sabato 7 luglio 2018

Secondi pensieri - 352

zeulig

Decadenza È parola tedesca, ha cioè senso in tedesco. Quando Nietzsche la incontrò nel saggio di Bourget su Baudelaire la disse subito migliore del tedesco Verfall, e d’allora in poi la trovò in ogni piega del suo discorso. Non se ne parla per via di Hitler, della sua guerra all’“arte degenerata", o decadente. Ma c’era prima, e continua a prosperare.
Su Hitler non pesa il sospetto di decadenza, concordemente anzi si dice il suo un tentativo, sia pure orrido,  di reagire contro questo che a tutti gli effetti è un cancro della Germania, e dell’Occidente. Thomas Mann ne sa di più, nella sua estenuata ironia: conservatore e nazionalista, in casa autoritario, tutto fuoco dell’arte, vero fascista, che Hitler a ragione chiama fratello.

Entartung – La “degenerazione dell’arte”  era da quarant’anni prima di Hitler in due grossi volumi così titolati di Max Nordau, il fondatore del sionismo con Herzl. Che si basava su Lombroso. Ma con argomenti che Lukáks celebrerà ancora nel 1954, dopo Hitler e dopo Stalin, ne “La distruzione della ragione”. L’arte non può essere disarmonia, estetica della morte.

Esibizione – Non l’ultima delle passioni, benché fuori catalogo e probabilmente una decisiva, poiché alimenta grandi exploit, e perfino delitti. Motore peraltro della vita ordinaria, l’ambizione, la carriera, lo sviluppo, la ricchezza. Anche nelle manifestazione più bizzarre e si direbbe poco incisive. Anzi forse di più in queste.
Si scorrono le foto che illustrano il Royal Ascot, l’evento ippico che i reali d’Inghilterra patrocinano, e si resta strabiliati: dal numero delle persone che spendono cifre folli, compresa la partecipazione al’evento,  per esibire le code con il tubo gli uomini, e vestiti “romantici” Ottocento  le donne, con cappello fantasioso d’ordinanza. Non modelle (starlet) presenzialiste, o grandi famiglie aristocratiche tenute alla tradizione, e nemmeno grandi fortune, ma borghesi qualunque, non di nome, e quasi vicini di casa. Come a un carnevale, in maschera cioè, ma con la pretesa di essere il top del top del buongusto, della ricchezza e del potere. L’esibizione allo stato puro. Ma tale da dare tutto un altro contesto – e senso – alla Brexit, la separazione della Gran Bretagna dall’Unione Europea, o la persistente politica di potenza, la sfida alla Russia, da tre secoli a questa parte, l’autocelebrazione di un paese per il matrimonio di un principe reale con con un’attricetta americana  sua maggiore, divorziata.
È la manifestazione di una consistenza. Ma in quanto voler essere. Non necessariamente di sostanza.

Filosofia – Ma è dappertutto. Nei festival estivi non solo, e nei circuiti di conferenze. Insieme con l’ecologia e il vegetarianismo, il tema di più larga attenzione nel millennio. Non c’è dichiarazione o intervista, o diario di giovane bella ragazza, o auspicio di un futuro brillante e di successo, che non sia un temario filosofico, di male e bene, vita, morte, dolore, felicità, infinito. Non solo le influencer, i calciatori e le modelle: gli scrittori  di oggi, anche di un solo libro, anche teen-ager, sono solo dispensatori di pensiero. Non si pensa molto, non che si veda, ma tutti pensano.

Hegel – È in Italia che trova - non “compimento”, come usa dire ma non significa nulla - consacrazione, al limite dell’imposizione. Non ha fatto tanto Marx per Hegel quanto ha fatto l’idealismo napoletano, fino a Croce, e con Gentile. Anche perché Marx è stato a lungo marginale (e in filosofia si può dire sempre, con qualche eccezione, Althusser e pochi altri), mentre la filosofia italiana era, strano a dirsi, mainstream.
È di Gramsci, anni 1920, la notazione che con Croce Hegel raggiungeva proiezione “mondiale” (la filosofia di Croce classificando “momento mondiale della filosofia tedesca”). Dopo Spaventa e Labriola. Ma anche Gentile non fu da meno. Hegeliano anzi con più rigore, che la filosofia di Hegel portò al potere, come da non segreta ambizione.
Italiana anche la prima opposizione. Di De Sanctis, che tradusse Hegel quando era prigioniero a Castel dell’Ovo. E ne smontò le premesse, oppositore conseguente del dispotismo politico – borbonico nel caso suo, ma quelo napoleonico non sarebbe stato più accetto.

