Giuseppe Leuzzi
Il quinto Stato
dell’Europa s’impoverisce
“Il
territorio sotto Roma”, scopre Fubini sul “Corriere della sera”, da solo
formerebbe il quinto Stato più grande dell’area euro”, venti milioni di
cittadini.
Fubini
constata poi che l’euromania ha fatto
male e malissismo al Sud. Con una serie impressionante di dati, ben più corposi
di quelli noti
“Gli anni dell’euro al Sud hanno coinciso con una catastrofe
economica con pochi paragoni nella storia europea. Dall’inizio del secolo il
Meridione è rimasto indietro rapidamente: in termini di reddito lordo, ha perso
un terzo sulla media dell’Unione europea, il 30% sulla Germania, il 27%
sull’area euro e circa il 40% sulla Spagna; l’arretramento sul centro-nord
dell’Italia è stato di oltre dieci punti, persino sulla Grecia di cinque”. Con
metà della popolazione a rischio povertà. Due milioni di emigrati in venti
anni. E un investimento immobiliare azzerato.
Sull’investimento immobiliare Fubini sbaglia. Non è azzerato,
è a debito: restano i muti da pagare alle banche, più spesso doppi.
Dopo
Reichlin e Drago, questo di Fubini
è
l’unico commento ragionato sul voto del Sud. Altrove silenzio totale, compresi
i media meridionali.
Il Misasi-Sismi
di Moro
Nelle
evocazioni dell’assassinio di Moro, per i quarant’anni, è scomparsa la
‘ndrangheta. Che c’era in molte ricostruzioni.
A
opera di giornalisti calabresi? Una no, era di Benito Cazora, un deputato
siciliano, Dc, che l’aveva evocata in corte d’Assise a Perugia al processo per
l’assassinio di Pecorelli: “La mala calabrese mi indicò il covo br di Moro”,
sostenne Cazora. Nella persona di un “Rocco”, il quale gli aveva spiegato: “I
calabresi a Roma sono 400 mila, e possono controllare il territorio”. Un’armata
calabrese, perché no: fu sanfedista a Napoli, può ben essere ‘ndranghetista a
Roma, è facile.
Il
Rocco di Cazora, Rocco Varone, voleva solo il trasferimento a Rebibbia del
fratello Francesco, condannato all’Asinara. L’onorevole Cazora si adoperò con
Sereno Freato, il segretario di Moro, per fargli avere il trasferimento.
Dopodiché, chiamato a Perugia, il carcerato disse che non sapeva niente di
Moro.
Di
calabrese viene trascurata nel lutto per Moro la più importante delle lettere dal
carcere brigatista: quella che il 29
aprile Moro indirizzò a Misasi, come colui che avrebbe potuto “risolvere” la
questione. L’onorevole Riccardo Misasi, già ministro del Commercio Estero e poi
della Pubblica Istruzione, era allora figura di secondo piano nella Dc –
emergerà come segretario amministrativo di De Mita, uomo cioè di speciale
fiducia del segretario Dc. Era però crittogramma abbastanza evidente di
Sismi.
L’assistenzialismo
alimenta il sottosviluppo
Pier
Luigi Ballini mostra in “Debito pubblico e
politica estera all’inizio del ‘900” come il consolidamento del debito pubblico
nel 1906, un “risparmio” di una diecina di miliardi di euro, annui, ai valori
di oggi, fu sperperato nelle spese di grandezza. Spese militari per lo più e
coloniali. Senza alcun corrispettivo – il colonialismo italiano è sempre stato
in perdita, nel conto del dare e avere, e non lieve.
Lo
stesso si potrebbe probabilmente dimostrare dell’assistenzialismo. Di cui,
bisogna riconoscere, la Repubblica non ha mani difettato - neanche in questi
decenni leghisti. Della crescita del debito per aiuti allo sviluppo interno come
relazione improduttiva e anzi perversa. Che accresce il debito. Indebolisce e
anzi frantuma lo Stato. E non allevia la povertà, sociale e regionale, né le
condizioni della povertà (abitudini, vezzi, usi: mentalità), che anzi aggrava.
Si spiegherebbe il fallimento delle politiche meridionalistiche, che pure ci
sono state.
L’analogia
non è diretta. Allora si risanò il debito, anche se solo provvisoriamente. A un
costo per i risparmiatori. Per destinare il ricavato a spese improduttive. Oggi
invece il debito aumenta, a un costo per tutti gli italiani, con effetti di
spesa negativi (solo una parte dell’assistenzialismo va a spese sociali
ineliminabili: l’aiuto al bisogno, la
spesa sanitaria, le pensioni sociali). Tre dat negativi oggi, contro due
allora. Ma l’effetto perverso tra indebitamento e spreco si può dire analogo.
Il Sud per primo dovrebbe risentirsene – sviluppo sì, assistenza no.
L’antimafia è
atto di fede
La
“Gazzetta del Sud” vanta “le spettacolari immagini dell’arresto del boss
Giuseppe Pelle”. “Il Fato quotidiano” ha il video dell’arresto. La notizia è la
prima, drammatica, nei notiziari radio e tv del mattino e della giornata.
L’arresto è di un ricercato che stava in una casa sua, perfino rifinita – in
zona impervia dice il video, ma l’Aspromonte è impervio. E attendeva l’arresto.
Era latitante dai domiciliari, dove scontava una pena di due anni e mezzo.
Dobbiamo
credere. Ma i Carabinieri – la Polizia in questo caso – non dovrebbero fare
teatro, scoraggiano.
