Copernico – Si autoribalta
nel paradosso cosiddetto di Fermi, solo consequenziale allo scientismo – “where are they?” (se l’universo pullula
di civiltà sviluppate, dove sono?). L’assunto che si dice “copernicano”: che i
pianeti ruotando attorno al sole l’umanità non è al centro dell’universo,
creato o non che sia.
Paradosso
o no, resta che l’umanità è comunque al
centro dell’universo, per il solo fatto che si pone il problema.
Destino
–
Si presume prestabilito, ineluttabile, e ìgnoto, finché non si produce,
sorprendente. Mentre è vario, indistinto anche. E quando “colpisce è la
realizzazione di un’attesa, un incumbent
- un’attesa temuta. È il caso quando si ritiene preconfigurato – benché solo ex
post.
Con lo stesso criterio (certezza) il
destino si può configurare favorevole.
Discontinuità – Ne siamo
ossessionati, in attesa del diluvio, dell’asteroide, della siccità, della
deflagrazione: un’età si vuole in cui tutti siamo morti. Per poi, chissà,
rigenerarsi in altra forma. Tutto il contrario dell’evoluzione nella quale
crediamo – diciamo di. Che vorrebbe il contrario. Forse si gioca qui la partita
col creazionismo. Anche se Dio verrebbe a essere materia bruta. Ma non inerte,
giacché discontinua – in grado di produrre discontinuità. E in qualche modo
intelligente: combinatorio e non soltanto distruttivo.
Nulla a che vedere con la ciclicità. A
meno che il ciclo non sia della discontiniità, della periodici cupido dissolvendi – dell’ideologia della fine (altra “prova” di Dio:
finisce ciò che ha inizio).
È dunque la “prova” di Dio?
Dubbio – Si presenta
come un antidoto. Perché, la verità sarebbe velenosa?
È uno strumento, un forcipe. Lo
strumento della verità: domandare, domandarsi.
È anche una condizione antropica: di chi
è indeciso, o incerto per carattere, di chi pensa male, di chi rifiiuta (si
rifiuta)… Ma questa non è un’altra cosa – di rilievo filosofico?
Se ne fa il festival, tra i tanti della
“mente”, alla Milanesiana. Dove Michael Cunningham smantella ogni dubbio: “Più fede equivale a meno
dubbio”, e “eccoci qui, vivi, tutti noi, adesso”. Il dubbio qui è se i festival
della mente sviluppino la mente. Anche se solo promuovendo qualche romanziere,
quale è Cunningham.
Inadeguatezza – Spiega Fellini
in un’intervista (con Toni Maraini, “Imago”), in risposta a una domanda sulla
maturità: “Per sapere se tramite il lavoro io abbia maggiore conoscenza di me stesso, mi sembra che non ci sia evoluzione e di
trovarmi sempre bloccato e intrappolato nella stessa età”. Esperienza comune
all’artista, che vive “assoluto”, sciolto – dal tempo, dal tempo storico anche,
anche dal luogo. È una categoria morbosa, recente, voce e strumento di
psicoanalisi.
Memoria – È personale.
Anche quella storica, la storia. Fino a una forma di dissociazione, che ha
qualcosa della schizofrenia.
Un artista che rivendica la mancanza
“del senso del tempo che passa, del passato”, Federico Fellini (“Imago”,
intervista con Toni Maraini), ne sintetizza le modalità come ripiego strategico
e invenzione – pur riducendolo a un limite personale (“Non ricordo. Non ho il
senso del tempo che passa, del passato”):
“Non so più che cosa mi sono inventato sino al punto di credere che sia
veramente esistito”. E quando è “messo a confronto con documenti e
testimonianze di allora”, aggiunge, “ho la sensazione che siano prove che
appartengono a qualcun altro, o comunque a qualcuno che non ha veramente più
nulla a che fare con se stesso”.