Io – Si è autodissolto, nell’eccesso – ogni minimo selfie erigendosi a Budda, il quale disse appena nato: “Sono il primo e il migliore, vengo a porre fine alla malattia e alla morte”. Tutto è io non è la ricetta migliore - il troppo non basta mai, è il solito scriversi sulla carta assorbente, parole dilatate. Bisogna pur parlare di se stessi, con se stessi. Meglio al modo del Nettuno dantesco che dentro l’acqua in cui vive, il suo liquido amniotico, vede l’ombra volteggiare in cielo di Argo, l’argonauta. L’egocentrismo lo impedisce. Anche se superficiale, per la moda o modo d’essere.

Misura – È sostanza, nelle decisioni umane come negli orientamenti – capacità di analisi, passione. È il metro – metronomo - della felicità, poca o molta che si manifesti o si aggiunga.
La misura è di ogni propensione umana, o passione. Dell’ozio come del desiderio, dell’immaginazione. Un evento o una volizione smisurata, il nazismo, il sovietismo, si concepisce (si ricostituisce storicamente) come un’eccezione e\o un malattia. 

Morte – C’è un’aritmetica della morte, un’altra economia politica. C’era nell’eugenetica, primi decenni del Novecento, e poi nel programma hitleriano, che in quel filone si inseriva, della “morte misericordiosa”. Ripreso dopo la guerra fino agli anni 1980 in Scandinavia, in Svezia e forse in Norvegia. C’è oggi nell’eutanasia, che è all’inizio una politica economica: quanto costa una vita senza speranza di remissione. A partire dal programma - non dichiarato ma attivo di fatto – della Germania Federale, che non opera chirurgicamente tumori sopra i 75 anni di vita.

La morte non è vita: la sopravvivenza ha più senso del suicidio, anche collettivo. Per esempio  quello che Hitler inflisse ai tedeschi. Non c’è un mito del genere.

Ozio – È tipica scelta volontaria: misurata, accorta. O altrimenti nocivo, malgrado i tanti elogi filosofici di cui si onora. L’ozio forzato, per esempio la pensione, come la prigione, cioè non scelto, non misurato, è oppressivo.

Storia – Finalizzata, come progresso, è invenzione-innovazione cristiana.
A un fine peraltro non storico: il progresso è all’aldilà, a un fine ultraterreno.
Con qualche problema. Se la storia è cristiana, non c’era prima, prima della redenzione, non c’era il progresso a un fine? Per non dire che questa storia sarebbe un percorso per l’aldilà. Una styoria di redenzione, e divina, senza pietà per la storia di qua.
Non c’è salvezza senza storia? E chi è senza storia, popoli e individui?

