Giuseppe Leuzzi
La cannabis
light, annuncia trionfale “la Repubblica”, cresce a multipli di due e tre
cifre. In pochi mesi di coltivazione libera fattura già 44 milioni,
un’industria media. Non è molto, ma il pensiero di un enorme spreco solleva:
migliaia di ore di volo, che si cumulano anche per la pensione come indennità
speciale, per avvistare orti di pochi mq. lungo i torrenti calabresi. E
centinaia di ragazzi in carcere, anche di adulti, coltivatori senza licenza.
Perché la loro cannabis non è certificata light.
La cannabis
light non fa male – ma Garattini e il Consiglio Superiore di Sanità ne
dubitano, e anzi la avversano -l’altra sì. Né si può distinguere la light a fini di ricerca e terapeutici
dal fumo. Ma non importa, importante è mettere le mani sul business, che non
sia mafioso - si chiama franchising.
Molti settentrionali dopo l’unità si
radicarono al Sud, dove avevano fatto fortuna in affari, con matrimoni,
figliolanze, notabilati. Molti liguri nella Sicilia occidentale, per esempio,
tra Palermo, Trapani e Agrigento. Gli amalfitani a Gioia Tauro, intermediari di
olio e vino, e poi commercianti al’in grosso e al minuto – ancora ne sono di
grossi, gli Annunziata.
Il viaggio in Sicilia si faceva nel 1967
tra rare trattorie, dove solo gli spaghetti al pomodoro erano serviti, o alla
bolognese, e bistecche ai ferri, con insalata verde, anche mista, e vino Chianti,
dal fiasco. Ora “la Repubblica” può celebrare un “Rinascimento siciliano”:
“Materie prime, pasticcerie e cantine d’eccellenza. Con un progetto molto
ambizioso: dare a tutto il Sud la terza stella Michelin”. Non ci vuole molto,
volendo.
De
Amicis in Sicilia
De Amicis fu tenente dell’esercito a
Girgenti durante il colera del 1867, scrive Sciascia in “Pirandello e la
Sicilia”, 68. Ricordando che il colera la gente imputava al governo, come la
fame. Che anzi “si riteneva ungesse di
colera, a risolvere il problema economico, i poveri paesi dell’ex regno
borbonico”.
Se non che non è vero, che De Amicis
fosse di stanza in Sicilia, non al tempo del colera. Scrisse del colera, in un
racconto, “L’esercito italiano durante il colera del 1867”, che aggiungerà in
un secondo momento alla raccolta di bozzetti militari pubblicata nel 1868, “La
vita militare”. Quando già aveva abbandonato la vita in caserma. Dopo un lungo
tirocinio, al Collegio Militare Candellero di Torino dall’età di sedici anni, e
poi all’Accademia di Modena: De Amicis si congedò dopo la sconfitta di Custoza,
nel 1866.
Era stato in Sicilia, ma a Messina, e nel
1865, alla sua prima assegnazione appena uscito dall’Accademia, col grado di
sottotenente. E il colera non sperimentò in nessun modo, non era già più militare.
Ne diede conto a titolo di reportage, per quello che era stato, un’epidemia
italiana, specie tra i contadini poveri, dalla Sicilia alla valle d’Aosta – che
proporzionalmente contò più morti dell’isola. Il Sud può essere vittima della
sua felicità inventiva, della sua voglia di narrare.
I deamicisiani ricordano un solo viaggio
di De Amicis in Sicilia, nel 1906, da celebrità, su invito del poeta catanese
Mario Rapisardi. Altra celebrità, seppure locale, ma in grado di oscurare Verga,
il catanese veramente illustre. Indignando Sciascia, questa volta a ragione.
L’altro
Sud
“Un altro Sud” censisce Raffaella Polato
su “L’Economia”, di imprese che si segnalano per resilienza e innovazione”. Appena
37 sulle prime 500 censite in Italia. Su “un’area che è grande quanto mezza
Penisola”.
