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sabato 19 maggio 2018

America Latina autoviolenta

Il Venezuela va a votare. È un paese impoverito e anzi affamato, ma non può votare che Maduro, che lo ha impoverito e affamato. C’è qualcosa che non funziona nel dna delle popolazioni latino-americane, dal Messico all’Argentina. Paesi tutti che hanno dei problemi, e non li risolvono, anzi li peggiorano.
Sono paesi come gli altri, terre di problemi e opportunità. Ampiamente europeizzati, quindi legati al mondo più ricco, fino a qualche tempo fa, e più “progredito” - civile, democratico, ugualitario. Alcuni sono parte dei Bric, quelli che stanno per farcela, a entrare nel gruppo dei paesi economicamente forti, a giungere a un reddito pro capite nella media dei paesi industrializzati. Prima l’Argentina, poi il Cile e il Brasile, ora il Perù. Ma senza un tessuto connettivo stabile.
Delle 50 città più violente al mondo, 42 sono in America Latina – 17 nel solo Brasile, 12 in Messico 5 in Venezuela, 3 in Colombia, 2 in Honduras, 1 in Guatemala e El Salvador – più la Giamaica. Si uccide per droga, per mafia, per la politica, e anche per niente. Con tassi altissimi, dal 5 all’11 per mille abitanti. La celebre Acapulco in Messico è la terza città al mondo per densità di assassinii, 107 per ogni 100 mila abitanti. La violencia si è perfino predicata in chiesa, seppure a fini “rivoluzionari”.
Non solo il Venezuela, o Cuba, o il Nicaragua non possono avere un governo liberamente eletto. In Brasile, sotto le apparenze, è la stessa cosa: i presidenti eletti vengono regolarmente rimossi, a favore di questo o quell’interesse. Mentre in Messico “regna” da sempre lo stesso partito, solo di nome Repubblicano. Il Perù non ha più da quasi cinquant’anni un presidente che non sia finito in prigione – dismessa la carica. Il Guatemala (ha già un comico a capo del governo), lEcuador di Moreno che faceva festa col papa Francesco, un piccolo dittatore come tanti, o la Bolivia non si governano meglio.
Della corruzione è vano parlare, tanto è diffusa.
Usava incolpare la “conquista”. Ma è un evento remoto. E dunque? Il sangue non c’entra, il razzismo non ha basi. Ma la razza c’è, è un dato: i popoli sono diversi. Per linguaggio o mentalità -  accumulo storico socializzato. Che ha evidenti riflessi nella fisiologia: emozioni, passioni, riflessi condizionati.  

La rivoluzione di Jünger rosso-bruna

Tre anni di scritture non decisive, rispetto ai sette anni del primo volume della raccolta, 1919-1925. Ma molto produttivi, e prodromi al “Lavoratore”, l’identikit dell’uomo del Novecento – e anche del Millennio, finora – che chiuderà la decade.
Jünger è come lo dice Quirino Principe nella nota introduttiva: “Dotato del particolare eroismo intellettuale che sa e vuole schivare la mentitrice dialettica tra «tipo reazionario» e «tipo rivoluzionario» (tra «destra» e «sinistra» culturale), sospinto dal suo destino individuale verso la forma dell’Anarca, e destinato ad essere, anche in una guerra futura, il più disarmato degli eroi”. Anche se poi non lo è: è inerme, ma ben di destra, nazionalista e gerarchico.
In questi scritti, successivi a quelli della smobilitazione, della guerra, è critico costante delle forme politiche che la Repubblica va assumendo. Nazionalista a ogni passo, anche se cerca un “nuovo” nazionalismo, non solo militare. E una forma politica che sarà detta della Rivoluzione Conservatrice. Ma ben per uno “Stato nazionale, sociale, armato e gerarchicamente articolato”. Tra il bolscevismo, “misterioso dispiegamento di un nuovo sentimento universale a Est”, e “un nazionalismo rivoluzionario degli strati lavoratori e dell’intellighenzia”. Legati “misteriosamente”: “Viviamo il curioso paradosso di un bolscevismo nazionale e di un fascismo che ambisce scavalcare i confini tra le nazioni”. Un fatto “divertente” se si sa “pensare rinunciando ai pregiudizi”. Ma non strano: “Al di sotto della loro superficie si muove una grande forza comune”.
La Germania di Weimar Jünger vuole in concorrenza con l’Est – non è mai questione dell’Ovest, che resta il Nemico: “Dopo una chiarificazione attraverso la battaglia e dopo l’esclusione di quanto è assolutamente teoretico, utopico e inabile alla vita, verranno a costituirsi fronti comuni più ampi di quanto si possa finora immaginare”. Un fronte comune anti-occidentale, restando “orientato in senso nazionale, militaristico e imperialistico”. Il socialismo è “un importante campo del nostro pensiero”. Da qui la “fondazione del partito Nazionalsocialista, sorto per una profonda esigenza” – anche se ha già fatto “una mossa sbagliata  che ha prodotto un inspiegabile errore della Storia” (il putsch fallito).
Sono gli ultimi echi dell’ambivalenza rosso-bruna nel persistente tema nazionalistico-rivoluzionario della Germania di Weimar. Il nazionalismo, invece, sarà tema duraturo.  
“Privo della retorica bellicosa” dice Jünger Carlo Fruttero, ed è vero, è la sua specificità. Non odia il peggior nemico. Nel libro-rivelazione, “Nelle tempeste d’acciaio”, e dopo. Che però è vano angelicare: “Quanto meglio si osserva, tanto più si finisce per credere al comando misterioso e preveggente di una grandiosa  ragione biologica. È l’imperturbata forza vitale a costituire il vero spirito del popolo tedesco che sempre torna a manifestarsi… La nostra vita attuale è la prosecuzione della guerra con altri mezzi”. Per nulla pacifista: “Davvero siamo nati in una generazione di combattenti e la parola pace ha perso per noi il suo senso come pure – vorrei anche aggiungere – il suo fascino”.
Un gruppo di scritti curiosamente – effetto della datazione? – in antitesi col primo volume della raccolta, degli anni successivi alla guerra. Che si articolavano perfino in senso liberale. Di uno comunque non corrivo al revanscismo dominante e anzi saldo in uno sguardo pacifico sul mondo. L’effetto sconfitta si era già dissolto.
Ernst Jünger, Scritti politici e di guerra 1919-1933. Vol. II, 1926-1928, Libreria Editrice Goriziana, pp. 351 € 21

venerdì 18 maggio 2018

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (363)