In quest’ultimo accezione la memoria è
configurata, dallo stesso Fellini, come una forma di schizofrenia. Almeno per
l’uomo “artista”, il creativo: “Per coloro che chiamiamo – con una definizione
quasi infamante – ‘artisti’, questo mi sembra d’obbligo. Per artista s’intende
qualcuno che si mette di fianco a se stesso o, comunque, un poco distanziato da
sé, per osservare che cosa stia accadendo. Per vedere come se la sta cavando
quell’altro, quello che gli altri chiamano per nome e cognome e che
identificano in qualcuno che ha difficoltà a riconoscersi. Ctredo che questo
sia lo sfasamento tipico di chi è
incline a vivere la vita per raccontarla, senza ricorrere all’ideologia”
Lo stesso per lo storico?
Che non è il procedimento creativo per
sé, che anch’esso per altro verso ha un che di schizofrenico, ma quello che
“ricostituisce”.
Scrivere - Rilke nelle lettere parla del giovane Malte come di uno alle prese
con una prova alla quale dovrà soccombere. E qual è la prova di Malte Laurids
Brigge? Il libro non è scritto se non al prezzo, per Rilke, di una privazione
di sé durata dieci anni. Rilke dice soltanto, di lui e di sé: “Nel-lo sconforto
conseguente, Malte è giunto dietro a tutti, in una certa misu-ra dietro la
morte, al punto che niente mi è più possibile, neppure morire”. Pound sottoscriverebbe:
“La letteratura è novità che resta novità”. Che pare legare l’odierno
all’antico, il curioso al saggio, il lieve al profondo.
“La
grandezza di quello che si scrive dipende da ciò che si è scritto e fatto
altrove”, è una delle trovate di Wittgenstein. Ma è barriera quadrupla, con
siepe e fosso, da non mostrare al purosangue.
Scrivere era nel mondo antico attività
servile, non ci sono scrittori classici allo scrittoio. Secondo Platone, anzi,
quando il dio Toth inventò la scrittura, il faraone si preoccupò che l’uomo
dimenticasse di ricordare. Poi viene san Luca, che scrive perplesso. Saranno i
monaci a farne un’arte, votati al celibato, solitari in cella, in clausura, e
il letterato diventa uno che legge e scrive.
Lo scrittore è un soldato, dice Thomas
Mann, per “entusiasmo, ordine, solidità, esattezza, accortezza, coraggio,
costanza, radicalismo morale, dedizione estrema, impiego di tutte le energie”.
Si vede che non ha fatto il militare – anche se ha ragione, per celebrarsi a
quarant’anni in seicento pagine successore della triade della superiore
germanicità, Schoenhauer, Nietzsche, Wagner, l’autore deve credere a se stesso.
Scrivere si può solo come dice Flaubert, naturalmente: da Dio. Uno che sta
ovun-que e in nessun luogo. Che sa tutto e nulla. Ed è inutile.
Scrivere non è una storia che si scrive
da sé – non c’è storia che si scriva da sé. Ma non è necessario scrivere utile.
Preciso sì, è la narrazione. Una scrittura
che dice - racconta – è quella di Darwin, il naturalista. Prima erano Seneca e
Tacito, gli stoici della Età dell’Argento, che hanno imposto un flusso
re-golare e netto alla prosa, contro il linguaggio sinuoso, che afferma e nega,
anticipa e ritarda, eccita e non conclude, specchio insopportabile della
contemporaneità, di eleganza frigida. Ma lo storico finisce nell’ombra, da cui
si vuole invece uscire, e lo stoico è parente pericoloso: lascia l’azione a
servi e messaggeri e straparla. Perfetto per le trame sanguinose e la lingua,
che mescola il tragico al quotidiano.
Verità – Non è una
tensione, cozza contro una tensione, la forza del male (errore, inganno,
tentazione).Lo immagina Fellini, argomentando sulla “rimozione delle voci della
fantasia e dell’intuizione”, tema propostogli da un’intervistatrice, Toni
Maraini, “una forza contraria che, al di là di questioni politiche o religiose,
sembra voler nascondere la verità”, una forza “in forma di autodifesa, una forza del Maligno”. La verità
è Dio, cioè l’opposto del Maligno.