Ma è vero che si possono fare affari al
Sud, malgrado la cattiva politica, la pessima amministrazione, e le mafie: “Nel
Mezzogiorno ci sono realtà che tra il 2010 e il 2016 hanno quintuplicato, sestuplicato, perfino
decuplicato il giro d’affari”.
Il (piccolo) boom del Sud è dovuto a Fca,
la Fiat-Chrysler. Con le Jeep di Melfi e le 500 di Pomigliano d’Arco. Ma è pure
vero che Fca lavora soprattutto con le fabbriche meridionali, dopo avere
smantellato mezzo Nord.
Tra le aziende eccellenti del Sud e in
forte crescita due sono nel vibonese, a ridosso di Sant’Onofrio, la campagna che
ha scandalizzato i media per l’assassinio del giovane immigrato. Sono la Caffo
di Limbadi (Amaro del Capo”), che è diventata una multinazionale dopo essersi
spostata dall’Etna nel vibonese. E la serie di piccole aziende del monte Poro,
non abbastanza grandi per le “eccellenze” ma tutte esportatrici, del pecorino,
il peperoncino, la ‘nduja, la cipolla dolce.
Meglio
non giocare che al Napoli
Nel romanzo filosofico di Binet, “La
settima funzione del linguaggio”, la rivoluzionaria napoletana Bianca spiega al
protagonista che il Napoli è tropo povero, non può rivaleggiare con i migliori,
nessun grande giocatore verrà mai a Napoli. Siamo nel 1980, Bianca non può
sapere di Maradona. E si fa il caso del rifiuto di Paolo Rossi, appena
squalificato per il “totonero”, le scommesse illegali. “Strano paese” commenta lui,
Simon, professore-detective a caccia di U. Eco – provvisoriamente a Napoli,
anche se forse non c’è mai stato, neanche come turista.
Ma Pippo Inzaghi farà peggio:
preferirà non giocare un anno, piuttosto che passare dal Parma, allora neofita
in serie A, al Napoli. Adesso, essendo il Napoli obiettivo di più di un
allenatore, dà, non richiesto, un’altra versione: “Quando ero
calciatore fui vicinissimo al Napoli.
Avevo già firmato per passare in azzurro, poi segnai un gol importante in Coppa delle Coppe e non mi lasciarono più
partire”. Il procuratore aveva firmato per lui ma lui si rifiutò. Non giocò nel
Parma per un anno, tanto era indispensabile. La stagione successiva fu ceduto
all’Atalanta.
Sudismi\sadismi
Briatore, grillino entusiasta, non lo è
di Roma, benché amministrata, si fa per dire, dai grillini. Alla “Zanzara” di
Radio 24 dice breve: “Arrivare a Roma è più
o meno come arrivare a Nairobi. Forse Nairobi è meglio di Roma”. Ma è un
circolo vizioso, intende. Infatti prosegue: “Investire al Sud? Non ci sono le
condizioni, non ci sono le infrastrutture. La gente non ha voglia, e chi ce
l’aveva è andato via. Se adesso danno pure un reddito di cittadinanza questo mi
sembra follia vera perché paghi la gente che sta sul divano. Sul divano ci sono
già gratis, poi addirittura li paghi. Prenderanno il divano a due piazze”. Roma sarà anch’essa
al Sud. Certo, il Kenya è talmente bene amministrato che si guadagna di più,
molto, a fare l’albergatore. .
Galli della Loggia sul “Corriere della sera” chiede uno spazio domenica
fra i commenti per tuonare “contro la vergogna dei nuovi schiavi del
Mezzogiorno”. Ai nuovi ministri chiede di “impegnarsi a cambiare subito…. L’esistenza
fatta di sfruttamento schiavistico e di abbrutimento umano in cui in vari
luoghi del Mezzogiorno vivono migliaia di immigrati perlopiù africani”. Di
quelli nei centri del Nord i nuovi ministri, si inferisce, non se ne devono
occupare.