“Quale
investigatore sceglierebbe per risolvere i tanti casi insoluti dell’Italia di
oggi?” Alla domanda di “Panorama”, 25 giugno 1984, al Mystfest di Cattolica in
un finto processo ad A. Christie, “Gli AntiChristie”, Sciascia risponde
risoluto: “Senza dubbio un maresciallo dei carabinieri, perché lui conosce bene
le cose, i luoghi, le persone”. Il maresciallo della sua infanzia. Anche della sua
giovinezza: negli anni 1950 il maresciallo sapeva tutto. Poi non più.
Oggi
i Carabinieri vivono reclusi dietro inferriate e sistemi di sorveglianza e
allarme, bene isolati.
Fanno
il controllo del territorio nel senso che fanno le multe, stradali.
Non
si può dire che il problema del Sud siano i Carabinieri. Ma lo sono.
Il complesso del
Nord
Il
giovane Sciascia nel 1954, orripilato dall’anticomunismo di Mike Hammer, il
detective di Mike Spillane, 13 milioni di copie negli Usa, “male che combatte
un altro male”, trova che “si traduce nei termini politici di casa nostra in
quel male minore di cui discorre il
nostro sedicente uomo d’ordine quando giudica le destre in confronto alle
sinistre; dichiarandosi insomma per quel male
minore che è il fascismo”.
Trent’anni
dopo probabilmente non lo avrebbe scritto – meno che mai oggi, sessantacinque
anni dopo. Hammer è Hammer, con tutto Spillane. Il fascismo è il fascismo. La domanda
d’ordine è domanda d’ordine, non sedicente.
Nei
“termini politici di casa nostra” si sottintende dell’Italia. Ma Sciascia è ben
siciliano - già allora, quando la differenza non si faceva. Il suo uomo
d’ordine parafascista del 1954 è meridionale, la filigrana è ben evidente. C’è
molta fuga in avanti nella riflessione del Sud sul Sud. Verso un magistero, o
politicamente corretto, italiano, che già allora era nordico. Per il complesso
di non essere il Nord.
Milano
Non si fanno processi
per droga a Milano, la città che ne consuma di più – molto di più. Né per
corruzione, la città che è più corrotta – molto di più. Solo si f ano processi
all’Eni, perché paga le mazzette agli africani. E a Berlusconi, per le squillo.
Due corpi estranei, la città si assolve.
A opera di giudici
siculo-partenopei, finezza.
Non c’è delinquenza a
Milano. Sono ‘ndranghetisti, per lo più semianalfabeti, che patteggiano i voti
della famiglia allargata – cognati, compagni, cugini in terzo e quarto grado,
figliocci e padrini – in cambio di qualche subappalto, minuscolo.
“Sereni” di questa pax ambrosiana sono giudici e gendarmi
siculo-partenopei, che si ritengono molto furbi. Che Milano premia citandoli
con ammirazione, ma sempre in punta di bastone – Milano l’è un gran Milàn.
Sereno è – era – a
Madrid l’uomo che deteneva le chiave delle case, un capo caseggiato
rassicurante.
Anche i processi sono
inverecondi a Milano. Si condanna e si assolve per pregiudizio. Scopertamente.
Per il convincimento personale dei giudici, certo, ma chiaramente per i loro
pregiudizi: politici, religiosi, e perfino sociali, di casta. L’elenco sarebbe
interminabile, se purtroppo si seguono le cronache.
Chiaramente perché il
più delle volte dichiarati. Contro ogni fondamento giuridico, ma senza colpa e
anzi con merito. Milano usa i processi come riti purificatori, con capri
espiatori.
Si fa chiamare
“Hymnus Ambrosianus” il “Te Deum” della liturgia cattolica, l’inno del
ringraziamento, 29 versetti di vigorosa prosa ritmica, sul presupposto che
sarebbe stato cantato per la prima volta da san’Ambrogio e sant’Agostino
insieme a Milano per il battesimo di quest’ultimo. Mentre l’inno, di datazione
incerta, è probabile opera di un vescovo Niceta, della remota Dacia, di un
secolo più tardi. L’appropriazione indebita è connaturata alla città.
Fa un po’ pena il
Milan in mano a cinesi squattrinati, che hanno acquistato il club come un
marchio semifallito, da spremere. Un club tenuto su da due calabresi cocciuti.
Senza che un solo milanese dica “mi dispiace”, non dicendo per micragna “ci
penso io”. Neanche di fronte allo squallido derby.
La Lega, Mani Pulite,
Berlusconi, Casaleggio-5 Stelle: tutto il nuovo che in quart’anni ha distrutto
il quinto paese più ricco del mondo viene da Milano. La “capitale morale”
d’Italia – così dichiarata da dichiarati libertini, quale è Scalfari. E sa di golpazo: gli affari non vogliono la
politica.
Si può dire Milano la città dell’odio. Il segno
è naturalmente la Lega. Con la sua appendice 5 Stelle, che è cresciuta quando
la Lega sembrava addomesticata. Con i Casaleggio e i media compiacenti milanesi. Il populismo che oggi ci domina. Con i giornaloni
milanesi, anche sportivi, anche confindustriali, e le case editrici, a
demonizzare per anni la politica, in ogni ordine, e le istituzioni – la “casta”.
Polemiche che non si possono pensare errori: questo è il cuore di Milano, tutto
è merda, solo l’arricchimento no.
leuzzi@antiit.eu