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sabato 16 giugno 2018

Ombre - 420

Don Mazzi scrive a Corona, mezza pagina sul “Corriere della sera”, foto, titoloni: il fotografo, o quello che è, voleva entrare in una discoteca dove non era gradito, ubriaco o fumato. I giornali non hanno altro da dire. Ma questi preti? Quelli, poi, che lavorano con i soldi dello Stato?

L’Arabia Saudita ne becca cinque da una modesta  Russia sotto gli occhi di tutti, per l’apertura del Mondiale a Mosca. “Una gara di livello infimo” annunciava “la Repubblica”. Si capisce, l’Arabia Saudita è 67ma nel ranking Fifa. Ma non era di “livello infimo” nell’amichevole contro l’Italia - che rischiò pure di vincere: serviva a miracolare la nazionale di Mancini, che finalmente faceva a meno degli juventini.

Il giorno degli arresti per lo stadio dell’As Roma, la sindaca Raggi non va a spiegarsi in consiglio comunale, già convocato. Va da Vespa. Bisognerà costituzionalizzare la tv, il tribunale dee cause perse. Ma senza contraddittorio?

“Diversi da chi?” si chiedono sul “Fatto e “Il Tempo” Travaglio e Franco Bechis dei grillini. Perché dovrebbero esserlo, non sono attorno a noi? Tutti noi in Sicilia, in Puglia e a Napoli.

“Stadio della Roma, 9 arresti per corruzione. L’inchiesta tocca anche i 5 Stelle” – “Corriere della sera”. Di striscio? Controvoglia?

“Non l’ho scelto io. Neanche sapevo chi fosse. Casca dalle nuvole la sindaca di Roma Raggi a proposito dell’avvocato affarista che lei ha nominato a capo dell’Acea, la più grande azienda del Comune di Roma, terza o quarta utility energetica d’Italia. E magari è vero, non sa chi è Lanzalone.

Lanzalone non è uno qualunque. Ha lavorato per Grillo, è uomo di Casaleggio, ha incarichi professionali, manifesti e non, innumerevoli.

Kim e Trump, uno rosso e uno scuro, teste inverosimili, linguaggi incomprensibili, in un luogo remoto, sembrano usciti dal museo delle Cere – o modellati per entrarvi. Con lo stesso distacco che a museo, vengono guardati da lontano: curiosità. Non sono reali perché non sono sui social – ci sono poco.

Kim il comunista, Trump il capitalista, il Dittatore da tre generazioni e l’America First, sono anche i padroni di missili intercontinentali a testata nucleare. Ma sono sui social? No, poco. Se anche sparassero i loro missili gliene fregherebbe nulla a nessuno. La mutazione climatica è su facebook e dunque esiste, i missili no.

Luca Bergamo, pilastro dell’establishment democrat a Roma, ha coronato il so sogno con la sindaca grillina Raggi, facendosi nominare subito assessore e poi anche vicesindaco. Ma già martedì 12, non nascondendosi l’ennesimo flop elettorale, si è smarcato. E non erano arrivati gli arresti. Ma non si dimette. Fa la predica ai 5 Stelle contro Salvini. Nuova politica, vecchia?

L’ennesimo drammatico dibattito su “Acquarius” alla Rai, a “Cartabianca” su Rai 3, tra accuse all’Italia di cinismo, irresponsabilità e vomito, si svolge curiosamente, dovendo per qualche tempo togliere l’audio, fra le risate di Bianca Berlinguer, Mauro Corona e Marco Minniti. Sarà come dice lo scrittore dopo, a audio aperto, che in Italia siamo confusi, e si ride per le cose serie, si piange per le ridicole?
Ma è l’Italia confusa o il Raiume, l’idiozia della saccenteria?
Magari “Cartabianca” è una trasmissione comica.

Vince le amministrative il centro-destra, perde il Pd, a Terni, Siena, Pisa, Massa, Catania. L’esito è netto la notte stessa di domenica, il giorno del voto – oltre al previsto calo dei 5 Stelle ovunque nelle amministrative. Ma chi legge “la Repubblica” e “Corriere della sera” lunedì ha l’impressione che il Pd tenga, non ha vinto a Brescia, Trapani, e Ancona? Mentre per il centrodestra ha vinto Salvini, il volto brutto. Sarà per questo che il Pd dimagrisce, mangia bugie.

“Le cinque big tech company (americane) valgono in Borsa poco meno del pil del Germania”, calcola Maria Teresa Cometto su “L’Economia”. Che supereranno presto, avviandosi a un valore di Borsa  di un trilione - mille miliardi – di dollari. Apple l’ha superato, Amazon, Alphabet (Google) e Microsoft sono a 800 miliardi, Facebook a 550.

Polemizzano Annunziata e Fubini per la pubblicazione su “Huffington Post”, la testata online del gruppo De Benedetti che Annunziata dirige, del “piano B” del costituendo governo 5 Stelle-Lega, quello dell’uscita dall’euro, che scatenò una mini tempesta sui Bot e consentì a uno speculatore inglese, Alan Howard, giganteschi guadagni. Niente complotto, assicura Annunziata: il “piano B” è “arrivato effettivamente in busta chiusa e anonima, come è logico che sia trattandosi di documenti riservati, ma la fonte era conosciuta da me, di grande reputazione”. Nel mercato della speculazione?
Si pensa di no, ma i giornalisti a volte sono ingenui.

“Quando Trump dice che vuole vedere meno auto tedesche non sta parlando della prepotenza della Germania, ma anche della nostra industria, perché nelle auto tedesche l’80 dei componenti è italiano”, Boccia, presidente di Confindustria. Ogni tanto le cose si dicono.

Il presidente Conte pentastellato – o è leghista? – arriva in Canada con l’aereo di Stato. Polemiche: non erano i grillini contro gli aerei di Stato (anidride carbonica, eccetera)? Poteva arrivare in aereo di linea, scortato dai caccia di Stato – come quando arrivò al Quirinale in taxi, circondato dalle auto di scorta. Gli italiani hanno perduto anche il senso del ridicolo – il senso comune è il grillismo.