Giuseppe Leuzzi

Primo Levi al Sud
A proposito delle “contine”, il sorteggio attraverso la conta che presiede(va) ai giochi infantili, Primo Levi le trova, nel repertorio “Children’s Games” di Iona e Roger Opie, “diffuse in tutto l’impero britannico” ma di origine non inglese ma gallese, e derivate dalla “serie dei numerali, probabilmente preceltica, che usavano in tempi remoti i mandriani del Galles unicamente per contare i capi di bestiame” (“L’internazionale dei bambini”, un articolo poi confluito nella raccolta “L’altrui mestiere”). E aggiunge: “A quanto pare, usavano quella, e non la numerazione ordinaria, a scopo apotropaico, affinché cioè gli spiriti del male non comprendessero”, e magari sottraessero “qualche bestia, per furto o malattia”.
Bidussa, Belpoliti, Federico Pianzola, Angela Di Fazio, Enrico Mattioda,  un po’ tutti gli innumerevoli studiosi che ne analizzano l’opera, sono attratti dai riferimenti in Primo Levi a questa funzione che si attribuisce a oggetti o formule di tenere a bada gli spiriti del male invidiosi. Altrove Levi ricorda che per vent’anni sulla porta d’ingresso della casa della vita, dei genitori prima e poi sua, insieme a un ferro di cavallo a scopo notoriamente apotropaico trovato dallo zio Corrado, ha penzolato da un chiodo una grossa chiave “di cui tutti avevano dimenticato la destinazione ma che nessuno osava gettare via”.
Da ultimo, scrivendo grato a Einaudi nel gennaio 1987, poco prima quindi del suicidio, che aveva manifestato l’intenzione di ristampare la raccolta “Vizio di forma”, cui Levi temeva ma era stata la meno fortunata di tutte le sue opere, spiegava scherzoso: “Quanto a «Ottima è l’acqua»”, un racconto fantascientifico della raccolta, “poco dopo la sua pubblicazione lo «Scientific American» ha riportato la notizia, di fonte sovietica, di una «poliacqua» viscosa e tossica, simile per molti versi a quella da me anticipata: per fortuna di tutti, le esperienze relative si sono dimostrate non riproducibili e tutto è finito in fumo. Mi lusinga il pensiero che questa mia lugubre invenzione abbia avuto un effetto retroattivo e apotropaico” – e continuava: “Si rassicuri quindi il lettore: l’acqua, magari inquinata, non diventerà mai viscosa, e tutti i mari conserveranno le loro onde”.
Nella cultura magno greca il riferimento non sarebbe stato una bizzarria – la cosa e il senso, se non la parola. Non lo è per Primo Levi, perché era persona colta, che apprezzava cioè la cultura e si coltivava. Lo è nell’Italia contemporanea, leghista di fatto prima che nel voto a Salvini.
Primo Levi il Sud lo pensava come “noi”. Nei racconti della prigionia e dell’odissea postbellica, in cui ha sempre gente del Sud come di un qualsiasi altro posto dell’Italia, e nelle divagazioni. Benché testimone dell’invasione di Torino da parte dei cafoni – un’invasione ben più problematica di quella dei “migranti” oggi. Mai una nota di sofferenza, eppure scrisse tanto, e di tutto, perché non ne soffriva. 
Nella stessa “Internazionale dei bambini” s’interroga sull’origine della parola “marsa!” con cui fino ai primi del Novecento in Piemonte i ragazzi chiedevano una pausa o la fine del gioco. Proponeva questa soluzione: “«Marsa», in arabo, è il porto, d’onde Marsala, Marsa Matruh e altri toponimi; è probabile che valga anche «riparo, asilo». Se così è, continuava, è un segnale che viene dal Sud. E si rivolgeva ai vecchi: “Per accertarlo, bisognerebbe che gli anziani che nell’infanzia hanno giocato a rimpiattino in Sicilia si sforzassero di ricordare come si chiedeva tregua al loro tempo e al loro paese. Li prego di farlo” – l’articolo si pubblicava su “La Stampa”.
Non ebbe risposta, ma non per altro - e questo è l’altro aspetto della storia: è che al Sud non si legge, non i vecchi e nemmeno i giovani loro nipoti, nemmeno Primo Levi.  

Inter-Lazio 2-0
È già tutto scritto? Nelle intenzioni sì, non c’è partita tra Lazio e Inter, che domani si giocano la Champions, l’accesso alla Champions – un passaggio di molti milioni.
Dovendo battere la Lazio all’ultimo goal, l’Inter mette sotto contratto il miglior difensore della squadra romana e deposita il contratto. È lo “stile ambrosiano”. A cui si piegano i regolamenti federali – si può comprare un calciatore del prossimo avversario che si vuole indebolire, comprarlo in corso d’opera, alla vigilia di una partita “decisiva”.
L’Inter lo ha già fatto, sempre con la Lazio, col calciatore Pandev, nel 2010. L’Inter, che allora dominava la Lega, aveva trattato due calciatori della Lazio, Ledesma e Pandev.  Quando la Lazio protestò, Ledesma non interessava più al club milanese, e la Lega Calcio lo lasciò alla Lazio. Lo stesso collegio arbitrale della Lega che invece decretava il passaggio gratuito di Pandev all’Inter. Perché Pandev serviva all’Inter per fare finalmente i gol.  Milano ha sempre ragione.

Milano città del pizzo
Milano piange Ligresti in morte, che non ha mai sopportato: Milano non ha cessato di attaccarlo in tutti i modi, sui giornali ambrosiani e in Procura: per essere socialista, e socialista di Craxi, oppure fascista, o democristiano, o curiale (la curia a Milano è grande proprietaria di aree), per essere un costruttore, oppure solo un venditore, per essere un giocatore d’azzardo, oppure solo uno fortunato, e raccomandato sempre, anche se a chi non si dice. Eccetto che sul lato sessuale, la Procura di Milano compiacente e le forze di polizia non hanno avuto requie contro il costruttore siciliano: il partito degli immobiliaristi è nutrito  e specialmente avido nella capitale morale d’Italia. Prima di Berlusconi Ligresti è stato quello con più visite intimidatorie della Finanza e dei Carabinieri.
Da Virgillito a Ligresti, non c’è stato siciliano che abbia fatto fortuna stabile a Milano nel dopoguerra – prima non vi si avventuravano. Neanche Cuccia, tutto sommato, benché siciliano solo a metà. E compresi i cavalieri del Lavoro catanesi, che arrivati nella Padania hanno perso tutto, rischiando perfino di passare per mafiosi.
Diverso il caso dei (pochi) imprenditori calabresi e napoletani che prosperano indisturbati. Si sono coperti associandosi a milanesi.
Milano è indubbiamente terra di opportunità - produce ricchezza. Ma vuole il pizzo.

