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Populismo
– È una reazione, in forma passiva, di deriva e non ribellistica, alle crisi
prolungate. Alle crisi economiche, che peggiorano la condizione reddituale e
sociale. Non a quelle politiche, le guerre per esempio, che al contrario in
vario modo alimentano la mobilitazione.
È una smobilitazione. Lo è stato in Europa negli anni 1930,
nell’Europa dell’Est dopo le illusioni
seguite alla caduta del Muro, e nei paesi dell’Europa occidentale che più hanno
risentito gli effetti della crisi delle banche Usa nel 2007: Italia, Spagna,
Grecia. Anche in Germania, che statisticamente ha da tempo superato la crisi,
ma questo grazie agli accordi sindacali di tredici anni fa che hanno declassato
un terzo della forza lavoro - garantendola
con l’assistenza pubblica, che però è burocraticamente onerosa ed è risentita
come una diminuzione.
La Francia fa caso a parte, per una cultura “repubblicana” di
cui è parte una deriva sciovinista, costante, della quale l’ultimo esito è il
fenomeno Le Pen, outsider che è
pilastro costante della scena politica ormai da quarant’anni, dagli anni 1980 –
ma già a metà degli anni 1930, e perfino col Frnte Popolare del 1936, la
Francia, che pure è stata a molti focolare d’accoglienza, reagiva contro l’immigrazione,
degli italiani prima, molti fuoriusciti politici, e degli spagnoli dopo.
L’impoverimento
c’è
Categoria vecchia, si vuole, e indefinita.
E tuttavia nuova, e invadente. Per un mondo che è crollato. Di supponenza.
D’incapacità. Di un’ideologizzazione che
si voleva precisa, coerente, “politica”, perché armata e in realtà confusa. È
la cartina di tornasole che le rivela. Un fenomeno europeo, peraltro, forse
legato alla decadenza, alla fine di una civiltà. Di un assetto sclerotizzato
che la globalizzazione ha sconvolto. La globalizzazione che si è dovuto
acconciare a sostenere ma a cui non riesce ad adattarsi. L’immigrazione di massa. Il lavoro sregolato,
flessibile, precario. L’outsourcing,
senza nessuna professione o competenza, giusto al ribasso. Il lavoro autonomo –
il vecchio artigianato, ma senza le consorterie e le privative: il lavoro a
tutti gli effetti pratici non è più contrattualizzato. La scomparsa del
sindacato. La scomparsa dei partiti. Un mondo talmente sclerotico da
argomentare oggi che solo il Pd è un partito politico, che è un’assurdità.
Si
sottostima, con gli effetti della crisi bancaria americana del 2007, anche l’arretramento
sociale ed economico che la globalizzazione impone a ceti crescenti. Il vecchio
ceto medio, la cui reazione è stata evidente e vincente nel referendum
britannico sull’Europa, e poi negli Usa nel voto per Trump. Nei due paesi-guida
del liberismo e della liberalizzazione. Gli studi economici e sociopolitici sui
due eventi lo confermano unanimi: i movimenti antagonisti e isolazionisti sono
nati e si rafforzano per effetto della globalizzazione. Un quarto di secolo di
paghe basse e di incertezze non sono più una transizione verso un assetto migliore,
ma un assetto peggiorato: chiunque prometta di combatterlo, non importa come, è
benvenuto. L’effetto Trump ha portato a rivelare che negli Usa di Barack Obama,
che vantava la quasi piena occupazione (la disoccupazione al 5 per cento è
considerata frizionale, uno stato di piena occupazione), il reddito disponibile
si è ristretto, specie le paghe. E così pure la produttività, che ha registrato
incrementi annui dell’1 per cento o meno, legati a un’economia di servizi a
scarso o nessun valore aggiunto – ristorazione, pulizia, guardiania, servizi
domestici. Mentre molta produzione qualificata, inclusa della Silicon Valley, era
emigrata in Asia e in Europa.
Mainstream Usa
Negli Usa non nasce con Trump. Ha, al
contrario, una lunga e molto consistente tradizione – si potrebbe anche dire
che è il sentiment politico mainstream, con terminologia americana. Tradizionalmente
schierato contro i poteri costituiti, del denaro e delle influenze (sette,
cordate, massonerie). Quindi, si direbbe, di sinistra. Lyndon La Rouche,
l’ultimo grande argomentatore populista americano, veniva dalla sinistra
americana, radicaltrozkista. Con Trump è come se si fosse rovesciato,
diventando manna per la destra, dei superricchi come dei superpoveri che si
ritengano sfruttati – dalla globalizzazione, dagli immigrati.
La
gente, i common people,
l’uomo comune, in Italia squalificato dalla scienza politica togliattiana e da
Guglielmo Giannini, è entità rispettabile in America, dove il regime
plebiscitario, del partito del Capo, da almeno un trentennio ha prevalso sui partiti,
e allo stato delle cose li ha obliterati. Il New Deal ne ha creato la figura,
Frank Capra l’ha celebrato nei film, il filosofo John Dewey gli dà dignità.
La fine dell’opinione pubblica
È la crisi dell’opinione pubblica, che
quindi avrà avuto vita corta, due secoli o poco più. Per consunzione interna,
della funzione intellettuale di mediazione che è stata caratteristica dei media,
dall’“Enciclopedia” di Diderot e D’Alembert in poi. E per effetto della licenza
incondizionata di comunicazione via internet – che ora si tenta di arginare, ma
con difficoltà, e senza veri strumenti, che non siano liberticidi.