La superstizione unisce l’Europa

Una storia e uno specchio di tutte le superstizioni, probabilmente di tutte, insomma di alcune centinaia, per una cinquantina di tipologie diverse: fascino, con malocchio e jettatura, amuleti, astri, erbe magiche, etc.. Compresi i santi e l’arcobaleno – il divieto è tassativo di guardare l’arcobaleno, da Esiodo all’ebraismo del Medioevo.
Si fa presto a dire superstizione, basta un minimo di attenzione. In questa che è una delle sue ultime ricerche, venticinque anni fa, l’antropologo napoletano si diverte fin dall’introduzione a farla girare come una trottola, difesa e arma: del cristianesimo contro I pagani, poi contro i barbari, poi contro i “primitivi”; di Lutero e Calvino contro i cattolici; della chiesa contro le credenze popolari; dell’illuminismo contro la chiesa, e contro fantasia e immaginazione.
Un fenomeno senza patria: “Le superstizioni degli italiani” è il sottotitolo, ma la ricerca Di Nola non limita all’Italia. I dati trova “immersi in una circolarità che attraversa tutti i paesi del continente… Dietro queste credenze è sottesa certamente una koiné” non localistica, “che, già presente, almeno in parte, nel mondo tardoantico, si è venuta consolidando attraverso gli scambi e le migrazioni di simboli tipici del Medioevo”. La sinistra è cattiva e la destra buona a Napoli e Milano “così come su un territorio culturale molto esteso in tutte le culture indogermaniche”. O “i rischi” del gatto, “un superstizione presente dalla Finlandia alla Sicilia”. Con una serie di ipotesi esplicative, su questa come su alter credenze, che fanno il bello del libro. E naturalmente tante curiosità. San Martino protettore dei cornuti, o san Silvestro. L’ombrello aperto in casa. Il carro funebre vuoto…
“La fede nella jettatura rende jettati”: l’antropologo è contro per una ragione semplice. Le suggestioni non sono innocue, potendo “ingenerare, in chi vi crede, quasi una predisposizione a cercare occasioni negative e a farsi vittima di disgrazie, secondo le linee di tendenza inconsce autolesionistiche ben chiarite da Freud”.
L’esito è inquietante. Ma solo per chi ha concezione ferrea – ristretta – della ragione: tutto è possibile. L’apotropaismo è la prima difesa, la difesa contro i cattivi spiriti. Della superstizione non si può dire che sia una difesa, ha anche colpe, anche terribili, ma non senza ragione. Di Nola prova a trovarla? Di Nola è contro, ma non lo fa pesare.
Alfonso M. Di Nola, Lo specchio e l’olio, Laterza, remainders, pp. 147 € 4,25

venerdì 15 giugno 2018

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (366)

Giuseppe Leuzzi


La cannabis light, annuncia trionfale “la Repubblica”, cresce a multipli di due e tre cifre. In pochi mesi di coltivazione libera fattura già 44 milioni, un’industria media. Non è molto, ma il pensiero di un enorme spreco solleva: migliaia di ore di volo, che si cumulano anche per la pensione come indennità speciale, per avvistare orti di pochi mq. lungo i torrenti calabresi. E centinaia di ragazzi in carcere, anche di adulti, coltivatori senza licenza. Perché la loro cannabis non è certificata light.


La cannabis light non fa male – ma Garattini e il Consiglio Superiore di Sanità ne dubitano, e anzi la avversano -l’altra sì. Né si può distinguere la light a fini di ricerca e terapeutici dal fumo. Ma non importa, importante è mettere le mani sul business, che non sia mafioso - si chiama franchising.

Molti settentrionali dopo l’unità si radicarono al Sud, dove avevano fatto fortuna in affari, con matrimoni, figliolanze, notabilati. Molti liguri nella Sicilia occidentale, per esempio, tra Palermo, Trapani e Agrigento. Gli amalfitani a Gioia Tauro, intermediari di olio e vino, e poi commercianti al’in grosso e al minuto – ancora ne sono di grossi, gli Annunziata.

Il viaggio in Sicilia si faceva nel 1967 tra rare trattorie, dove solo gli spaghetti al pomodoro erano serviti, o alla bolognese, e bistecche ai ferri, con insalata verde, anche mista, e vino Chianti, dal fiasco. Ora “la Repubblica” può celebrare un “Rinascimento siciliano”: “Materie prime, pasticcerie e cantine d’eccellenza. Con un progetto molto ambizioso: dare a tutto il Sud la terza stella Michelin”. Non ci vuole molto, volendo.

De Amicis in Sicilia
De Amicis fu tenente dell’esercito a Girgenti durante il colera del 1867, scrive Sciascia in “Pirandello e la Sicilia”, 68. Ricordando che il colera la gente imputava al governo, come la fame. Che anzi “si riteneva ungesse di colera, a risolvere il problema economico, i poveri paesi dell’ex regno borbonico”.
Se non che non è vero, che De Amicis fosse di stanza in Sicilia, non al tempo del colera. Scrisse del colera, in un racconto, “L’esercito italiano durante il colera del 1867”, che aggiungerà in un secondo momento alla raccolta di bozzetti militari pubblicata nel 1868, “La vita militare”. Quando già aveva abbandonato la vita in caserma. Dopo un lungo tirocinio, al Collegio Militare Candellero di Torino dall’età di sedici anni, e poi all’Accademia di Modena: De Amicis si congedò dopo la sconfitta di Custoza, nel 1866.
Era stato in Sicilia, ma a Messina, e nel 1865, alla sua prima assegnazione appena uscito dall’Accademia, col grado di sottotenente. E il colera non sperimentò in nessun modo, non era già più militare. Ne diede conto a titolo di reportage, per quello che era stato, un’epidemia italiana, specie tra i contadini poveri, dalla Sicilia alla valle d’Aosta – che proporzionalmente contò più morti dell’isola. Il Sud può essere vittima della sua felicità inventiva, della sua voglia di narrare.
I deamicisiani ricordano un solo viaggio di De Amicis in Sicilia, nel 1906, da celebrità, su invito del poeta catanese Mario Rapisardi. Altra celebrità, seppure locale, ma in grado di oscurare Verga, il catanese veramente illustre. Indignando Sciascia, questa volta a ragione.

L’altro Sud
“Un altro Sud” censisce Raffaella Polato su “L’Economia”, di imprese che si segnalano per resilienza e innovazione”. Appena 37 sulle prime 500 censite in Italia. Su “un’area che è grande quanto mezza Penisola”.
Ma è vero che si possono fare affari al Sud, malgrado la cattiva politica, la pessima amministrazione, e le mafie: “Nel Mezzogiorno ci sono realtà che tra il 2010 e il 2016  hanno quintuplicato, sestuplicato, perfino decuplicato il giro d’affari”.
Il (piccolo) boom del Sud è dovuto a Fca, la Fiat-Chrysler. Con le Jeep di Melfi e le 500 di Pomigliano d’Arco. Ma è pure vero che Fca lavora soprattutto con le fabbriche meridionali, dopo avere smantellato mezzo Nord.
Tra le aziende eccellenti del Sud e in forte crescita due sono nel vibonese, a ridosso di Sant’Onofrio, la campagna che ha scandalizzato i media per l’assassinio del giovane immigrato. Sono la Caffo di Limbadi (Amaro del Capo”), che è diventata una multinazionale dopo essersi spostata dall’Etna nel vibonese. E la serie di piccole aziende del monte Poro, non abbastanza grandi per le “eccellenze” ma tutte esportatrici, del pecorino, il peperoncino, la ‘nduja, la cipolla dolce.