La mafia dell’antimafia
Questo Montante sarà un mafioso e un corruttore, un mefistofele, un delinquente pericolosissimo. Ma le accuse, su “la Repubblica-Palermo” da quattro anni specialmente insistenti, e ora di Bianconi sul “Corriere della sera”, sembrano un copione comico:
“Montante protetto dai boss mafiosi”, senza dire chi, né come né quando – basta la parola. Il lavoro di cinque anni di una Procura che si occupa solo di lui, di questo signore. Di cui, non essendo riuscita in questi anni a dimostrare la mafiosità, il primo capo d’accusa, ora vuole l’anatema e l’ostracismo per spionaggio. 
Questa è la storia. Antonello Montante, industriale della bici e animatore dell’antimafia confindustriale,  in Sicilia e a Roma, quattro anni fa è stato imputato di associazione  mafiosa. Ora, caduta l’associazione, è imputato di ostacolo alle indagini. Doveva accettare l’imputazione?
Montante, animatore del Pd siciliano, e a questo titolo immortalato anche da Camilleri in un racconto, animatore della giunta Crocetta di sinistra, in carica fino a tutto il 2017, viene imputato insieme con l’ex presidente del Senato Schifani, ex-neo berlusconiano. I giudici aspettavano che Schifani tornasse da Berlusconi – si dice Schifani ma si intende Berlusconi? Berlusconi è l’unico mafioso in Sicilia da trent’anni a questa parte. Dapprima in combutta con Riina e Provenzano, e poi con Montante?
Certo, un’imputazione in Sicilia non si nega a nessuno, la giustizia è terribilista – non c’è la giustizia in Sicilia? A nessuno che sia in politica o in affari, gente che non spara.
La Procura di Caltanissetta è specialmente attiva, famosa per questo negli annali. Dal 1992 cerca l’Agenda Rossa di Borsellino. Che la stessa Procura ha visionato e archiviato nel 1992, subito dopo il massacro.

leuzzi@antiit.eu

Contro Roma prima della guerra, del 14-18

Un vero pamphlet. Nella lingua tagliente del Papini giovane ancora ai trent’anni. Che già aveva avuto modo di scagliarsi contro Roma, nota l’editore, in varie pubblicazioni: su “Critica e azione” nel febbraio 1908, su “La Voce” nel 1908-1909, sul “Leonardo” e le “Memorie d’Iddio” nel 1911, e l’anno successivo in “L’altra metà”. Di tutte fa un concentrato in questo testo, che fu letto a una seduta marinettiana, col titolo “Contro Roma e contro Benedetto Croce”, la sera del 21 febbraio 1913. A Roma. Al teatro dell’Opera, il teatro Costanzi. Una sfida, che non mancò di suscitare l’attesa reazione dei romani in sala – ma Papini poté leggere tutto il suo lungo intervento.
Un attacco alla “casta”, se si vuole, alla curia papale e alle cariche istituzionali. In toni leghisti: Roma è “brigantesca e corruttrice”, torpida, incapace d’innovazione e originalità, senza iniziativa né ingegno, né senso artistico, “l’Urbe di tutte le rettoriche”. Di fatto un esempio, consueto in Papini, nella tradizione toscana ma non solo, di polemica sterile. Se non a ingigantire il polemista. Che ben s’innestava nel polemismo futurista, del futuro Cav. Grand’Uff. F.T.Marinetti.  
La prima parte è diretta contro Roma. Una seconda contro i “cristianucci”. Una terza contro Croce. Di sottile effetto comico dopo un secolo.
Giovanni Papini, Contro Roma, Elliot, pp. 41 € 6

giovedì 17 maggio 2018

Ombre - 416

“Via la Fornero, sì alla flat tax, via i Btp in mano alla Bce. Riconvertire l’Ilva e stop ai cantieri Tav. Vola lo spread”. La stupidità esiste, si sa, ma un governo per fare bancarotta restava da vedere. Nemmeno fraudolenta, gli italiani ci credono. In buona fede?
È anche vero che il suicidio è la nuova frontiera, più nuova perfino di Di Maio e Salvini.

Trump sale nei sondaggi. Il dollaro si rafforza. Kim Jong-Un chiude il sito di sperimentazioni nucleari. Ma “la Repubblica” mantiene la trincea calda. Ecco Rampini trasformare le notizie buone in cattive:
Vorranno renderci Trump simpatico?

Gabanelli scopre che la rete idrica è un colabrodo: gli acquedotti si perdono per strada due litri su ogni cinque. Uno spreco, economico e fisico. In corso da decenni – gli acquedotti risalgono, i più nuovi, a dopo la guerra. Sette o otto anni dopo aver tuonato contro la “privatizzazione” dell’acqua -  bene primario, comune, inalienabile, il frasario salvanima - al referendum. La coerenza non è dei maestri?

L’America premia Ronan Farrow per avere denunciato le molestie sessuali, di Weinstein e altri. Cioè per avere scritto quello che tutti sanno. E molte praticavano, a ragione veduta. Compresa la madre del premiato, Mia Farrow, che dice di averlo fatto con Frank Sinatra, quando era sposata con Woody Allen. Di aver fatto Ronan.

A trent’anni Ronan Farrow, ora giornalista, è molto sperimentato: è stato avvocato e consulente governativo. Tutto per merito suo, naturalmente. Nonché testimone a vari processi contro Woody Allen per molestie a una delle sue sorelline. Processi conclusi con assoluzioni che per lui non contano. Ha pure cambiato nome per non portare quello del padre che la madre odia. Il puritanesimo è come la questione morale, nasconde i peccati.

Nel caso dei Farrow il puritanesimo fa di più. I suoi peccati li addossa agli altri. Che è un vecchio schema, del capro espiatorio. Ma bisogna saperlo.

La direttiva della Vigilanza bancaria della Bce ha buone probabilità di lasciare il sistema creditizio a secco: niente più prestiti. Ma come non detto, non interessa a nessuno.
“Banche, un miliardo di utili al mese”, scopre Stefano Righi per “L’Economia”. È poco, è troppo? Ma a spese della produzione. Anche del risparmio. 

Crozza con la parrucca sembra meno teatrale di Grillo al naturale.
Anche di Mauro Corona a “Cartabianca”. Il reale è satirico?