Galli del Loggia è uno storico, ma il Sud non gli va giù. In un
decalogo contro la mafia che nel 1992 pubblicò su “La Stampa”, statuì da ultimo
che “lo Stato deve rendere la vita impossibile come e più della mafia”. Tagliando
l’acqua, l’elettricità, il telefono, e togliendo la patente.
Siculosciasciana
La Sicilia Sciascia ai suoi inizi voleva
spagnola. Per motivi anche bizzarri: Pirandello è Garcia Lorca, o Machado. E
perché, “se la Spagna è, come qualcuno ha detto, più che una nazione, un modo
di essere, è un modo di essere anche la Sicilia, e il più vicino che si possa
immaginare al modo di essere spagnolo”. Ma la Spagna non sa nulla, o quasi, di questi modi di essere o
genealogie.
Un francese trova molto di sé in Sicilia. Gli inglesi pure, come è
noto, tra armatori, vinai e lord. Anche il tedesco, perfino nella forma
milanese. Ma uno spagnolo? Non c’è molta Sicilia in Spagna. Neanche poca.
Più tardi, 1988,
tornando sulla Spagna con le foto di Scianna, Sciascia lo scopre: “Secoli di
dominazione, in Sicilia, ma di libri spagnoli, nelle grandi biblioteche
pubbliche e private dell’isola, pochissimi se ne trovano…. E tanta estraneità
trova rispondenza in Spagna: non un solo spagnolo che, nei secoli in cui la
Spagna ne fu padrona, abbia scritto un libro sulla Sicilia”.
Né su Napoli, né
su Milano, si può aggiungere, non c’è in Spagna l’analogo di Chabod.
Sulla Spagna
insomma Sciascia si pente, ma poi insiste. Dichiarando di avere “imparato
tutto” nel 1938, o 1939, “la guerra di Spagna era da qualche mese finita”,
sulle “Obras” di Ortega y Gasset, un volumone trovato su una bancarella,
probabile preda di guerra di qualche “volontario” mussoliniano, col timbro di
un circolo socialista di Saragozza. Ma lui stesso poi non vi si è in alcun modo
applicato.
Nel problematico saggio sul “burgisi”
(“Il «borghese» e il borghese”, ora in “Pirandello e la Sicilia”), il contadino
mezzo ricco e mezzo povero che dice l’esercito
di riserva della mafia, Sciascia vuole – voleva negli anni1950 - i mafiosi in
Sicilia “tutti cornuti” nel sentito popolare. In senso proprio, di accettazione
del “vassallaggio sessuale delle popolazioni rurali nei riguardi del
feudatario, del gabelloto, del soprastante (e anche dello sbirro e dell’usuraio),
cui è da aggiungere l’aleatorio esercizio della patria potestà per le frequenti
e lunghe assenze a causa del carcere e delle latitanze”. Quante corna, di
feudatario, gabelloto, soprastante, sbirro, usuraio, con paternità comunque
incerte, nemmeno il cervo le reggerebbe. La mafia è sempre stata una narrazione
fertile, nel dopoguerra. Non c’è altro?
Ma, poi, in Sicilia non si scopava col
pensiero, come voleva Brancati, e anche Sciascia?
In “Tramonto della cultura siciliana”, il
saggio del 1915, Gentile è riduttivo: “Non è più distinguibile una cultura siciliana
regionale (salvo che negli strati infimi che non hanno grande rilevanza storica)”.
Per un motivo italianista: “Non c’è più, isolata e contrapposto al generale
spirito italiano, un’anima siciliana”. Sciascia, che poi avrebbe cambiato
parere, e anzi fatto dell’anima italiana un’anima siciliana (la “linea della palma”
che sale invasiva), in una generale pessimistica disruptio dell’Italia tutta, lo contesta in “Pirandello e la Sicilia”.