Meglio non giocare che al Napoli
Nel romanzo filosofico di Binet, “La settima funzione del linguaggio”, la rivoluzionaria napoletana Bianca spiega al protagonista che il Napoli è tropo povero, non può rivaleggiare con i migliori, nessun grande giocatore verrà mai a Napoli. Siamo nel 1980, Bianca non può sapere di Maradona. E si fa il caso del rifiuto di Paolo Rossi, appena squalificato per il “totonero”, le scommesse illegali. “Strano paese” commenta lui, Simon, professore-detective a caccia di U. Eco – provvisoriamente a Napoli, anche se forse non c’è mai stato, neanche come turista.
Ma Pippo Inzaghi farà peggio: preferirà non giocare un anno, piuttosto che passare dal Parma, allora neofita in serie A, al Napoli. Adesso, essendo il Napoli obiettivo di più di un allenatore, dà, non richiesto, un’altra versione: Quando ero calciatore fui vicinissimo al Napoli. Avevo già firmato per passare in azzurro, poi segnai un gol importante in Coppa delle Coppe e non mi lasciarono più partire”. Il procuratore aveva firmato per lui ma lui si rifiutò. Non giocò nel Parma per un anno, tanto era indispensabile. La stagione successiva fu ceduto all’Atalanta.

Sudismi\sadismi
Briatore, grillino entusiasta, non lo è di Roma, benché amministrata, si fa per dire, dai grillini. Alla “Zanzara” di Radio 24 dice breve: “Arrivare a Roma è più o meno come arrivare a Nairobi. Forse Nairobi è meglio di Roma”. Ma è un circolo vizioso, intende. Infatti prosegue: “Investire al Sud? Non ci sono le condizioni, non ci sono le infrastrutture. La gente non ha voglia, e chi ce l’aveva è andato via. Se adesso danno pure un reddito di cittadinanza questo mi sembra follia vera perché paghi la gente che sta sul divano. Sul divano ci sono già gratis, poi addirittura li paghi. Prenderanno il divano a due piazze”. Roma sarà anch’essa al Sud. Certo, il Kenya è talmente bene amministrato che si guadagna di più, molto, a fare l’albergatore. .

Galli della Loggia sul “Corriere della sera” chiede uno spazio domenica fra i commenti per tuonare “contro la vergogna dei nuovi schiavi del Mezzogiorno”. Ai nuovi ministri chiede di “impegnarsi a cambiare subito…. L’esistenza fatta di sfruttamento schiavistico e di abbrutimento umano in cui in vari luoghi del Mezzogiorno vivono migliaia di immigrati perlopiù africani”. Di quelli nei centri del Nord i nuovi ministri, si inferisce, non se ne devono occupare.
Galli del Loggia è uno storico, ma il Sud non gli va giù. In un decalogo contro la mafia che nel 1992 pubblicò su “La Stampa”, statuì da ultimo che “lo Stato deve rendere la vita impossibile come e più della mafia”. Tagliando l’acqua, l’elettricità, il telefono, e togliendo la patente.

Siculosciasciana
La Sicilia Sciascia ai suoi inizi voleva spagnola. Per motivi anche bizzarri: Pirandello è Garcia Lorca, o Machado. E perché, “se la Spagna è, come qualcuno ha detto, più che una nazione, un modo di essere, è un modo di essere anche la Sicilia, e il più vicino che si possa immaginare al modo di essere spagnolo”. Ma la Spagna non  sa nulla, o quasi, di questi modi di essere o genealogie. 

Un francese trova molto di sé in Sicilia. Gli inglesi pure, come è noto, tra armatori, vinai e lord. Anche il tedesco, perfino nella forma milanese. Ma uno spagnolo? Non c’è molta Sicilia in Spagna. Neanche poca.

Più tardi, 1988, tornando sulla Spagna con le foto di Scianna, Sciascia lo scopre: “Secoli di dominazione, in Sicilia, ma di libri spagnoli, nelle grandi biblioteche pubbliche e private dell’isola, pochissimi se ne trovano…. E tanta estraneità trova rispondenza in Spagna: non un solo spagnolo che, nei secoli in cui la Spagna ne fu padrona, abbia scritto un libro sulla Sicilia”.
Né su Napoli, né su Milano, si può aggiungere, non c’è in Spagna l’analogo di Chabod.

Sulla Spagna insomma Sciascia si pente, ma poi insiste. Dichiarando di avere “imparato tutto” nel 1938, o 1939, “la guerra di Spagna era da qualche mese finita”, sulle “Obras” di Ortega y Gasset, un volumone trovato su una bancarella, probabile preda di guerra di qualche “volontario” mussoliniano, col timbro di un circolo socialista di Saragozza. Ma lui stesso poi non vi si è in alcun modo applicato.

Nel problematico saggio sul “burgisi” (“Il «borghese» e il borghese”, ora in “Pirandello e la Sicilia”), il contadino mezzo ricco e  mezzo povero che dice l’esercito di riserva della mafia, Sciascia vuole – voleva negli anni1950 - i mafiosi in Sicilia “tutti cornuti” nel sentito popolare. In senso proprio, di accettazione del “vassallaggio sessuale delle popolazioni rurali nei riguardi del feudatario, del gabelloto, del soprastante (e anche dello sbirro e dell’usuraio), cui è da aggiungere l’aleatorio esercizio della patria potestà per le frequenti e lunghe assenze a causa del carcere e delle latitanze”. Quante corna, di feudatario, gabelloto, soprastante, sbirro, usuraio, con paternità comunque incerte, nemmeno il cervo le reggerebbe. La mafia è sempre stata una narrazione fertile, nel dopoguerra. Non c’è altro?
Ma, poi, in Sicilia non si scopava col pensiero, come voleva Brancati, e anche Sciascia?

In “Tramonto della cultura siciliana”, il saggio del 1915, Gentile è riduttivo: “Non è più distinguibile una cultura siciliana regionale (salvo che negli strati infimi che non hanno grande rilevanza storica)”. Per un motivo italianista: “Non c’è più, isolata e contrapposto al generale spirito italiano, un’anima siciliana”. Sciascia, che poi avrebbe cambiato parere, e anzi fatto dell’anima italiana un’anima siciliana (la “linea della palma” che sale invasiva), in una generale pessimistica disruptio dell’Italia tutta, lo contesta in “Pirandello e la Sicilia”. Ma per il fastidio che gli danno gli “strati infimi che non hanno grande rilevanza storica”.

Capuana invece queste stessi strati infimi nel 1892 aveva profetizzato grande marea –si legge in Sciascia, nella raccolta dii cose siciliane sotto il titolo “Pirandello e la Sicilia”. “Grande miniera” per lo scrittore: “il basso popolo delle cittaduzze, dei paesotti, dei villaggi”. Così è, è stato a partire dagli anni 1950: marea incontenibile, da Montelepre a Corleone, Alcamo, Castelvetrano. E più questo “cittaduzze” si modernizzano e si arricchiscono, più la marea sembra dilatarsi, e più aggressiva e ostile, invece che soddisfatta o contenta.

Scrivendo di Verga, del “Mastro don Gesualdo”, a un certo punto D.H.Lawrence fa una digressione sugli uomini siciliani: “Presi uno per uno, gli uomini hanno qualcosa della noncuranza ardita dei greci. È quando sono insieme come cittadini che diventano gretti”.
Un rebus? Nemmeno Sciascia ne viene a capo.