L’arbitro inglese di Real Madrid-Juventus ci ha messo un mese – mai successo, un tempo infinito - per stilare il referto della partita, con l’espulsione di Buffon e la squalifica? No, ha avuto problemi ad avere l’endorsement del Madrid, al quale lo ha chiesto tramite il quotidiano del club, “As”. Il Madrid temeva il ridicolo e ha chiesto tempo. 


 “Rottura incomprensibile, populismo sindacale”, non ha parole abbastanza dure il ministro Calenda per stigmatizzare la Cgil che rifiuta ogni accordo su Taranto. Basterebbe dirla stupidità: Camusso lascia l’Ilva al nuovo governo, che chiuderà l’impianto. Magari ipotizzando per il futuro dei ventimila lavoratori un futuro radioso di camerieri e bagnini – per i nipoti dei ventimila, per un paio di loro. Da quando la Cgil serve alle carriere politiche dei suoi capetti, è una tragedia.

La sindaca di Roma Raggi, che aveva debuttato privando Roma dell’Olimpiade, imbeccata da Grillo, ha poi autorizzato, imbeccata da Grillo, la speculazione attorno allo stadio dell’As Roma, e ora fa da sé: “Dobbiamo cambiare prospettiva rispetto alle grandi opere”, annuncia. O sarà stata imbeccata da Casaleggio, invece di Grillo, che per questo è venuto a Roma?

Raggi fa gli annunci progettuali quando Grillo o Casaleggio vengono a Roma. Di certe cose non si parla al telefono, tanto meno online.
Non sarà, ma è come se: il no all’Olimpiade per liberare a Roma gli affari 5 Stelle.

La sindaca Raggi, che si veste da sera la mattina, non si occupa della spazzatura, ha l’azienda dei trasporti pubblici al fallimento in tribunale, mentre i mezzi bruciano per strada, e lascia da due inverni le strade piene di buche e i marciapiedi sconnessi, è amata dai romani: ne son orgogliosi. Morale?

La sindaca Raggi sarà “tutti noi”, tutti quelli del “signora mia” che ora ci governano. Ma non ci sono altri romani? Roma non ha il senso del ridicolo – che vantava.


Di Roma non sappiamo che dire

Un libro leggero, di parole e di pensieri – l’editore curiosamente lo presenta “composto di realtà e di stereotipi”. Perché di Roma non si sa che dire? Respinge, non solo i lombardi, anche i meridionali. Che poi però vi si installano, comodi. Compresi gli editori Laterza.
Lo storico Vidotto ha avuto l’idea di rifare la collettanea, con lo stesso titolo, del 1975, che riuniva le divagazioni in tema dei primari scrittori dell’epoca, tutti di fuori Roma, eccetto Moravia e Bellezza, e tutti alla fine simpatetici. Lo stesso con questa compilazione: Dove i romani sono cinque, Magrelli, Trevi, Raimo, Di Paolo, Scego, e gli immigrati quattro, Lagioia, Culicchia, Ciabatti, Pascale. Ma tutti  più o meno a loro agio – eccetto Lagioia, che a Roma ci sta bene poiché ci vive ma gioca al malumone e la dice copia di Mumbai (va’ a  sapere cos’è Mumbai per lui – “una città indiana” probabilmente, ma non sarebbe razzista?). Non c’è critica, e non c’è amore.
Il fatto – il limite della breve antologia – è che non si sa che dire di Roma. Cioè: a Roma c’è molto da dire, da ridire. Ma non da censurare – è inutile: Roma è.
I testi qui riproposti del vecchio “Contro Roma”, di Montale, Moravia, Soldati, Piovene, Parise, Siciliano, La Capria, Maraini, Bellezza, perfino Giovannino Russo, fanno una (grossa) differenza.
AA.VV., Contro Roma, Laterza, pp. 215 € 16

mercoledì 16 maggio 2018

I cecchini di Gaza per gli ayatollah

I morti sono palestinesi, il beneficiario è l’Iran? Ultimo, unico, patrono islamico dei palestinesi.
Gli umori sono spenti nelle capitali arabe, dominate dall’islam sunnita, che è in guerra con l’Iran sciita, dal Cairo a Riad. Ma gli umori popolari che la diplomazie europee fiutano sono rabbiosi, e sono contro. Contro i loro governi, e quindi per l’islam di questi governi nemico, quello degli ayatollah. Erdogan esce dal silenzio sunnita perché è l’unico che in qualche modo dipende dal voto popolare.
I palestinesi di Gaza uccisi dai cecchini israeliani sono un monumento all’Iran. È il consenso univoco nelle capitali europee. Nel momento di una grossa perdita di peso internazionale degli ayatollah, dopo la denuncia americana dell’accordo sul nucleare e le sanzioni. Per la stessa precisione dei tiratori scelti israeliani - senza alcun danno, e contro avversari non armati.
Un monumento inciso in una memoria indelebile. La sovversione, che i sunniti hanno avuto libertà di inscenare nel mondo arabo al tempo di Obama, non sarebbe spenta anche se non si manifesta. Navigherebbe sotterranea. È un riflesso condizionato del mondo arabo - forse non  dell’Iran, il più vecchio potentato della storia, ma nel mondo arabo la vendetta è imprescindibile.
Più terrorismo è la risposta attesa. Non esclusa una vera primavera araba. Contro i regimi cioè che inscenarono quella del 2011.  

