Giuseppe Leuzzi
L’ex pm dello
Stato-mafia di Palermo, Ingroia, accusato di peculato, si difende: “Io in
alberghi di lusso? Ci vanno anche i pm”. Probabile. Ma: le toghe che si
difendono con chiamate di correo?
Il
caciocavallo silano è brand della
Puglia. L’ovale calabrese, denominato valencia o navelino, si vende in enormi
quantità, preferibilmente dalla Spagna. La clementina di Calabria, protetta da igp,
si vende in Europa, Roma e Milano comprese, proveniente da Nord Africa e Spagna.
L’olio nei ristoranti della Costa Viola viene in bustina da Crescenzago. La
povertà può essere una conquista - necessita sforzi.
Il Sud a rischio
Francesco
Drago e Lucrezia Reichlin prendono sul serio il plebiscito meridionale per i 5
Stelle. Sono i soli, vale la pena leggerli. Cominciano ricordando che le cose
al Sud sono diverse da come si dice per l’Italia, con “tassi di
disoccupazione che sfiorano il 20 percento e in alcune regioni il 60 per quella
giovanile”. E finiscono spiegando piano,
senza bisogno di spremersi le meningi: “Rattrista vedere come il voto
sia stato letto quasi ovunque in modo semplificato, come domanda di assistenzialismo
o paura di cambiamento. Non semplifichiamo. La domanda di assistenzialismo nel
Sud c’è sempre stata e sicuramente c’è ancora oggi, ma la società meridionale
il 4 marzo ha detto qualcosa di più. Abbandonando i partiti tradizionali
incapaci di rispondere ai suoi bisogni, ha espresso piuttosto una disponibilità
a sperimentare qualcosa che non si conosce e che potrebbe essere migliore dello
status quo. Il contrario di una avversione al rischio”. Dopo settanta o ottant’anni
di questione meridionale, il Sud resta ignoto, anche ai meridionali.
Risorgimento per ridere
Risorgimento da ridere
La spedizione
dei Mille si fece al canto di “La bella Gigogin”, che aveva avuto successo a
Milano l’anno prima. Garibaldi compose brutti versi, che qualcuno propose di
cantare sulla musica del coro della “Norma”, ma la cosa non piacque, si
continuò con “La bella Gigogin”. Di cui è noto soprattutto il ritornello: “Di quindici anni facevo all'amore:\ Daghela avanti un passo,
delizia del mio cuore.\ A sedici anni ho preso marito:\ Daghela avanti un
passo, delizia del mio cuor.\ A diecisette mi son spartita:\ Daghela avanti un
passo, delizia del mio cuor”. Ma è canzone patriottica.
Fu composta
nel 1858 a Milano, in dialetto lombardo-piemontese, come invito all’azione a
Vittorio Emanuele II. Come tale fu recepita a Milano alle prime esecuzioni
della banda musicale cittadina. Anche se gli occupanti austriaci non ne
intesero il senso. Al punto che l’aneddotica anti-austriaca vuole che la
suonassero nella battaglia di Magenta, all’attacco contro le truppe francesi.
Le quali risposero intonando il
ritornello: “Daghela avanti un passo” intendendo riferirsi a Vittorio Emanuele
II per l’occupazione della Lombardia.
Questo e altro
racconta Luciano Bianciardi in uno dei suoi tanti racconti del Risorgimento, la
sua passione, di cui si tace perché è finita dissacratoria. Nel racconto dei
Mille, “Il Risorgimento allegro”.
“La guerra per
il Meridione era finita; ma già ne stava cominciando un’altra, più lunga, più
dura, più sanguinosa. Anzi, più sanguinosa di tutte le guerre risorgimentali
messe assieme”. Così conclude il racconto dei Mille. “Ne parleremo più avanti”,
promette. Poi se ne dimentica. Ma intanto precisa. “Basti sapere che fu una
guerra civile, fratricida, atroce”. Era la cosiddetta “lotta al brigantaggio”.
Bianciardi,
garibaldino, non ha grande opinione di Cavour. Ne scrive come di uno abile a
sbrogliare le matasse, ma di nessuna visione. “Cavour neanche fece il gesto di recarsi
a Napoli e in Sicilia”, dice a un certo punto. Questo è vero. Si può
aggiungere che ci mandò a suo nome Lamarmora e Cialdini. Due generali. Due
incapaci – come si vedrà a Custoza – e anche stupidi.
Garibaldi si
fece eleggere deputato a Napoli, al primo Parlamento, 1861. Liquidato a Caprera
subito dope Teano, senza cerimonie, senza mai un invito alle tante celebrazioni
dell’unità, si presentò al primo Parlamento unitario come deputato di Napoli.