“Girgenti è una Spoon River italiana”, decreta Sciascia all’improvviso, analizzando la città di Pirandello, alla quale trova sempre mille difetti, e su questa stessa mancanza di compassione leggendo il poema americano (“Pirandello e la Sicilia”, 42). “La somiglianza tra Girgenti e Spoon River” vuole per questo: “Luoghi di «diuturno servaggio in un mondo senza musica», di «piccoli poveri uomini feroci»,di conflitti tra vita e forma, tra personaggi e creature”. Diversi solo perché “c’è la Bibbia dietro Lee Masters e Gorgia dietro Pirandello”.

A Catania si scrivono romanzi, a Palermo no. È vero, lo nota Sciascia palando del poeta scurrile catanese Domenico Tempio (“Pirandello e la Sicilia”). Anche ad Agrigento, però: tra Pirandello, lo stesso Sciascia (della provincia di Caltanissetta ma proiettato su Agrigento) e Camilleri.
A Palermo Sciascia non censiva Tomasi di Lampedusa, “Il Gattopardo” gli era antipatico. Per motivi politici, di classe.

Il comico e il tragico Sciascia (sempre in “Pirandelo e la Sicilia) vuole distinti a Catania, Val Demone, “dove gli arabi non riuscirono a penetrare con sicurezza”, e indistinti invece ad Agrigento, “Val di Mazara, dove furono sicuri nei secoli della loro dominazione”. Ad Agrigento comico e tragico giocano “costantemente quel dialettico e indissolubile contrasto da cui si genera il moderno sentimento che denominiamo umorismo”. 
Agrigento, cioè Pirandello, Camilleri. Un “umorismo” che non sa non essere dialettale.

La mafia, di cui molto ha scritto, nel 1957 Sciascia antropologizza nell’emigrazione, recensendo “La mafia” del giornalista americano Ed Reid, e “Questa mafia” del maggiore Renato Candida. Come un dato ineluttabile, frutto di lingua, mentalità, storia, fame arretrata, subordinazione, sfruttamento, una Sicilia americanizzata intramontabile. Se non che dopo nemmeno dieci anni, dopo il deciso intervento di Bob Kennedy, quella mafia era debellata. La trilogia di Coppola negli anni 1970, “Il Padrino”, è un fogliettone storico.

“Renato Candida è stato un generale italiano”, recita recisa wikipedia: “A lui si è ispirato Leonardo Sciascia nel descrivere la figura del Capitano Bellodi, il protagonista de «Il giorno della civetta»”. Sciascia scrive a lungo di Candida e del suo libro senza mai dire che è un ufficiale dei Carabinieri in servizio effettivo. Però non ne avallò mai l’identificazione col suo capitano Bellodi, anzi piuttosto la negava.

leuzzi@antiit.eu

Il gran reporter Gozzano


“I signori dell’India non sono gli Indiani. E non sono nemmeno gli Inglesi. I signori dell’India sono gli animali”. Alla fine, la rivolta indiana del 1857 – in una con la “rivoluzione italiana”, questo si dimentica – è un racconto di forte suspense . Sotto il dato centrale dell’inimicizia anglo-russa. Della Russia, “ferita dalla campagna di Crimea”, che sempre si confronta all’Inghilterra sul suo fianco Sud, ultimamente dall’Afghanistan all’Iran e alla Siria: “La Russia in vedetta all’Himalaya” – anche se il ruolo dell’Inghilterra è passato agli Usa. C’è molto, c’è di tutto in questa India di Gozzano: la Bollywood colorata e cantante, E.M.Forster, l’estrema varietà nell’unità, il garbo, la violenza surrettizia, l’anglomania, l’elefante, l’idolatria (anche tra i cristiani: “Gesù è uno di loro, un avatar,una incarnazione di più”).
Una leteratura di viaggio, densa e vera, a cui non siamo abituati. Se non ultimamente con Robert Byron, Chatwin, Theroux, Annemarie Schwarzenbach, Maillart, Peter Levi – che curiosamente ha più di un episodio, in Afghanista, che sembra un calco di questo Gozzano. Con immagini che si stagliano ancora vive, di personaggi, modi, eventi. Il duello fra il cobra e la mangusta. Le indiane rajput. La tessitura del tappeto – opera di colori e suoni insieme. Le torri del silenzio. Da entomologo curioso, e anche botanico.
Molti i racconti. Il Natale a Ceylon, al suono remoto delle campane. Il sognatore che naviga verso la Goa leggendaria, per “la malinconia delle città morte” – “Goa la Dourada” è solo un sonetto di Heredia, che insegue Gozzano da ragazzo. Il viaggio in treno, con “due passere sbandate” francesi. I cipressi “giganti calamitosi” dell’islam, in una con gli agrumi festivi, e con l’acqua. La visita a Golconda, vera o inventata, diventa un racconto d’avventura, di quando, “a metà Settecento, era ancora di moda il racconto d’avventure, le roman merveilleux, vi giunse profuga Madama Angot per tentare con la sua bellezza occidentale le stanche voglie dei sultani decrepiti” – una madama che non è mai esistita, è un tipo teatrale, della “pescivendola” assurta a corte, che solleva dalla”troppo leopardiana tristezza” (“la grazia tracotante della pescivendola parigina mi perseguita”): Gozzano si diverte, giocando al “melodrama giocoso”, e diverte, il colto e l’incolto.  
Molte anche le verità dimenticate, o ignorate nella sopravvenuta ignoranza. “I Maomettani dell’India ignorano la Turchia;… la loro patria lontana è l’Inghilterra: Londra – e non Costantinopoli – è la capitale dei loro sogni”. L’imperialismo, deprecabile, che tiene in pace i popoli tumultuosi, protegge i diritti, insomma, ne protegge di più, insegna e obbliga alla legalità, apre strade e moltiplica le ferrovie. E perfino un primo accenno di post-umanismo, nella sorprendente animalità che unifica.
Un curioso revival. Perché questo Gozzano fa discutere – nel presupposto che sia per “gozzaniani”? Bompiani lo dice “un itinerario modesto”, ma non sembra. Gozzano fa vedere molto. Troppo, molto di più di quanto ha visto, di persona, negli spostamenti? Che vuole dire? È un racconto di viaggio, superbo. E anche veritero: nessuno che si accosti all’India oggi, o che ne rilegga la storia recente, lo  troverebbe falso.
Roberto Carnero, che ha curato l’edizione Bompiani, sostiene di voler andare oltre “la polemica tra gli studiosi su questo libro”, nel quadro della “poetica gozzaniana”, ma curiosamente la ripropone, sostenendo che “il grado di falsificazione è massimo, come mai nel resto della produzione gozzaniana”, per “l’intossicazione letteraria”, che l’ironia non riesce a stemperare. Ma non c’è ironia invquesta India, e c’è, dichiarata, l’intossicazione letteraria. Ma questa è Gozzano. Mentre il viaggio, anche se solo di poche cose viste, ma comunque molte, enormi, per un lettore italiano, è un viaggio vero: il racconto lo è – e la “poetica gozzaniana” non va tarata anche su queste lettere dall’India?  Seppure occasionali, per un giornale, e raccolte in volume postume, dal mercato editoriale – in realtà rifinite, la scrittura di un anno o poco meno, a viaggio da tempo concluso.  Guido Gozzano, Al sole dell’India, Touring Club Italiano, remainders, pp. 145., ill. € 5
Verso la cuna del mondo, Bompiani, pp 246 € 13
Viaggio in India, Graphofeel, pp, 18, ill. € 14