L’impero dei paglietta – l’America è un altro mondo 3

È arrivata al parossismo, è roba da “paglietta”, si direbbe a Napoli, da avvocaticchi facinorosi. Un avvocato, Mueller, nominato Procuratore Speciale sul presidente degli Stati Uniti. Da un avvocato che è vice-ministro della Giustizia. Che si pavoneggia per un anno e mezzo, e poi fa il suo atto d’accusa su un giornale nemico di Trump. Disponendo non una imputazione ma una trappola. Difesa a gran voce da tutti gli avvocati d’America, una moltitudine, come l’epitome della democrazia. Anzi della legalità, che è sempre materia di avvocati. E non c’è altra America: i media  sono schierati con la legalità, naturalmente. .
Un altro avvocato capo dell’Fbi che dopo essere stato dimesso dal presidente si vendica minacciandolo di segreti che non rivela? Sempre in America. Lo ricatta, ricatta il presidente? Scontrandosi con una coorte di avvocati consiglieri della Casa Bianca, ora anche l’ex sindaco di New York Giuliani. Dopo il famoso processo, anche qello lungo un paio d’anni, a Clinton, se si era fatto leccare da una stagista alla Casa Bianca, dove queste cose non si fanno, e in che misura. Si può riderne, ma sono gli Stati Uniti, hanno potere su di noi di vita o di morte.
Il tutto appeso a una Corte Costituzionale composta di avvocati. Che in nessun altro paese come negli Stati Uniti statuisce su tutto. Un bel Gruppo dei Sei, o degli Otto, o dei Dieci, di medievale memoria, tra Comuni e Principati – non inventato dal consulente di Grillo, il professore Della Cananea.
Il voto elettorale è un evento come un altro. Anche recente negli Stati Uniti: fino a qualche decennio fa bisognava pagare per votare – poco, da uno a cinque dollari, ma si pagava.
Decidono gli avvocati, con trucchi da avvocati, comprese ora le indiscrezioni pilotate. Per giudizi cioè preconfezionati.
L’America è un paese colpevolista, l’accusatore piace. Ci ha messo molto a fare una legge contro il linciaggio, ritenuto un diritto, una specie di “delitto d’onore”. Si dovette togliere il voto ai neri, dopo la guerra civile, per mettere un argine ai linciaggi. Nei cento anni fino al 1968 – nel 1969 una legge contro i crimini di odio fu passata – di duecento proposte di legge presentate contro il linciaggio, solo tre furono discusse, e solo alla Camera dei rappresentanti, mai al Senato. E ancora oggi non vuole controllare le vendite di armi.
È un mondo che si fa giustizia da sé. Fatto di vendicatori, ogni americano si ritiene in diritto di andare in giro sparando per “fare giustizia”. Ma in mano agli avvocati. Ora, il giustiziere western ancora ancora, ma il paglietta su tutto? Perché poi non se ne esce, il pagliettismo è contagioso.  
Noi del mondo libero ne siamo vittime in quanto da qualche tempo l’America avvocatizia ci assedia, nel nome della privacy. Con regolamenti di molte pagine a corpo minuscolo, illeggibili e comunque incomprensibili – fatti per le cause per danni, specie negli Usa diffusissima, con gli avvocati a percentuale – che dobbiamo sottoscrivere a ogni passo, a decine. Comprese le liberatorie ai siti di servizio internet. Nonchè ai “parla con noi” dei maggiori siti, google, facebook, etc., con miriadi di risposte precompilate che rimandano ad altre risposte, per la sola gioia degli avvocati che le compilano, e degli eventuali patrocinatori per danni, a percentuale.
Si capiscono in questa alluvione avvocatizia le ultime strane avventure a cui gli Usa ci hanno convitato. A liberare l’Afghanistan e l’Irak. E la Libia. A liberarli da che cosa? O l’Ucraina, che era ben liberata. Una logica imperiale tutta avvocatesca. Dell’imbroglio riuscito – insomma.
E si finisce per tifare Trump, presidente improbabile. Ma almeno diretto. Imbroglione per definizione, essendo stato una vita un uomo d’affari, un mediatore. Che fa figura di uomo retto – esplicito – nell’immondizia che erge a legge.

La bozza fascista

La bozza di governo messa a punto giovedì alle 9.30 e poi “superata”è punto per punto fascista. Modernamente popolare e elettorale, ma determinata, risolutiva. E centrata sul leader, che per il momento è sdoppiato.
Il governo sia controllato dai due partiti, attraverso un Politburo, un Comitato di conciliazione – nel fascismo, che non si può menzionare, era Gran Consiglio.
Manette per tutti: allungamento della prescrizione, manette agli evasori, inasprimento delle pene, più carceri e più tribunali, niente alternative al carcere.
Immigrati da respingere. Moschee da controllare.
L’Italia farà da sé. Fuori dall’euro (fuori dall’euro? e “quota 90”?). Niente sanzioni alla Russia. Missioni internazionali non di pace.

Reddito di cittadinanza a 800 euro – al Sud sono uno stipendio: tutti Lsu, i lavoratori socialmente utili diventano una professione. 
Tagliare il debito. Cominci la Bce tagliando 250 miliardi, di crediti – non poco, un quinto, poco meno, di tutto il debito. Poi patrimoniale.
Una bozza, non un diktat. E senza manganello. Anzi col consenso popolare – ma il fascismo è plebiscitario: un italiano su due vuole il governo della bozza. E niente, ancora, al confronto col Duce, la cui popolarità fu di nove su dieci e forse più. Ma è anche poco lo sforzo che Di Maio e Salvini ci hanno messo e ci mettono – sembrano sorpresi loro stessi per primi: il loro è proprio un consenso spontaneo.

In cerca della filosofia artificiale

“Devo puntare il nonno o il nipote?” Il pilota automatico, di fronte a questo imprevisto sulle strisce pedonali, non sa darsi una  risposta, perché il quesito non è stato programmato. Non farà peggio del pilota umano, posto che non abbia scelta non omicida. Ma, lo stesso, non è rassicurante: perché?
Kissinger non sa dire, non essendo dentro la tecnologia, tanto più per essere questa tecnologia in sviluppo costante. Ma ne fa una questione epocale: siamo nell’Età della Ragione, dopo l’Età della Religione, aperta dalla stampa nel Quattocento, e passiamo a un mondo basato su “macchine azionate da dati e algoritmi e non governate da norme etiche o filosofiche”. Pone dei quesiti. E arriva a conclusioni – il saggio non è lungo, otto cartelle, ma denso..
I quesiti sono di tre tipi. “La IA può raggiungere risultati non voluti”. È tema di fantascienza, ma “il pericolo che interpreti male le istruzioni per la sua inerente mancanza di contesto” è “probabile”. Inoltre, “arrivando a effetti non voluti, la IA può cambiare i processi di riflessione umani e i valori umani”. Né è senza rischi il fatto che “la IA vuole avere ragione”: “È questa insistenza pervicace ad avere ragione caratteristica della IA?” E in campo educativo, “vogliamo che i bambini imparino i valori attraverso algoritmi scollegati, o dobbiamo restringerne l’uso, e in che misura?”
Secondariamente, “se la IA apprende esponenzialmente più veloce che l’uomo, dobbiamo aspettarci che acceleri, anche esponenzialmente, il processo per prove ed errori con cui le decisioni umane generalmente si fanno, di fare errori più rapidamente e di maggiore grandezza di quelli che fanno gli umani”. In terzo luogo, concesso che la IA può raggiungere certe conclusioni più rapidamente dell’uomo, è però incapace di spiegarle. La cosa è disturbante perché “in certi campi – riconoscimento dei modelli, analisi dei big-data, gioco – le capacità della IA possono già avere sorpassato quelle umane”. Kissinger si è posto il problema della IA ascoltando una conferenza in cui si spiegava come un computer avesse vinto contro “Go”, “gioco più complesso degli scacchi, in cui ogni giocatore schiera 180 o 181 pezzi su un campo vuoto, che deve poi conquistare pezzo a pezzo”.
La conclusione è che la IA può aiutare poco i processi politici, per la sua “instabilità”, o insensibilità ai contesti, alla complessità. Sì per la enorme capacità di memorizzazione e compitazione, ma poco o niente per le decisioni: ha “cominciato a produrre” una “trasformazione della condizione umana”, ma i governi si limiteranno più probabilmente “ad accertarne le applicazioni in termini di sicurezza e intelligence”.
Le conclusioni sono un avvertimento ai tecnologi, di porsi I problemi che stanno creando. In sintesi: “L’Età della Ragione è cominciata con riflessioni essenzialmente filosofiche connesse a una nuova tecnologia”, la stampa mentre “il nostro periodo muove nella direzione opposta. Ha generato una tecnologia potenzialmente dominante in cerca di una filosofia che la guidi”.
Henry Kissinger, How the Enlightenment Ends”,“The Atlantic”, giugno, free online