Ma per il fastidio che gli danno gli “strati infimi che non hanno grande
rilevanza storica”.
Capuana invece queste stessi strati
infimi nel 1892 aveva profetizzato grande marea –si legge in Sciascia, nella
raccolta dii cose siciliane sotto il titolo “Pirandello e la Sicilia”. “Grande
miniera” per lo scrittore: “il basso popolo delle cittaduzze, dei paesotti, dei
villaggi”. Così è, è stato a partire dagli anni 1950: marea incontenibile, da Montelepre
a Corleone, Alcamo, Castelvetrano. E più questo “cittaduzze” si modernizzano e
si arricchiscono, più la marea sembra dilatarsi, e più aggressiva e ostile,
invece che soddisfatta o contenta.
Scrivendo di Verga, del “Mastro don
Gesualdo”, a un certo punto D.H.Lawrence fa una digressione sugli uomini
siciliani: “Presi uno per uno, gli uomini hanno qualcosa della noncuranza
ardita dei greci. È quando sono insieme come cittadini che diventano gretti”.
Un rebus? Nemmeno Sciascia ne viene a
capo.
“Girgenti è una Spoon River italiana”,
decreta Sciascia all’improvviso, analizzando la città di Pirandello, alla quale
trova sempre mille difetti, e su questa stessa mancanza di compassione leggendo
il poema americano (“Pirandello e la Sicilia”, 42). “La somiglianza tra Girgenti
e Spoon River” vuole per questo: “Luoghi di «diuturno servaggio in un mondo
senza musica», di «piccoli poveri uomini feroci»,di conflitti tra vita e forma,
tra personaggi e creature”. Diversi solo perché “c’è la Bibbia dietro Lee
Masters e Gorgia dietro Pirandello”.
A Catania si scrivono romanzi, a Palermo
no. È vero, lo nota Sciascia palando del poeta scurrile catanese Domenico
Tempio (“Pirandello e la Sicilia”). Anche ad Agrigento, però: tra Pirandello, lo
stesso Sciascia (della provincia di Caltanissetta ma proiettato su Agrigento) e
Camilleri.
A Palermo Sciascia non censiva Tomasi di
Lampedusa, “Il Gattopardo” gli era antipatico. Per motivi politici, di classe.
Il comico e il tragico Sciascia (sempre
in “Pirandelo e la Sicilia) vuole distinti a Catania, Val Demone, “dove gli arabi
non riuscirono a penetrare con sicurezza”, e indistinti invece ad Agrigento,
“Val di Mazara, dove furono sicuri nei secoli della loro dominazione”. Ad Agrigento
comico e tragico giocano “costantemente quel dialettico e indissolubile contrasto
da cui si genera il moderno
sentimento che denominiamo umorismo”.
Agrigento, cioè Pirandello, Camilleri.
Un “umorismo” che non sa non essere dialettale.
La mafia, di cui molto ha scritto, nel
1957 Sciascia antropologizza nell’emigrazione, recensendo “La mafia” del
giornalista americano Ed Reid, e “Questa mafia” del maggiore Renato Candida.
Come un dato ineluttabile, frutto di lingua, mentalità, storia, fame arretrata,
subordinazione, sfruttamento, una Sicilia americanizzata intramontabile. Se non
che dopo nemmeno dieci anni, dopo il deciso intervento di Bob Kennedy, quella mafia
era debellata. La trilogia di Coppola negli anni 1970, “Il Padrino”, è un fogliettone
storico.
“Renato
Candida è stato un generale italiano”, recita recisa wikipedia: “A lui si è
ispirato Leonardo Sciascia nel descrivere la figura del Capitano Bellodi, il
protagonista de «Il giorno della civetta»”. Sciascia scrive a lungo di Candida
e del suo libro senza mai dire che è un ufficiale dei Carabinieri in servizio
effettivo. Però non
ne avallò mai l’identificazione col suo
capitano Bellodi, anzi piuttosto la negava.
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