giovedì 14 giugno 2018

Lo scandalo che non si diceva

Che Parnasi fosse Parnasi, un immobiliarista politico, si sapeva – se ne faceva lustro lui stesso. Che i contatti fra Grillo, Grillo in persona, e i suoi con Parnasi fossero frequenti, attraverso un noto studio legale romano, era noto – Grillo negava, minacciando querele. Che la decisione per lo stadio dell’As Roma fosse affrettata era sotto l’occhio di tutti. Da parte di un partito che aveva appena negato a Roma l’Olimpiade – perché gli affari erano stati già decisi? E si sapeva che per questo stadio, per avere via libera, Parnasi ha chiesto e ottenuto dalla sindaca Raggi la rimozione di un assessore, l’architetto Berdini, cui competeva la decisione. Ma nessuno lo ha scritto. Eccetto “Il Messaggero”.
Il quotidiano della capitale ha detto subito, fin dal primo progetto nel 2014, sindaco Marino, Pd, che c’erano punti dubbi. Compresi della Soprintendenza, così sollecita. Insomma, che c’era corruzione. E ne ha dato ragione passo per passo in tutti questi anni. Ma “Il Messaggero” appartiene a Francesco Gaetano Caltagirone, l’unico grande costruttore romano senza carichi pendenti, anche se offuscato dai Parnasi. Abbiamo la verità, dunque dalla concorrenza – un ottimo argomento per i liberisti: non c’è verità senza concorrenza.
Ma gli alri media che facevano?

La mafia dei giardini

Emerge per una coincidenza un brutto episodio della giunta verde di Rutelli, interinato e aggravato da Veltroni: la liquidazione del Servizio Giardini di Roma. Millecinquecento persone che curavano l’enrome superficie verde della capitale, che contra 330 mila alberi, di cui la metà distribuiti lungo le strade, da potare, e poco meno di un migliaio di ettari di terreni erbosi da sfalciare. Ora ridotte a 200, di cui solo 80 giardinieri. Il servizio fu distrutto per appaltare la manutenzione alle cooperative di Buzzi, della 29 giugno. Che non ne avevano competenza e non se la sono acquisita.
È ora il deserto, di piante malate o secche, e di prati in attesa di un cerino – un po’ provvedono i volontari la domenica, ma non basta. Effetto anche della stolidità della giunta Raggi, che il bando per lo sfalcio ha pubblicato a giugno, quando l’erba era già secca, e nessuno si è presentato. L’erba degli aeroporti e dei parchi procurava una volta belle entrate. E lo potrebbe ancora: se i mangimi l’hanno soppiantata come foraggio, è sempre utile come biomasse, per il carissimo kWh ecologico. Ma leffetto è soprattutto della cultura liberistica che le spoglie del Pci hanno abbracciato senza ritegno, e trasmesso all’Ulivo-Pd: dalle lenzuolate di Bersani ai servizi pubblici in appalto.
La coincidenza è che oggi su “la Repubblica” due personaggi evocano il fatto. L’ex assessore Berdini nel servizio politico del giornale: “Mafia Capitale aveva fatto emergere la disarticolazione delle funzioni pubbliche di un’amministrazione. Un esempio su tutti: si distrugge quel piccolo gioiello che era l’Ufficio Giardini del Campidoglio per dare un appalto…”. Vittorio Emiliani, con molti numeri, in un intervento centrato sul Servizio Giardini in disarmo nella cronaca romana. Ma nessuno dei due dice l’origine di questa assurda storia. Emiliani si limita a considerare: “Ci si è illusi che il Servizio Giardini potesse venire «esternalizzato» con profitto”.      

La credulità dell’incredulità

Una lettura stranamente attuale, nel millennio dell’incredulità diffusa. Nemmeno professata, fattuale – il problema non si pone. Non è la prima volta che l’incredulità viene data per scontata, nello stesso clima di scientismo, come questo degli acceleratori miliardari di particelle. .
Febvre scrisse questa lunga trattazione per criticare il peccato di anacronismo: contro un Novecento, siamo a metà secolo, che leggeva il Cinquecento con i criteri del positivismo. Lo fa da storico, laico, quale era – l’attualizzazione è un peccato di anacronismo, micro, per dirne l’intelligenza. Il pensiero di Rabelais – Rabelais era un pensatore fervido, oggi si direbbe multidisciplinare -  ravvicinando a quello di Erasmo un sicuro credente. Sotto le facezie d’uso, anche da parte di Erasmo. Con una rilettura del testo ateo per eccellenza dell’epoca, il “Cymbalum mundi”. Di un Des Periers di cui altro non si sa. In un secolo chiacchierone e pettegolo. Che straparla – una novità? Un dialogo tra Lutero (“Rhetulus”), Bucer (“Cubercus”) e Erasmo (“Drarig”, Gerardo – il nome del padre di Erasmo), ognuno dei quali pretende di avere un pezzo esclusivo della pietra filosofale apportata sula terra da Mercurio – la verità. Una caricatura vivace dei tre discussant, che avrebbe potuto ben essere di pugno di Erasmo. La cui sconfitta nella discussione – la sconfitta della riforma cattolica – è una vittoria. Il Cinquecento era un secolo che “non può non credere”. Anche se per la ragione sbagliata, alla vigilia delle guerre di religione.
Lucien Febvre, Il problema dell’incredulità nel secolo XVI. La religione di Rabelais

mercoledì 13 giugno 2018

L’immigrazione non è salvazione

Bisogna accogliere gli immigrati per salvarli dai campi di detenzione libici. Bisogna accogliere le madri incinte. Bisogna accogliere le madri e i bambini. Nonché i bambini soli. Il linguaggio dei volontari dell’accoglienza è incontrovertibile ma assurdo. Perché non c’è una tratta di africani.
C’è un afflusso volontario di africani in Libia, come piattaforma per l’Italia e l’Europa. Solo in parte organizzato da mafie – droga, prostituzione, carità, commercio ambulante. Per lo più opera di agenti riconosciuti nei paesi di partenza, Nigeria, Ghana, Senegal, Gambia, Costa d’Avorio, etc. Una rete in atto da almeno una dozzina d’anni, per un business crescente. Si direbbe un turismo fiorente dell’emigrazione, se non costasse vite umane. Perché il viaggio dal centro al nord Africa si paga, e dalla Libia all’Italia pure. Si conoscono gli agenti e si conoscono le tariffe - che non sono quelle fantasmagoriche dei cronisti improvvisati, ma sono evidentemente remunerative.
Si conoscono anche i motivi dell’immigrazione forzosa. Ricongiungimenti familiari da una parte – donne e\con bambini – e dall’altra giovani o disadattati in cerca di un futuro qualsiasi, alla cieca. Pochissimi sono i rifugiati politici.
Questo linguaggio all’apparenza benevolente – ma è solo ripetitivo, rituale - dei volontari non risolve il problema immigrazione, e semmai lo aggrava. Perché questo flusso di massa è un costo: per gli africani in vite, per l’accoglienza in euro. Senza soluzione. Che invece c’è, per i migranti e per i riceventi, e andrebbe applicata.Con regole non punitive per i ricongiungimenti. Andando a prendere gli emigranti per i quali ci sia domanda. A costo ridotto e senza sacrifici umani. Senza sfruttamento. Non è difficile. Certo, non ci sarebbe più il business dell’accoglienza, che fa da specchio a quello delle mafie africane.  
Il linguaggio falso della benevolenza fa un torto anche ai volontari. Che sono operatori professionali, malgrado il nome, retribuiti. Un vero volontariato, che andasse cioè oltre il piccolo business dell’accoglienza, dovrebbe dire la verità sull’immigrazione, e sui veri rimedi, invece di lavarsi le mani col volemose bene.