martedì 15 maggio 2018

Problemi di base divini - 419

spock

Dio ci ha abbandonati dopo la creazione?

Alla morte del Cristo suo figlio?

O con l’imperatore Giuliano?

Con Nietzsche?

Con Auschwitz?

Oppure parla col silenzio?

Ma allora noi parliamo a caso?

E nella Bibbia che ci fa?

O ci perseguita sempre?

Magari con la disattenzione?

Il Dio d’amore?

spock@antiit.eu

Il sacro del profano

Un oratorio composto da Marcello Panni, parole e musica, su un’idea del cardinale Ravasi. Una lettura dell’ Apocalisse” di san Giovanni, di Elio De Capitani nelle vesti del Narratore Giovanni, e di Sonia Bergamasco in quelle della Sposa Celeste. Dove è molto di inferno, come è nell’originale, in suoni e immagini per arrivare al paradiso.
Un passaggio poco canonico, che Ravasi prova a stemperare introducendo i due tempi dell’oratorio.  – ma non può evitare la simbologia poco cristiana dell’originale, a partire dalla numerologia, del sette insistito, le sette chiese allora (80 d.C. circa) in essere, di Efeso, Smirne, Pergamo, Tiàtira, Sardi, Filadelfia e Laodicea, e del tre.  La sorpresa è la musica di Panni: musica sacra fuori dai canoni del genere. Imperniata sul sette, dice il compositore nella nota di sala, “come elemento portante ritmico e strutturale”, ma più sui suoni, molto poco orchestrali. Un organico di trenta fiati della banda dell’Esercito, e un gruppo di rumoristi di cinema aggregati articolano la musica in una sorta di linguaggio universale, degli uomini degli animali e delle cose, di effetto ipnotico. Niente arie, motivi, armonie, danze, ma un insieme trascinante, in una dimensione diversa. Un “rito sciamanico” lo definisce l’autore, “una sacralità primitiva”. Lo dice anche “una cerimonia antica e senza tempo”, ma allora in forma di lavacro, di liberazione.
Ravasi riporta la sua “idea” all’“Apocalisse” di Tarkovskij, che dell’ultimo libro della Bibbia ha speciale conoscenza come ogni buon cristiano ortodosso. La conferenza, poi libro, che il regista tenne a Londra nel 1984, lo stesso anno del suo film italiano, “Nostalghia”, spiega la sofferenza dello sradicamento, lontano dalla patria russa, dalla quale Tarkovskij era stato appena allontanato. L’evangelista Giovanni descrive nell’“Apocalisse” tutto ciò che vede, ma tace tutto ciò che vede nel libro del Settimo Sigillo. Una voce interna gli intima di non esprimersi più su ciò che ora vede. E dunque l’“Apocalisse” è il libro dell’esilio dell’uomo. Che può essere detto, ma rimane sempre al di là.
Un oratorio approntato da Panni per il festival dei due Mondi di Spoleto 2009. Una prova di abilità per il Coro  e le Voci bianche dell’Accademia di Santa Cecilia.
Marcello Panni, Apokàlypsis, Auditorium Parco della Musica Roma

lunedì 14 maggio 2018

Letture - 345

letterautore

Antichi e moderniErano “moderni” i soggetti letterari tratti dalla religione e dalla storia del cristianesimo, nella prima disputa tra gli antichi e i moderni, in Francia, nel secondo Seicento. Anticipata da Tassoni e Traiano Boccalini, e prima ancora da Giordano Bruno, e prima ancora da Bandello. Le schiere erano confuse in Francia: tra i “modernisti” furono, oltre a gesuiti, due laici come i fratelli Perrault. Classicisti erano i letterati di maggiore spicco: La Fontaine, Racine, Nicolas Boileau, La Bruyère.

Antisemitismo – Molto si è detto del “non sapevamo” in guerra. Dello sterminio degli ebrei in Germania e nei territori occupati dai tedeschi. In realtà si sapeva. Non delle camere a gas, ma della deportazione degli ebrei nei campi di lavoro, fino allo sfinimento. Ne scrissero i giornali americani già nel 1942. E nell’autunno del 1943 una curiosa polemica accolse una poesia di Ben Hecht, lo sceneggiatore di Hollywood premio Oscar, “The Ballad of the doomed Jews of Europa”, pubblicata il 14 settembre.
In precedenza Hecht aveva montato sulla persecuzione degli ebrei in Europa uno spettacolo “tutto stelle”, “We will never die”, il 9 marzo 1943, prodotto da Billy Rose e Lubitsch, regia di Moss Hart, musiche di Kurt Weil, con la partecipazione di molti grandi nomi, ebrei – Edward G. Robinson, Sylvia Sidney, Paul Muni – e non – Sinatra, Ralph Bellamy, Burgess Meredith. La rappresentazione ebbe luogo al Madison Square Garden di New York, per un pubblico stimato in 40 mila persone, e fu portata in tour per alcune città, per una audience di circa 400 mila spettatori.
La poesia denunciava la nessuna attenzione che nei paesi in guerra contro la Germania si dava alla questione ebraica: “Quattro milioni di ebrei in attesa della morte\ Oh, appesi o bruciati - ma tranquilli, ebrei!\ Non ci annoiate, risparmiate il fiato –\ Il mondo è occupato con altre notizie…” Continuava con: “Impiccati come un bosco di rami rotti\ O bruciati in qualche migliaio di forni nazi…” Per finire con: “Oh mondo, sii paziente: ci vorrà tempo\ Prima che le squadre della morte\ Abbiano finito. Per Natale potrai fare\ La tua Pace sulla terra senza gli ebrei”.
Dashiell Hammet, allora mobilitato contro i giapponesi alle isole Aleutine, dove redigeva ogni giorno un quotidiano per le truppe, ne scrisse allarmato a Lillian Hellman il 28-30 settembre 1943: “La poesia di Ben Hecht è incredibile. Pensa veramente che dovremmo dire a Hitler: mettiamo fine alla guerra se voi non uccidete più altri ebrei?” Una lettura diversa dei versi. Che avrebbero avuto un effetto, continuava, controproducente:  “Abbiamo qui un sacco di antisemiti. Ho testato la poesia su alcuni e funziona a meraviglia: la percepiscono del tutto come un testo antisemita. Per essi è  chiaro che la poesia ricorda che gli ebrei dovrebbero chiudere il becco sui loro piccoli problemi nel momento in cui grandi sconvolgimenti sono all’opera – e lo hanno anche affisso su una bacheca affinché i pochi ebrei che abbiamo ne traggano profitto”. Una posizione scivolosa di cui Hammett è conscio, tanto più che Lillian Hellman era di famiglia ebraica (di “spirito levantino un po’ contorto” la dice scherzoso nella corrispondenza), ma da cui non recede. Aggiunge infatti tra parentesi: “Ho un po’ vergogna di me; ma, Dio mio, mi viene da ridere, perché, se i suoi correligionari incoraggiano Hecht, allora non ci si può aspettare che io uccida sempre il Nerone che sonnecchia in me”..