zeulig@antiit.eu

Quando la poesia si nascondeva nel cuscino

“La minima appendice del sesto senso\ o l’occhio parietale della lucertola,\ i monasteri di lumache e conchiglie,\ il parlottio di piccole ciglia scintillanti.\ L’inaccessibile, com’è vicino!” Nel linguaggio scientifico, lui direbbe naturalistico, Mandel’štam è sempre preciso e affascinante. “Forse il sussurro nacque prima delle labbra,\ e senza alberi mulinavano le foglie,\ e coloro ai quali consacriamo l’esperienza\ prima dell’esperienza avevano già i tratti”. Non si può non condividerne la sintonia. Ma, perdendosi in traduzione la rima, che è tutto dell’ottava, queste brevi composizioni, di due strofe di quattro versi, si gustano più per il paratesto, di Serena Vitale, che introduce, traduce, e annota estensivamente. Con l’ausilio delle estese esaurenti letture\interpretazioni\localizzazioni operate da Nadešda Mandel’stam nei tre lavori di recupero e sistemazione da lei dedicati alla memoria del marito, vittima di Stalin - specie delle simbologie, spesso arcane e invece semplici (“tessuto”, “tessitura”, “vela”, “colore”…)
Una breve silloge, di undici componimenti, di due quartine. “Quasi leggera morte”, il titolo, è un emistichio che Vitale trae da un’ottava. Ma opportunamente: questa edizioncina Mandel’štam mise a punto, col lavorio incessante che gli era caratteristico, nei primi anni 1930, della disgrazia politica, prima della sanzione definitiva, con la morte presunta in campo di concentramento nel 1938 - dove le morti non si registravano: nell’Unione Sovietica si spariva e basta. Quattro di esse scritte alla macchia e nascoste in un cuscino, come ricorda Nadešda Jakovlevna: “Nel primo periodo della nostra vita a Voronež”, già confinati, “Osip Emil’evič e io ricostruimmo a memoria i versi degli anni 1931-34.  Nell’estate del ’35 portai da Mosca le minute superstiti e gli «album» che custodivamo nei cuscini. I letti li avevano rivoltati da cima a fondo ma i cuscini, chissà perché, non li avevamo toccati, anche se sono il classico nascondiglio degli oggetti di valore – non a caso durante i pogrom antiebraici li svuotano”. Un promemoria anche di un mondo impensabile, che pure è esistito, in Europa, fino a ieri, che mandava i poeti in manicomio o a morte in contumacia.
Ma non è la denuncia politica l’intento di questo omaggio. Nella ricostruzione appassionata delle brevi composizioni, compresa la travagliata storia del loro recupero, Serena Vitale fa un ritratto ben sbalzato di Mandel’štam, poeta che a torto si trascura. Del suo essere-non-essere, di come e dove nacque e si alimentò la sua scrittura prosastica (e anche poetica), del “Viaggio in Armenia”, di “Conversazione su Dante”,  minutamente precisa e viva, “scientifica”, e del contesto letterario in cui operava, di amici, neutrali (Pasternak) e denunciatori.   
L’ottava, il metro, Mandel’štam considerava “una poesia fallita”. Ma ci si applicò, ci teneva. Per ribadire le due o tre cose per lui essenziali, che dice anche nella coeva “Conversazione su Dante”. Della poesia come tessitura. Come coloritura. Come tessitura variopinta. E come navigazione a vela, con cognizione precisa dei venti, degli aliti di vento. Con echi del pensiero di Bergson, nota Vitale, il  cui corso al Collège de France Mandel’štam aveva seguito nel 1907. Per una poetica, si potrebbe dire, del dissolvimento.
Nei suoi “desideri sproporzionati”, come dicevano gli amici, e “quasi matterie”, nota Vitale, Mandel’štam pretende che il poeta è, sia, anche il suo lettore. O meglio un direttore d’orchestra, che la sua poesia presenta come uno spartito musicale dei sensi, aperto a ogni ricezione. Avendo prima fatto giustizia della sintassi. Mandel’štam non amava lo “stato in luogo”, nota Vitale, l’ablativo, e lo infastidiva la “buddistica quiete ginnasiale del caso nominativo”. Più in generale argomentando contro la sintassi: “È la sintassi a confonderci. Bisogna sostituire tutti i nominativi con dativi, che indichino una direzione. Questa è la legge della materia poetica, mutabile e sempre mutante, che vive solo nello slancio esecutivo”. L’arte legando intimamente alla natura. Nella sintesi di Vitale, “l’arte non imita, non riproduce, la natura; con lei, in un gioioso rapporto sororale, gioca, scambiandosi in continuazione vesti, sembianze. La metafora ritorna metamorfosi (non A che somiglia a B, ma A che diventa B) e l’ingegno spinge «a narrare di forme cambiate in corpi stranieri»”.
C’è molto, curiosamente, Santa Sofia, di cui ora Erdogan ha fatto una moschea, il tempio della cristianità orientale che però Mandel’stam non aveva mai visitato – un’ottava dedicata corre tutta d’un d’un soffio, in un solo periodo. E l’amico Belyi in morte, per sua fortuna (?) di un colpo di sole.
Osip Mandel’štam, Quasi leggera morte, Adelphi, pp. 91 € 10

venerdì 6 luglio 2018

Problemi di base divini - 431

spock


È Dio che ha inventato il mondo o il mondo Dio?

Per superbia – per nobilitarsi?

Per intelligenza – crearsi un limite?

Per avere compagnia?

Se la storia – il progresso – è cristiana, che ci faceva Dio prima, nel mondo e fuori?