Secondi pensieri - 349

zeulig


Armonia – Si vuole disarmonia. Cioè un’estetica della morte. Non arte.
L’arte non può essere della morte, la morte non è vita. Se non dialetticamente: ma allora è una disarmonia-per-l’armonia, non la dissonanza infinita che viene inflitta, in musica e nelle arti visive.

Colpa – È generalizzata, per quanto informe, in una col sentimento di crisi e di morte. La Colpa è ora  di tutti, tedeschi e non, per essere morti dentro, la “colpa metafisica” (Jaspers).
Individualmente il suicida può pensare, come John Donne in un momento brutto per la carriera: “Possiedo le chiavi della mia prigione”. Scriverci sopra anche un trattato, come il decano di Saint Paul Donne fece – un Biathanatos che non è una morte doppia ma una sorta di morte vissuta: “Questo peccato non è irremissibile”. Ma ci pensa il suo essere-al-mondo a disilluderlo, il “si” indistinto che solo si occupa di morire, prima è meglio.

Coscienza – Il problemino di Kant, “Su un preteso diritto di mentire per umanità”, è oggetto di vasta cas(u)istica . Una è questa, nella sintesi del suo oppositore Constant: “Davanti a degli assassini, che vi chiedessero se il vostro amico, che stanno inseguendo, si è rifugiato in casa vostra, la menzogna sarebbe un crimine”.
Ma non si può costringere una persona a un’azione contraria alla sua coscienza, non liberandolo dalla responsabilità. Caillois ha, in “Ponzio Pilato,”, un Cicerone-Xenodoto che lo argomenta – in un libro che Cicerone non scrisse, “De finibus potentiae deorum”, sui limiti della potenza degli dei, nel quale avrebbe ripreso le argomentazioni teologiche e filosofiche di un non altrimenti noto  Xenodoto – a meno che non fosse il filologo, organizzatore della biblioteca di Alessandria ma reputato dai successori per la sua “ignoranza”, in quanto editor di Omero, Esiodo e altri. Da Xenodoto-Cicerone, Caillois-Ponzio Pilato si fa dire che “le divinità, gli astri, le leggi cosmiche, lo stesso inesorabile Destino”, messi insieme, “non potevano costringere il Giusto a un’azione che la sua coscienza gli proibiva”.
Ma la coscienza di Caillois-Cicerone-Xenodoto non può sottrarsi alla legge, o alla conformazione di male e di bene.

Ideologia – Se ne censisce in continuazione il tramonto, mentre è più viva e potente di prima. Dominante anzi, totalitaria: quella del “pensiero unico” – non si nasconde neanche. Non c’è altro modo di leggere il mercato, specie nell’opinione italiana. Specie, paradossalmente , nella sinistra politica, in Italia, da Veltroni a Bersani, Vincenzo Visco, il Berlinguer ministro. Per incultura, e per cattiva coscienza – il pensiero liberale sa, sapeva dalla origini, che la libertà va regolata. 

Machiavelli – “Il Principe” è per il popolo, un incitamento alla rivolta. Tesi ardita, essendo “Il Principe” rivolto ai principi come arte del governo, ma non peregrina, che Laurent Binet, il giallista-semiologo della “Settima funzione del linguaggio” fa sostenere alla Vecchia, in dibattito critico col regista Antonioni a Bologna, al Logos Club di cui Eco è il Gran Protagora. “Il Principe” non è un manuale di dominio ma di liberazione: “Gli arcani del pragmatismo politico sgombrati  dalle fallaci giustificazioni divine o morali. Gesto decisivo nell’affrancamento umano, come ogni gesto di desacralizzazione”. Machiavelli è l’intellettuale nella sua forma migliore, “un liberatore”.
La Vecchia ci arriva per due vie. Perché Machiavelli di fatto si appella al popolo - «Perché quello del popolo è più onesto fine che quel de’ grandi, volendo questi opprimere, e quello non essere oppresso»”. E perché “in realtà, non scrive «Il Principe» per il duca di Firenze, poiché l’opera è diffusa ovunque. Pubblicando «Il Principe», Machiavelli rivela verità che avrebbero dovuto restare nascoste e riservate a uso interno dei potenti esclusivamente: atto sovversivo, atto rivoluzionario”.
La Vecchia è la gestora dell’Osteria del Sole, allora (1980) come oggi noto ritrovo bolognese, la comunista integrale. “L’opera che passa per il colmo del cinismo politico”, esordisce nel dibattito col regista che la vedrà vincente, “è un manifesto marxista definitivo”,

Marx e Heidegger – Manca, nel revival di Marx per i 150 anni del “Capitale”, ma si può fare – sarebbe anche d’obbligo. Essere e avere non è solo un titolo di Gabriel Marcel, se essere è avere. L’essere è se stesso: storia, classe e Volk-corpo sociale. La fisicità è l’eterno incomodo del pensiero occidentale, da Kant, e gli altri scozzesi liberali, ai padri della chiesa. La fisicità eleva e razionalizza il possesso. E la morte che viene in primo piano esorcizza la violenza, in quanto rivoluzionaria.
Si può fare un “Heidegger e Marx”, il materiale non manca, come sempre nella filosofia tedesca. E Hiedegger, benché antisemita, potrebbe non protestare – tentò delle avances  antioccidentali al sovietismo, negli anni dopo la guerra, quando era in disgrazia. Qui e là la mobilitazione è totale, si aderisce alla storia con tutto l’essere. Che dice Heidegger? Il comune essere storico è uno smarrimento di sé nell’ambito di ciò che è storico: la non-storia. Un tale smarrimento del nostro essere è necessario alla storia. L’essere storico è una costante sempre nuova scelta tra la non-storia e la storia nella quale siamo. Entrare nella storia non significa entrare nel passato. Se un popolo entra nella storia, entra nel futuro. Se esce dalla storia non ha più futuro. Esso entra nella storia (passato) nella misura in cui esce dalla storia (futuro). La possibilità di accesso alla storia si fonda sulla possibilità che un presente sappia sempre essere-per-il-futuro. Ciò che “ha una storia” è coinvolto nel divenire. È nell’essere-per-l’avvenire che l’esserci è il passato.
Heidegger lo dice e lo ripete: “La possibilità di accedere alla storia si fonda sulla possibilità che un presente sappia essere di volta in volta futuro”. È a partire dal presente che si fa entrare nel conto il passato, e in vista di ciò che è presente. È per esso che si pianifica il futuro: “Quando girano le eliche di un velivolo non accade propriamente nulla. Ma se il velivolo porta Hitler da Mussolini, allora accade la storia. Il volo diventa storia. La storia è cosa rara”
L’identificazione più sottile l’aveva individuata Hannah Arendt, l’innamorata che Heidegger non leggeva: “Il pragmatismo, anche marxista e leninista, muove dal presupposto, comune a tutta la tradizione occidentale, che la realtà riveli all’uomo la verità, il totalitarismo presuppone solo la validità delle leggi del divenire”. Dell’esistere, senza leggi. Un’identificazione da intendersi, naturalmente, come sorpassamento. Le idealità e incertezze delle società fondate sulla volontà libera degli associati sono false e ostili. Ogni forma associativa, ogni appartenenza, che sia di tipo razionale e politico oppure consuetudinario e mistico, che non si fondi su una comunione fisica, d’interessi e di determinazioni materiali, è ostile. E tuttavia – ecco Marx e Heidegger uniti nella lotta - la mia verità è la verità. E deve fondare un mondo nuovo: la rivoluzione dei fatti discende dalla rivoluzione delle idee, a esse il mondo va conformato. La verità è conquistatrice. Gli uomini non sono inchiodati all’Ente nella soddisfazione dei bisogni vitali, non sono rassegnati.

