che, Heidegger vi argomenta che “l’agricoltura è
oggi industria alimentare, che nella sua essenza è lo stesso della fabbricazione
di cadaveri nelle camera a gas e nei campi di sterminio, lo stesso del blocco e
dell’affamamento di intere nazioni, lo stesso della fabbricazione di bombe
all’idrogeno”. Ma è la stessa cosa, obietta Di Cesare: è “l’estraniazione
dell’esserci dall’Essere”. Questo è il delitto supremo. “Il disinteresse ontologico
di Heidegger verso la Shoah” non è cattiveria, ha un fondamento, anch’esso
ontologico: “Nella storia dell’Essere non c’è posto per le grida soffocate delle
vittime. Non c’è posto per l’orrore né per il trauma”. E beh, certo, a Brema
Heidegger non mise “camera a gas” tra virgolette, come suole, e disse proprio
“campi di sterminio”, e non come suole Kz,
campi di concentramento.
L’introduzione-sommario del resto si conclude
con una serie di pezze d’appoggio insostenibili – anche per chi per Heidegger
non spasima. Con la Judenfrage, questione
ebraica, come opposta alla Seinfrage,
la questione dell’essere. Con un Heidegger che aderisce al nazismo per
antisemitismo: “L’antisemitismo non è infatti un di più ideologico ma è il
cardine del nazionalsocialismo”. No, non lo è. E con Schmitt e Jünger “più”antisemiti:
“Cade così anche quella differenza che segnava ancora per molti la distanza di
Heidegger ad esempio da Carl Schmitt o da Ernst Jünger”. Schmitt e Jünger non
erano così tedeschi, anzi, sono fra i pochi tedeschi del Novecento con gli
occhi aperti.
Alla fine lo smalto si
offusca. Con l’assunzione di Heidegger, nazista, antisemita e tutto,
nell’ebraismo, non solo nella metafisica. Con Zarader, “Il debito impensato”,
assoldandolo non solo alla Kabbalah ma su tutta la linea: “La componente ebraica, passata sotto silenzio,
ritorna, senza essere identificata, in punti strategici, tornanti decisivi del
cammino di Heidegger: la concezione del linguaggio, quella della storia, il
tema dell’interpretazione, della sottrazione, del nulla, dell’abbandono,
perfino della temporalità”. Heidegger non esce dalla metafisica che vuole
espugnare e più precisamente dalla metafisica ebraica. Che va bene, ottimo, in
un taglio ironico, satirico, dissolvente, per fare bum con la bocca. Altrimenti
suona essa stessa paradossale – tutto si può dimostrare, ma a un costo: il
nazionalismo filosofico è arduo (faticoso, greve), anche se è molto tedesco.
Donatella Di Cesare, Heidegger e gli ebrei, Bollati Boringhieri, pp. 367 € 20