O il cristianesimo dopo - è una tappa della evoluzione?

E pensare, è organico o divino?

E come si situa nell’evoluzione?

Come vi si situa il filosofo Heidegger dell’essere-per-la-morte, ma dopo 120 volumi?

spock@antiit.eu

Né Sessantotto né hippie

Il Sessantotto hippie.  Nel viaggio transamericano, al Macchu Picchu. E in quello transeuropeo,
all’India  - in realtà a Katmandù, per il fumo a buon prezzo. Attraverso una storia d’amore, anzi due, di iniziazione, che non sa-sanno di nulla.
Coelho cerca di riparare voltando la narrazione in autobiografia, sotto l’ombrello di san Luca e di Tagore: “Le storie raccontate in questo libro appartengono alla mia esperienza personale”. Ma è un cattivo servizio. Agli stessi hippie, buoni fino al dolciastro, mielosi. Che fa discendere da Mia Farrow e dai Beatles – Mia Farrow, i Beatles?  
Un’eco c’è di A.Ernaux, “Gli anni”, ma appiattita. Con errori. Il viaggio Coelho lega correttamente al pullmino Volkswagen. Ma anche a Frommer, il routard dell’epoca, “Europa con 5 dollari al giono”, e a Pauwels-Bergier, “Il mattino dei maghi”. E chi li leggeva e se ne avvaleva? Non certo gli hippie? Il biglietto del pullman per l’“India”-Nepal, del Magic o Budget Bus, fa costare 100 dollari, poi 75, ma forse da Amsterdam, da Vienna ne costava 30. Bugie e pose si succedono, niente di hippie, né di Sessantotto.
Paulo Coelho, Hippie, La Nave di Teseo, pp.301 € 18

giovedì 5 luglio 2018

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (368)

Giuseppe Leuzzi


La poesia Thomas Jefferson voleva “meridionale”. Viaggiando nel 1787 da Parigi, dove il futuro terzo presidente americano era ambasciatore, per il Sud della Francia e il Nord dell’Italia, così ne scriveva al segretario William Short il 21 maggio: “Ora mi spiego perché non c’è mai stato un poeta al disopra delle Alpi, e perché non ce ne sarà mai uno. Un poeta è una creatura del clima, come un arancio o una palma”. Ciò “dopo alcuni giorni trascorsi sotto un cielo limpido”, commenta l’americanista Sioli.

 

Il Milan cinese ha giocato, grosso, allo scoperto, con più rilanci, e ha perso. Più cinese forse che milanese. Ma ora può contare sullo scudo del Coni e della Federazione Gioco Calcio. Come se fosse una vittima del bluff altrui.

È il potere che fa la verità.

 

Cateno De Luca, personaggio un anno da di questa rubrica,  

http://www.antiit.com/2017/11/a-sud-del-sud-il-sud-visto-da-sotto-346.html

si è fatto sindaco di Messina. Da solo, le due liste d’appoggio non hanno preso il 5 per cento. Dopo 17 assoluzioni, l’annullamento del sequestro dei beni, e una denuncia della Procura di Messina alla Procura di Reggio Calabria, con un pamphlet, “Lupara giudiziaria” , molte preghiere, e una posa seminudo con un pinocchio in mano e il libello nell’altra. Ha vinto al ballottaggio contro un candidato di Forza Italia. Cosa promette De Luca? Un po’ di Dc.

 

Medici e infermieri delle ambulanze a Napoli vengono regolarmente, si dice per dire, sequestrati, picchiati, quanto meno insultati, e rallentati nei soccorsi. Il 118 a Napoli pare sia lento, ma i casi che il “Corriere della sera-Napoli” registra sono di violenza ordinaria, non causata dal ritardo dell’ambulanza. Si può pensare a un’animalità esuberante, che si “libera” nella paura, o nel dolore - una tara. O non è la condizione metropolitana? Napoli è metropoli, probabilmente la sola metropoli in Italia, malgrado le professione d’uso di napoletanità e napoletanitudine, con le insensatezze della vita metropolitana.

 

Angela Salemme, napoletana, 54 anni, due figli grandi, ha deciso di prendere la maturità, e ha studiato tre anni alle serali. Non per uno scopo preciso, perché era l’ambizione di sua madre, che faceva la domestica a ore e amava leggere, di tutto: fare studiare lei e la sorella, orfane del padre. La madre non ce l’ha fatta, Angela lo ha fatto per lei.  