Morte - A lungo si privilegiò nei simboli cristiani l’Incarnazione rispetto alla Morte, fino al Rinascimento, che per questo è pieno di dipinti osceni della Madonna col Bambino. E nella teologia dell’Umanesimo, il secolo che preparò la Riforma – che la chiesa si fece poi cancellare dalla polemica luterana. Non da molto tempo, ma con più insistenza e ripetitività, si fa il contrario, anche nella cristianità: non c’è altro che la morte, non si parla d’altro, e la stessa forma del pensare se ne fa la sua unica ragione – transeunte e non durevole, non nelle intenzioni, il perire e non il permanere. Culminando nello heideggeriano “la storicità autentica è l’essere-per-la-morte” – anche se Heidegger in lungo e in largo argomentava altrimenti: “La storia è il tratto specifico dell’uomo? Pure i negri sono uomini, ma non hanno una storia. Anche la natura ha la sua storia? Ma allora anche i negri hanno una storia. Non tutto ciò che trascorre entra nella storia”, la storia c’è quando non c’è, etc. (per il demonismo del profeta - oppure connesso alla lettera H, cui si devono pure Hitler e la Bomba?).

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L’amore non è filosofico

“L’amore è il grande agguato che la natura ha teso agli uomini per propagarne la specie”. Schopenhauer è simpatico per tanti motivi, ma ora che ne direbbe? Che la sessualità che tanto praticava e tanto gli faceva schifo deborda senza alcuna procreazione?
Confidargli le passioni non sarebbe del resto da amico. Lui ne era cosciente, che sempre aggiungeva febbrili note supplementari a tutte le parole chiave che non si spiegava, l’amore come la felicità.
La vecchia edizioncina La Spiga è su anobii. I “Supplementi”, le cinquanta aggiunte tematiche a “Il mondo come volontà e rappresentazione”, già tradotti da Laterza, sono ora in edizione Einaudi, pp- L-830 € 26
Arthur Schopenhauer, L’amore

martedì 12 giugno 2018

La Francia è invidiosa

Macron è invidioso, e si capisce. Voleva fare la pace in Siria, poi in Libia, poi tra l’Europa e Trump. Voleva una nuova Europa. Voleva rifare la Francia. Non gliene va bene una, e allora ripiega sulle piccolezze. Le furberie sui cantieri, che Fincantieri doveva salvare, pena il fallimento, ma che lui è riuscito con pali e paletti a fare in modo che il fallimento di domani sia italiano. Obbligando praticamente il governo italiano a bloccare Vivendi in Tim-Telecom, con perdite francesi. Ha chiuso Ventimiglia, e ha mandato i gendarmi a Bardonecchia, contro quattro spiritati africani. Non gliene va bene una, e ora s’illustra trovando irresponsabile, cinico e abominevole abominevole il no italiano alla ong italo-francese di Aquarius, che per l’occasione ha nazionalizzato, ergendosene a protettore – non al punto di prendersi la nave con i migranti. Lui che agli africani ha fatto dare la caccia con le armi, a Ventimiglia e a Calais. Poiché è furbo, oltre che intelligente, forse voleva solo spingere gli italiani a votare Salvini, apripista dei Le Pen.
Ma Macron non è un caso. La Francia lo è. Da almeno un decennio. Da quando Sarkozy voleva imporre all’Italia un taglio di bilancio di 50 miliardi l’anno, lui che tranquillamente sforava tutti i tetti euro alla spesa e al deficit di bilancio. E al rifiuto fece la sceneggiata dei sorrisetti ironici con Angela Merkel – la quale, quando Sarkozy andava a dormire, rideva di lui con la sua squadra al bar dell’albergo, rappresentandoselo come un gallinaccio col petto in fuori. Poi, solo per invidia dell’Italia, fece la guerra a Gheddafi, suo grande finanziatore. Danneggiando l’Eni, e riaprendo le frontiere all’immigrazione selvaggia, verso l’Italia. Oltre che distruggendo la Libia, quei quattro africani. Cinque anni di Hollande non hanno visto una sola parola, nonché un gesto, di intesa con l’Italia. Si è preso il comando di Frontex, in sostituzione dell’italiana Mare Nostrum, ma non ha saputo risolvere il problema immigrazione, che al contrario è esploso selvaggio. Macron è storia recente.
La Francia è gelosa dell’Italia? E perché? Mezza Italia le è stata svenduta, dai grandi marchi alle banche, la grande distribuzione, l’alimentare, l’acciaio, grazie al partito francese, il Pd ex Pci: non le piace, non le basta?

Problemi di base - 423

spock


“L’altruismo è un altro modo di essere egoisti” (P. Sorrentino)?

“Il massimo bene è un nulla” (Calderon de la Barca)?

“Non si può realizzare un progetto se non realizzando un altro progetto” (Simone de Beauvoir)?

“Perché la mente si interroga su se stessa?” (E. Scalfari)

Perché la mente si interroga?