In chiave
revanscista, si parla di neo-borbonismo. Ma una repubblica del Sud con Garibaldi
non sarebbe stata molto meglio, dell’unità e dei Borboni? Peggio non avrebbe
potuto.
La Repubblica ha separato il Sud
La Repubblica
sarà stata la stagione più nuova dell’Italia. Rispetto al Risorgimento che le
ha dato origine, che fu classista, perfino oligarchico, e l’ha penetrata fino
al fascismo incluso, nei linguaggi, le tematiche, l’assetto politico della
società. Nuovi ceti, nuovi interessi, nuovi modelli intellettuali irrompono con
la Repubblica: il Risorgimento è di colpo un reliquato notabilare, la
Repubblica è operosa, creativa, menefreghista, nuovamente avventurosa, molto
curiosa, democratica, populista. Cadono anche le vecchie finzioni, i tre poteri
del liberalismo ante 1789, la res publica
super partes, il patriottismo obbediente e assoluto, le gerarchie.
Sostituite dalla prima, vera, ideologia nazionale: il capitalismo – la sfida,
il consumo, gli affari. La res publica
della Repubblica è la ricchezza.
Solo il Sud in
tanto tumulto rimane quello che era – e per molti aspetti peggiora: era
applicato, “testardo”, è neghittoso, era coriaceo, specie nelle avversità, è debole,
era inventivo, emigrando, è lagnoso Tutto muta, si trasforma, migliora, peggiora,
nell’arco di una vita, una, due, anche tre volte, solo il Sud resta “Sud”. Si
sarebbe tentati di dire che peggiora, ma il “Sud” è il peggio per antonomasia. E
tuttavia la Repubblica ha “creato” il Sud, come un mondo a parte. E quasi sotto
un tallone di ferro: lo ha separato, col sottogoverno, le mafie, il leghismo.
Il Sud valeva più o meno la metà del pil dell’Italia
post bellica – industrie ridotte per le distruzioni, agricoltura ancora
centrale. Oggi non ne vale un quarto (sulle cifre il discorso non è opinabile,
è possibile farlo, andrà fatto).
Si può riportare l’inizio del Sud all’unità,
ai Borboni, al Seicento, agli Angioini. La datazione di un’epoca è sempre
complessa. Gli storici ancora non hanno
deciso se far finire il Medio Evo a Dante, o alla caduta di Granada, o
alla scoperta dell’America. Ma è certo che il Sud come tutto ha avuto un
inizio, col suo carico razzista, anche se molto deve agli stessi meridionali. Fino
a tutto il Settecento non c’era. Nemmeno fino a metà Ottocento. Non per Goethe,
Vivant Denon, Stendhal, Courier, Lear, i
viaggiatori colti. Un carico decisivo ce l’ha messo naturalmente Dumas, che
pure è molto “meridionale”, con i suoi “Borboni di Napoli”, sedici volumi in
ottavo di nefandezze. Poi vennero i generali di Cavour. E le viaggiatrici, che
anelavano ai briganti, e se li inventavano.
La squalifica e il sottosviluppo cominciano
con l’unità. Questo è indubbio. Roma non era più pulita di Napoli, o meno
povera, e faceva più morti a mano armata. Né Torino più industrializzata. Per
non dire del Veneto.
L’unità (il Risorgimento) si può leggere
anche come uno sradicamento colossale del Sud. Spiantato e annegato nella
turpitudine insieme con i Borboni, che non erano il Sud – e certo erano
riformisti e non peggiori dei Savoia. Anatema che Napoli e la Sicilia hanno
interiorizzato, regioni urbanizzate e risorgimentali, e hanno imposto a tutto
il Sud, con gli sbirri e i prefetti. È l’esemplificazione perfetta dello
sradicamento che Simone Weil negli anni 1930 ha individuato e stigmatizzato
come la peste dei popoli – “La prima radice”. Anche perché è agricolo – campagnolo,
poco urbanizzato, se non per Napoli e Palermo : lo era produttivamente e lo è
rimasto mentalmente, per la psicologia sociale. Vittima dello sradicamento
delle campagne, che S.Weil individuava alla radice dello “sradicamento” mentale
di larghe masse in Europa.
Il Sud Italia è marginale perché è a
Sud, come ogni Terzo mondo. Ed è marginale perché è agricolo. La campagna si
sente ed è marginale in tutto ciò che conta: la politica, i consumi, le idee.
Fare della campagna il centro della modernizzazione sarebbe la ricetta:
consumi, abitudini, modi di dire e di essere, l’uso del tempo. Un’utopia in
termini di produzione, ma non di funzione vitale.
leuzzi@antiit.eu