Baudelaire – Ma era figlio di un padre sessantaduenne, prete spretato, e di una ragazza ventisettenne. Orfano a sei anni. A otto sotto la ferula di un patrigno ben presente, un militare, futuro generale.

Decadente – Un appellativo spregiativo che fu motivo di orgoglio. Di quelli che venivano alla fine di una “età dell’Oro”, appena vecchia di vent’anni, con Baudelaire e Nerval. E teorizzavano il “decadentismo”, oggi si direbbe la crisi. Una deriva forte in Francia, con Huysmans, “A ritroso”, e la grande poesie Fine Secolo (Verlaine, Rimbaud, Mallarmé). Notevole in Italia (D’Annunzio ma anche Pascoli). Più consistente e duratura in Russia: Brjusov, Belyi, Sologub, Blok e fino a Pasternak.

Intellettuale – Specie scomparsa, all’improvviso. Come i dinosauri. O come una setta che abbia deciso di eliminarsi – l’intellettuale, diceva il “Che” Guevara, deve solo suicidarsi, e più quello “avanzato” (nel senso di progredito, impegnato per la giusta causa, e non di rifiuto, residuo).

Mésalliance – È del repertorio della narrativa siciliana, il matrimonio della figlia o del figlio di nobile casato con un villano\a arricchito\a per rimpolpare il patrimonio. Immortalata dalle nozze del  “Gattopardo” principe Tancredi con Angelica, la figlia del borghese Sedara.
L’isola si vuole perennemente decaduta, e quindi preda , con tutto il suo pedigree, di gabelloti e mafiosi. Ma è lo schema di Proust, della “Ricerca”. Del Narratore grimpeur – peggio se solo in immaginazione. Di Gilberte figlia di una demi-mondaine sposa di Saint-Loup – san Sebastiano doppio, in quanto nobile e in quanto omosessuale. Della storia a ruoli rovesciati, del Narratore con Albert-ine.

Proust – È scoperta tedesca. Di E.R.Curtius, 1925, Marcel Proust”, a partire dal 1922 in “Der neue Merkur” e fino al 1925. E di Leo Spitzer, 1928, “Stilstudien”.

La “Ricerca” Fortini (“Ventiquattro voci per un dizionario di lettere”, 49) vuole una “Imitazione”, o una “Introduzione alla vita beata”: “È stato detto che è tutta una «intermittenza del cuore«, ché così Proust chiama le rivelazioni della memoria involontaria; ma più esattamente, forse è una «Introduzione alla vita beata», una «Imitazione». È uno strumento di salvezza: l’itinerario edificante e la guida all’itinerario vi fanno tutt’uno”. Più che un racconto, Proust vi fa una perorazione, per “una rivoluzione morale e intellettuale che coincida con la persuasione della vanità di ogni realtà”. Compresa la vanità di Proust?

Roma – “Contro Roma” era esercizio dei grandi letterati romani nel 1975, capitanati da Moravia. Che riprendevano il vecchio slogan giornalistico di Benedetti e Scalfari, “L’Espresso”, di quasi vent’anni prima, di “Milano, capitale morale d’Italia”, etc..”Ma quale capitale”, inveiva il romanissimo Moravia, un distillato della romanità.  Con Montale, Maraini, Piovene, La Capria, Parise, i Buttitta, Siciliano, Giovannino Russo, non romani che avevano scelto Roma – Montale senatore da otto anni. Ora Lagioia, che a Roma deve tutto, romano da vent’anni, dai suoi venticinque, la dice su “la Repubblica” la Mumbai dell’Occidente, e “una Mumbai con qualche complesso d’inferiorità rispetto all’originale”.   

Seattle – La città in full swing da qualche decennio (Starbucks, Microsoft, Hendrix, Kurt Cobain, Nirvana) deluse Hammett, che ci passò un periodo, mobilitato, nel 1943, e apprezzò molto invece la campagna dello stato di Washington : ”Le città del Nord-Ovest sono sinistre”, senza atmosfera, senza eleganza”, scrisse a Lillian Hellman  il 28 luglio 1943.