Il
No si direbbe un successo dell’opinione pubblica, che si configura come
opinione critica. Ma allo stato dei fatti è una deriva, forse fatale. Nel senso
che indica un arroccamento su posizioni chiuse, repulsive, e anche vendicative,
minacciose.
Questi
esiti vanno indubbiamente nel senso basico dell’opinione pubblica:
rappresentano la maggioranza della popolazione, del voto. Oppure non sono
l’esito di astuzie e demagogie, avventure
di capipopolo, spregiudicati, cinici, e mobilitazione di autodidatti sguarniti,
volenterosi e stupidi? Certamente sono un “tradimento dell’opinione pubblica”,
ma analogo al “tradimento degli intellettuali” di J.Benda un secolo fa: un
movimento interno di rovesciamento
degli obiettivi, masochista, autodistruttivo.
S’intende
l’opinione pubblica un’interazione di obiettivi e convincimenti con segno
positivo, per un di più e non un meno, di libertà e opportunità. Ma è anche
vero che il populismo, nelle varie dosi in cui pure c’è stato e c’è, viene
incontro ad aspettative frustrate, non le suscita né le stimola. Non sono Grillo
o Salvini - né gli analoghi europei - che mettono in discussione l’euro e
l’Europa, sono l’euro e l’Europa che suscitano e alimentano i Grillo e i
Salvini, almeno per questo aspetto. Non è Trump che mette in discussione la
globalizzazione, è la globalizzazione che mette in discussione se stessa,
avendo suscitato per metà del mondo, lo stesso Occidente che l’ha promossa, un
arretramento del livello di vita, e anche del reddito, della stragrande
maggioranza della sua popolazione, un impoverimento generale, con pratiche in
troppi casi non regolari, di protezionismi mascherati e di dumping. Per non dire degli effetti collaterali, sempre della
globalizzazione, che sempre la stragrande maggioranza finisce per pagare,
direttamente o indirettamente: i carissimi raid finanziari, ora anche sulle
banche, le superretribuzioni di tutte le posizioni costituite, manageriali e
istituzionali (in Italia alcune migliaia di posizioni nella Funzione Pubblica),
l’impunità del crimine economico, e quindi la corruzione endemica, sistemica.
La chiesa è
populista
Fondamentalmente
il populismo è eccitare l’opinione pubblica, un sinonimo di demagogia. Ma può
essere anche rispondere all’opinione pubblica, per rappresentarla e governarla
(indirizzarla).
Allargata
a papa Bergoglio, la categoria viene anche sbalzata di natura e confini. Ma
alla chiesa non si può imputarla come colpa: la chiesa è populista. Lo è sempre stata, lo è per natura: del popolo, per il
popolo. È in questo populismo che la chiesa ha maturato le istituzioni
democratiche che governano le nostre democrazie: la comunità, il voto, il
comando temporaneo, la parità o uguaglianza di condizioni all’entrata, il
rispetto delle minoranze, la difesa dagli estremismi.
Ribellistico
È forte e persistente soprattutto nella
protesta. Violento anche, fino al terrorismo. Contro l’alta velocità, contro
l’autostrada, contro l’aeroporto, contro il gasdotto, contro la
globalizzazione, contro la legge finanziaria. Dario Fo, che era di tutte le
proteste, lo rivendicava due anni fa sull’“Espresso”, in risposta al sociologo
della letteratura Marco Belpoliti: “Il letterato impiega il termine «populista»
nell’accezione in voga da qualche anno in Italia, cioè quella di considerare il
populismo una sorta di pretestuoso espediente per imbonire furbescamente una
comunità di semplici creduloni facili ad essere gestiti con qualsiasi
argomento”. Bene, concludeva, il populismo lo rivendica: è la democrazia, la
rivoluzione francese – “un’ideologia caratteristica di movimento politico o
artistico che vede nel popolo un modello etico e sociale e il rispetto di ogni
individuo che faccia parte di una comunità civile”. Civile come spia del
populismo. Non autoritario?
L’unanimismo
dell’opinione che ha diritto di cittadinanza è anch’esso, in queste
circostanze, un’aggravante: opera per la reazione populista. Nelle intemperanze
di Grillo, non solo, di più nel voto dello spettatore passivo. Tolleranza, agnosticismo,
permissivismo, uniformità – la dittatura del cosiddetto “politicamente corretto”,
il conformismo – pesa in due modi: allenta la forza o voglia di reazione - l’impegno
- al di là del rito; suscita inevitabile un reazione contraria, al contrario vivace
(aggressiva), l’impegno volendosi totalitario e elitistico, escludente.
Populismo
autoritario
La
categoria del “populismo autoritario” è stata codificata da Stuart Hall,
studioso britannico delle culture, contro Margaret Thatcher. Ma è antica: ha un
illustre precedente, se non ne fu l’iniziatore, in Cesare. Un nobile, il nobile
per eccellenza, che minò la Repubblica facendo leva sui plebei. Un tribuno a vocazione tirannica che si
serve, contro le istituzioni, del popolo bestia – che lui considera besta. Con
determinazione (leggi, cariche, protezioni, perfino aristocratici che si
facevano degradare a plebei per poter rappresentare i veri plebei) e anche con
la violenza.
Un
fenomeno la cui perpetuazione si ha nel notabilato. Cha ha dominato la storia
dell’Italia unita, anche quella della Repubblica.
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