Nella quarta passeggiata delle “Fantasticherie di un passeggiatore solitario”, R. propone una tassonomia della menzogna. Scoprendosi bugiardo senza limiti nel tempo stesso in cui più faceva proponimenti di essere sincero e leale: mentiva senza danno altrui?

spock@antiit.eu

Il futuro è un Mondiale di calcio

Quattro vecchi amici ancora giovani si ritrovano per vedere la finale dei Mondiali di calcio del 1998. Si raccontano le loro vite diverse, ognuno di loro avendo maturato una sua propria esperienza. E si promettono di rivedersi fra quattro anni, al prossimo Mondiale di calcio, con un bilancio dei proponimenti che ora faranno. Come mettere il futuro alla prova, o le loro proprie capacità, di fare convergere i fatti sui desideri.
Non ci sono sorprese, è un’elegia: un racconto di maschili amicizie. Di fatto non sono quattro persone (mondi) diversi che si confrontano, ma un po’ tutti lo stesso Nevo. Che ne è l’autore, ma è anche di fatto ognuno dei quattro: ha fatto il pubblicitario, ha avuto una “spartana educazione anglosassone”, crescendo negli Stati Uniti, è uno impositivo, ed è sposato con figli. Anche la celebrazione è autoglorificante: “Ritorna”, si fa dire, “sei l'amico migliore che abbia mai avuto. Sei stato tu ad insegnarmi cosa significhi essere amico. Senza di te ho paura di dimenticarmene. Tu mi conosci da prima che mi guastassi. E ogni volta che sto con te mi sento un po' riscattato, tu vedi attraverso tutte le maschere, e senti nelle mie parole esattamente quello che riesco a nascondere con esse dal resto del mondo. Senza di te siamo un’accozzaglia casuale di persone. Insieme a te siamo degli amici, senza di te, la grande città è tutte le cose cattive che dice Ofir (uno dei quattro amici, n.d.r.). Insieme a te è casa”.
Un romanzo nel solco della tradizione israeliana, ormai robusta di alcuni decenni. Fuori tempo e fuori luogo, cioè, con una venatura metafisica – nel senso di De Chirico. Non ci sono gli arabi, e quasi sempre nemmeno la guerra, nei film e i romanzi israeliani. Non ci sono gli israeliani nei film palestinesi. O sono comparse, lì per caso. In questo racconto ci sono gli uni e gli altri. Non si parlano ma non si ignorano. Gli israeliani perlomeno non ignorano gli arabi. Non la prima Intifada, nella quale i quattro amici qui desideranti multipli di Nevo sono stati militari di leva. Non la seconda Intifada, in corso, che nel non detto porta i personaggi a darsi un futuro a breve, al prossimo Mondiale di calcio – ce ne sarà comunque uno dopo il 1998.
Eshkol Nevo ha il nome del nonno, Levi Eshkol. Figlio della figlia più giovane, Ofra, che ha sposato Baruch Nevo, professore di Psicologia all’univevrsità di Haifa. Levi Eshkol è stato il primo ministro israeliano della Guerra dei Sei Giorni vittoriosa nel 1967: il terzo primo ministro della storia israeliana, laburista, successore di Ben Gurion, dopo essere stato ministro delle Finanze e della Difesa, in carica dal 1963 al 1969, quando morì d’infarto.  
Eshkol Nevo, La simmetria dei desideri, BEAT, pp. 351 € 9

lunedì 11 giugno 2018

Appalti, fisco, abusi (122)

Si fa grande caso del furto di dati facebook da parte di promotori politici. Di dati non sensibili. Non si fa nessun caso invece, nemmeno la polizia postale lo fa, degli innumerevoli “servizi” che quotidianamente abbonano gli utenti a miracolose offerte. Con rifiuto a carico dell’utente. Che è un furto, a differenza della promozione politica. Con scasso: con l’appropriazione di dati sensibili, quali l’iban e le carte di credito.

Cinque anni fa si scoprì che sette grandi banche, le maggiori dei rispettivi paesi, e le maggiori dei dei 20-44 istituti di credito che concorrono all’Euribor, il tasso di riferimento degli interessi sui mutui, si erano accordate per manipolarlo. Non furono perseguite penalmente, non in Europa (negli Usa sì), solo multate. Non subito, dopo tre anni di istruttoria, a fine 2016. Ma senza la pubblicazione del dispositivo che solo avrebbe consentito ai mutuatari truffati di riaversi in giudizio. L’Antitrust  della Commissione di Bruxelles diede notizia della sentenza riservandosi la pubblicazione del dispositivo. Che prometteva, ma in un anno e mezzo non ha trovato il tempo di un clic.

Tim-Telecom, il gruppo telefonico ex pubblico oggi conteso tra Francia e Italia perché in possesso della rete, ma che Grillo poteva dichiarare tecnicamente fallito all’avvio del suo blog e all’assemblea societaria del 16 aprile 2007, rende impossibile il pagamento con Iban o carta di credito. Bisogna farne domanda, niente automatismi. Scaricando un modulo. Al sito Tim.it. Cui però è impossibile accreditarsi. 
Tim.it alternativamente risponde: “La certificazione risulta già effettuata”, ma senza consentire l’entrata. Oppure: “Le tue credenziali non sono ancora certificate. Per poter procedere devi prima completare la registrazione. In alternativa puoi chiamare, dalla tua linea di casa, il numero gratuito 40123 - opzione 2. 
Non è uno scherzo. Ma il numero 40123 “è inesistente”.

Tre stazioni di servizio di riconosciuto brand nazionale, Tamoil, Agip, Q8, in un arco di 50 metri a via Carini a Roma, affiggono oggi questa tariffa per la benzina verde: 1,64, 1,84, 1,94. Si può guadagnare così tanto sulla benzina, non c’è nessun controllo?
Ma c’è una utenza che paga 30 centesimi in più per la stessa benzina allo stesso luogo.

Quando Roma si faceva amare

Una dichiarazione d’amore per Roma. Celebrata di giorno e di notte. Nei vicoli e nei palazzi. Nel ponentino balsamico e nel tanfo dell’afa.  Palazzeschi abbandona per Roma l’inseparabile ironia, ne è innamorato. Della pancia allora – 1953 - di Roma, che erano le viuzze del centro, tra Campo di Fiori, Navona e Campo Marzio. In anticipo e in controtendenza rispetto al vezzo che sarà romano di parlare di Roma, per denigrarla.
Una celebrazione di Roma in assoluto, e rispetto alla Firenze natia, stantia. Il vero centro del Rinascimento. Roma “non si era lasciata capovolgere i valori della vita. Fra paganesimo e cristianesimo aveva saputo prendere ma anche tenere”: “Il piagnone a Roma non era un prodotto possibile e il frate ferrarese” Savonarola “di fronte ai romani avrebbe dovuto contentarsi di carezzare loro le orecchie”. Firenze non è arrivata al Rinascimento: “Si procede per reazioni in Firenze, e dopo il Rinascimento il carattere medievale permane”.
Fra contesse, principi, giovani maschi e giovani femmine, chiese, cupole,  non si fa che parlare (bene) di Roma. “Il romano non è eccessivo, non è estremista né ribelle”, inteso come un complimento. “Roma è città d’equilibrio, pigrizia e indifferenza”. E se “non è romantica a Roma la notte lunare”, e nemmeno “la luna tra le rovine”, è però una liberazione - è di “splendido pallore”. La lista sarebbe lunga. Fino alla dichiarazione finale, preceduta dall’elenco amoroso delle cupole che sullo scrittore quasi ottantenne vegliano erette: “Roma, Roma, Roma, Roma, giovane e decrepita, povera e miliardaria, intima e spampanata, angusta e infinita”.
Aldo Palazzeschi, Roma