Selfie – Non è una novità. Forse nemmeno come effetto massa, il genere è sempre stato popolare. Da sant’Agostino a Rousseau. Ma già, si può dire, nel “De bello gallico”: Cesare anticipava quello che Croce definirà nel 1941 “un perfetto atto storico”, la memoria come azione. È il “narrar se stesso” di Manzoni. L’“esplorare il proprio petto” di Leopardi, che molto indugiò nell’operazione.
Molto selfie sono alcune narrazioni epocali: la “Ricerca” di Proust, l’“Ulisse” di Joyce, “L’uomo senza qualità” di Musil nel Novecento. Altre pietre miliari del genere in Cellini, Casanova, lo stesso Vico, Samuel Pepys, Alfieri, Chateaubriand, Darwin. Con molti religiosi, apologetici per lo più ma anche critici, santi (Teresa d’Avila) e non (il cardinale Newman). E con i tanti “diari intimi”, genere in voga nel secondo Ottocento, per esempio di Baudelaire, “Il mio cuore messo a nudo”, “Razzi”.

letterautore@antiit.eu

Proust è Leopardi

Una piccola enciclopedia, fino alla lettera “M”, per Montale. Per un dizionario di letteratura a dispense Fortini scrisse nei primi anni 1960 una trentina di voci, a rigaggio prefissato dai curatori. Ventitré le riprende qui, più una “Gerusalemme Liberata” per le scuole, e il “Montale” per un repertorio francese di persone illustri.
Roba commerciale, che Fortini però scrive con impegno. Ma come non gli piacerebbe: “Sono cresciuto in mezzo all’istituto ridicolo della recensione letteraria”, esordisce nella premessa, e poi ne ricalca i difetti, compresa la prolissità della stessa prefazione – la quale è “una opportuna premessa”: da distinguere da una inopportuna? Con Brecht e con Lenin naturalmente, come usava. E la diffidenza d’epoca per la managerialità – la competenza e la concisione – se non come strumento, chissà, diabolico.
Ma il riassunto della “Ricerca” è ottimo. Tutto Proust imbozzolando nella gabbia leopardiana del “Primo amore”: “In un perenne ragionar sepolto”. Ottima, perfino originale, la trattazione di “Antichi e moderrni”. Attualissima, e piena già di pieghe nascoste, quella del genere “autobiografia”, il selfie oggi dilagante. Raro – una chicca – il Baudelaire, e non per essere il soggetto svanito. O la “Gerusalemme liberata” letta come una partitura orchestrale, con le sezioni chiamate di volta in volta dal Maestro, i fiati, i bassi, i timpani. Esaustiva la scheda “Critica”, più nelle corde del Fortini polemista. Sorprendente la voce “demonico”, dall’olimpico Goethe fino a Musil, “L’uomo senza qualità”.
Franco Fortini, Ventiquattro voci per un dizionario di lettere, Saggiatore, remainders, pp. 234

€4,50



domenica 13 maggio 2018

Negoziato a mano armata

Minacciando una guerra impossibile, Trump potrebbe stabilizzare il rapporto con l’lran. Con un Iran democratico come lui vorrebbe o con questo degli ayatollah, ugualmente. È un interrogativo che è già una risposta nell’analisi del nostro ministero degli Esteri
Il presupposto è che il rapporto con l’Iran va stabilizzato: Teheran deve recedere dalle condotte aggressive, che sotto il manto della rispettabilità ha intensificato, in Siria, nello Yemen e contro Israele. Quasi che l’accordo con gli Usa per ridurre e eliminare le sanzioni ne avesse liberato i disegni di egemonia.
La mancata risposta di Teheran a Trump potrebbe già indicare che il colpo è andato a segno. Bruciate ritualmente le bandiere americane, gli ayatollah sembrano tornati prudenti come sogliono essere.
Ancora pochi giorni fa, nella parata militare del 18 aprile, ponevano al centro della sfilata un missile “Lanterna”, copia modificata del Kh.55 ucraino di progettazione russa, assicurandone una gittata di 3 mila km. e la capacità nucleare. Ancora alla vigilia del no di Trump avevano d’improvviso colpito Israele con una raffica di missili dalle loro postazioni in Siria. Dopo il no di Trump e la rappresaglia israeliana, invece, silenzio.

La letteratura come droga

Prolissa - per un volta, benché prosciugata dalla traduzione, di Chiara Sandrin e Ugo Ugazio - opera dello scrittore che debuttò adolescente all’insegna del “meglio delinquente che borghese”. Sulle droghe come fonte di ebbrezza, non come via a un’altra conoscenza – il filone A.Huxley. Anche se il suo “caso” più famoso è la sperimentazione dell’Lsd col chimico svizzero Hofmann, della casa farmaceutica Sandoz. Di suo Jünger è interessato a rivivere aneddoti personali, casi celebri e situazioni di altri letterati, Maupassant, Baudelaire, nel corso di viaggi, visite, letture, reminiscenze. In forma di appunti, 315 frammenti, più una decina di brevi appendici, “Parerga”. Al modo di Baudelaire, tra “I paradisi artificiali” e “Il mio cuore messo a nudo”.
Il procedimento è tipicamente questo, del frammento 297. Dove un viaggio si racconta in aereo da Francoforte a Salisburgo da Ribbentrop, “che pensava a una sorta di brain-trust e fece una panoramica sui temi di politica estera”, mentre lui “vede” la guerra prossima. Con la considerazione aggiuntiva: “Anche «Sulle scogliere di marmo» apparteneva meno al campo della letteratura che a quello delle visioni”. Con un coté  “maledetto”, sia pure del genere ragazzaccio: le sbornie al liceo e l’etere, la cocaina e l’oppio della (breve) fuga da Legionario, l’hashish dopo la sconfitta della Germania, l’ennesima.
La curiosità c’è sempre stata. In “Heliopolis”, il racconto della città del futuro (mezza Napoli e mezza Algeri) scritto nel 1949, il rilegatore Antonio Peri, la cui scomparsa fa dipanare il racconto, è un “uomo totalmente sedentario…che esplora gli arcipelaghi oltre gli oceani navigabili, servendosi delle droghe come veicolo”. Qui è una forma di ringiovanimento, al passo col tempo. La raccolta Jünger preparò nel 1978, quando aveva ottant’anni (morirà di 103). Ma è opera letteraria, non di agitazione, più su memorialistico che sull’eversione.
La trattazione più affascinante è della creazione letteraria legata alle droghe come “eccesso”. Anche “Lucy in the sky”, l’acido lisergico, l’Lsd, Jünger prova come scoperta, un ricostituente dell’immaginazione. Uno dei tanti atti preparatori alla scrittura, che è sempre una scoperta: all’individuazione di una verità e al modo di raccontarla. Entrambe, scrittura e droghe, legando a “excedo”, entrambe a rischio esclusione: “Excedo, esco, mi allontano, tanto dai miei propri confini quanto dal contesto sociale. Excessus  è sconfinamento. A cui si lega la minaccia, prima o poi, della exclusio, dell’esclusione”.
Anche il trip è un vero viaggio, “una dislocazione nello spazio e nel tempo”. A prima vista azzardato – poetico: la letteratura come droga? Non è conoscenza, ricerca, impegno, critica? Ma di certo è dipendenza.  
Ernst Jünger, Avvicinamenti: droghe ed ebbrezza, Guanda, pp. 412 € 24