Decadenza – È parola tedesca, ha cioè senso in tedesco. Quando Nietzsche la
incontrò nel saggio di Bourget su Baudelaire la disse subito migliore del
tedesco Verfall, e d’allora in poi la
trovò in ogni piega del suo discorso. Non se ne parla per via di Hitler, della
sua guerra all’“arte degenerata", o decadente. Ma c’era prima, e
continua a prosperare.
Su
Hitler non pesa il sospetto di decadenza,
concordemente anzi si dice il suo un tentativo, sia pure orrido, di reagire contro questo che a tutti gli
effetti è un cancro della Germania, e dell’Occidente. Thomas Mann ne sa di più,
nella sua estenuata ironia: conservatore e nazionalista, in casa autoritario,
tutto fuoco dell’arte, vero fascista, che Hitler a ragione chiama fratello.
Entartung – La
“degenerazione dell’arte” era da
quarant’anni prima di Hitler in due grossi volumi così titolati di Max Nordau,
il fondatore del sionismo con Herzl. Che si basava su Lombroso. Ma con
argomenti che Lukáks celebrerà ancora nel 1954, dopo Hitler e dopo Stalin, ne
“La distruzione della ragione”. L’arte non può essere disarmonia, estetica
della morte.
Esibizione – Non l’ultima
delle passioni, benché fuori catalogo e probabilmente una decisiva, poiché
alimenta grandi exploit, e perfino delitti. Motore peraltro della vita
ordinaria, l’ambizione, la carriera, lo sviluppo, la ricchezza. Anche nelle
manifestazione più bizzarre e si direbbe poco incisive. Anzi forse di più in
queste.
Si scorrono le foto che illustrano il Royal Ascot,
l’evento ippico che i reali d’Inghilterra patrocinano, e si resta strabiliati:
dal numero delle persone che spendono cifre folli, compresa la partecipazione
al’evento, per esibire le code con il tubo
gli uomini, e vestiti “romantici” Ottocento le donne, con cappello fantasioso d’ordinanza.
Non modelle (starlet) presenzialiste, o grandi famiglie aristocratiche tenute
alla tradizione, e nemmeno grandi fortune, ma borghesi qualunque, non di nome,
e quasi vicini di casa. Come a un carnevale, in maschera cioè, ma con la
pretesa di essere il top del top del buongusto, della ricchezza e del
potere. L’esibizione allo stato puro. Ma tale da dare tutto un altro contesto –
e senso – alla Brexit, la separazione della Gran Bretagna dall’Unione Europea,
o la persistente politica di potenza, la sfida alla Russia, da tre secoli a
questa parte, l’autocelebrazione di un paese per il matrimonio di un principe
reale con con un’attricetta americana
sua maggiore, divorziata.
È la manifestazione di una consistenza. Ma in quanto
voler essere. Non necessariamente di sostanza.
Filosofia – Ma è dappertutto.
Nei festival estivi non solo, e nei circuiti di conferenze. Insieme con
l’ecologia e il vegetarianismo, il tema di più larga attenzione nel millennio. Non
c’è dichiarazione o intervista, o diario di giovane bella ragazza, o auspicio
di un futuro brillante e di successo, che non sia un temario filosofico, di
male e bene, vita, morte, dolore, felicità, infinito. Non solo le influencer, i calciatori e le modelle:
gli scrittori di oggi, anche di un solo
libro, anche teen-ager, sono solo dispensatori di
pensiero. Non si pensa molto, non che si veda, ma tutti pensano.
Hegel
–
È in Italia che trova - non “compimento”, come usa dire ma non significa nulla
- consacrazione, al limite dell’imposizione. Non ha fatto tanto Marx per Hegel
quanto ha fatto l’idealismo napoletano, fino a Croce, e con Gentile. Anche
perché Marx è stato a lungo marginale (e in filosofia si può dire sempre, con qualche
eccezione, Althusser e pochi altri), mentre la filosofia italiana era, strano a
dirsi, mainstream.
È di Gramsci, anni 1920, la notazione
che con Croce Hegel raggiungeva proiezione “mondiale” (la filosofia di Croce
classificando “momento mondiale della filosofia tedesca”). Dopo Spaventa e
Labriola. Ma anche Gentile non fu da meno. Hegeliano anzi con più rigore, che
la filosofia di Hegel portò al potere, come da non segreta ambizione.
Italiana anche la prima opposizione. Di
De Sanctis, che tradusse Hegel quando era prigioniero a Castel dell’Ovo. E ne
smontò le premesse, oppositore conseguente del dispotismo politico – borbonico
nel caso suo, ma quelo napoleonico non sarebbe stato più accetto.
Io – Si è
autodissolto, nell’eccesso – ogni minimo selfie
erigendosi a Budda, il quale disse appena nato: “Sono
il primo e il migliore, vengo a porre fine alla malattia e alla morte”. Tutto è
io non è la ricetta migliore - il troppo non basta mai, è il solito scriversi
sulla carta assorbente, parole dilatate. Bisogna pur parlare di se stessi, con
se stessi. Meglio al modo del Nettuno dantesco che dentro l’acqua in cui vive, il
suo liquido amniotico, vede l’ombra volteggiare in cielo di Argo, l’argonauta.
L’egocentrismo lo impedisce. Anche se superficiale, per la moda o modo
d’essere.
Misura
–
È sostanza, nelle decisioni umane come negli orientamenti – capacità di
analisi, passione. È il metro – metronomo - della felicità, poca o molta che si
manifesti o si aggiunga.
La misura è di ogni propensione umana, o
passione. Dell’ozio come del desiderio, dell’immaginazione. Un evento o una
volizione smisurata, il nazismo, il sovietismo, si concepisce (si ricostituisce
storicamente) come un’eccezione e\o un malattia.
Morte
– C’è
un’aritmetica della morte, un’altra economia politica. C’era nell’eugenetica,
primi decenni del Novecento, e poi nel programma hitleriano, che in quel filone
si inseriva, della “morte misericordiosa”. Ripreso dopo la guerra fino agli
anni 1980 in Scandinavia, in Svezia e forse in Norvegia. C’è oggi nell’eutanasia,
che è all’inizio una politica economica: quanto costa una vita senza speranza
di remissione. A partire dal programma - non dichiarato ma attivo di fatto – della
Germania Federale, che non opera chirurgicamente tumori sopra i 75 anni di
vita.
La
morte non è vita: la sopravvivenza ha più senso del suicidio, anche collettivo.
Per esempio quello che Hitler inflisse
ai tedeschi. Non c’è un mito del genere.
Ozio
– È
tipica scelta volontaria: misurata, accorta. O altrimenti nocivo, malgrado i
tanti elogi filosofici di cui si onora. L’ozio forzato, per esempio la pensione,
come la prigione, cioè non scelto, non misurato, è oppressivo.
Storia – Finalizzata,
come progresso, è invenzione-innovazione cristiana.
A un fine peraltro non storico: il
progresso è all’aldilà, a un fine ultraterreno.
Con qualche
problema. Se la storia è cristiana, non c’era
prima, prima della redenzione, non c’era il progresso a un fine? Per non dire
che questa storia sarebbe un percorso per l’aldilà. Una styoria di redenzione,
e divina, senza pietà per la storia di qua.
Non c’è salvezza senza storia? E chi è senza storia,
popoli e individui?