 

La prima “Smorfia”, la trasformazione delle figure del sogno in numeri da giocare al lotto, fu opera del calabrese Rutilio Benincasa, l’“Almanacco perpetuo”. Napoli, 1593.  Poi revisionato da Ottavio Beltrano di Terranova da Sibari, emendato dei dati che l’Inquisizione aveva detto controversi. Per una volta il Sud ha marciato compatto, unito nella lotta.

 

I vivaisti sono in allarme: spesso i fiori italiani finiscono in Olanda, dove vengono lavorati e marchiati e poi rivenduti come olandesi, anche in Italia. È vero, cc ne sono nella piana di Gioia Tauro e in quella di Lamezia, piccole piantagioni, ma recintate e sorvegliate. Per limitare il valore aggiunto? Una produzione di ricchezza al contrario.

 

In Sicilia secondo Pitré l’arcobaleno ha solo tre colori: giallo, rosso, e verde. Non una bandiera italiana un po’ rancida: giallo sta per il grano, secondo il folklorista, rosso per il mosto, verde per l’olio. Dalla prevalenza di un colore sull’altro si ipotizza l’andamento dell’annata.

 

Pirandelliana

Pirandello era di famiglia marinara – “era nato dentro una sterminata dinastia palermitana di gente di mare” - Mario Genco, “I Pirandello del mare e la favola del nonno cambiato”. Almeno quattro fratelli di suo padre Stefano, tra essi il suo mancato suocero Andrea, comandavano mercantili, e molti cugini, naturali o acquisiti, erano ufficiali mercantili imbarcati. Ma nei suoi racconti non ce n’è traccia – nemmeno nelle autobiografie, sottoscritte o mascherate: il mare, quando c’è, raramente, è miasmi e fetori.

 

Si possono scrivere più libri pirandelliani parlando solo di Pirandello. Il nonno paterno di Pirandello, Andrea, è morto di colera, a 46 anni, avendo generato 24 figli. Tutti con la stessa moglie, Rosalia Vella. I Vella erano di Palermo, Andrea un armatore e uomo d’affari di Pra’, Genova.

 

Questo è quanto Nardelli racconta di Pirandello in “L’uomo segreto”, travisando tutti i successivi biografi. Quanto lo steso Pirandello lasciava scrivere di sé, Nardelli essendo un suo protetto, e quasi segretario informale. La storia vera è invece un’altra, che Mario Genco ha ricostruito sui registri dello stato civile. Andrea era il bisnonno di Pirandello. Un genovese di Pra’ emigrato nel 1772 a 18 anni a Palermo, dove a venti aveva sposato Antonina Passantino, di 17, avendone non si bene quanti figli. Il terzo fu Luigi.

 

È Luigi il nonno di Pirandello. È lui che posa Rosalia Vella , con la quale fa 20 figli, non 24. E muore “durante l’epidemia di colera dell’estate 1837”, ma non di colera. Avendo avuto regolare e protratta cerimonia funebre per più giorni, certificata dagli atti comunali. I morti di colera non avevano funerali, non protratti.

 

Il colera quell’anno fu terribile, scrive Genco: “L’epidemia durò centoventisei giorni e uccise più di ventisettemila palermitani”, dei 177 mila che popolavano la città. Tra le vittime 33 medici. Nel corso dell’epidemia morirono almeno tre Pirandello, oltre al nonno Luigi: il capostipite Andrea, una sua nuora, Angela, e un bambino, Giovanni Battista, figlio di Giovanni,  fratello del nonno Luigi.

 

Il nome ricorreva a Palermo, dove si erano insediati già molti genovesi, in numerose varianti: Pirandelli, la più comune, spesso applicata allo scrittore, Perandello, Perrandello, Perendello, Piranelli, Pirandella, Peranelli, Peronello, Paranelli, Parandello, Pisandello, Perrantello. Tutti nomi che Genco può ricondurre a parenti delo scrittore – “e una volta anche Mirandello, su un registro della «Matricola della gente di mare di prima categoria”.

 

Il suocero di Pirandello, Portolano, quando il fisco ingiunse a Pirandello di pagare la tassa sulla dote, fu costretto dallo scrittore, in tribunale, con accorgimento avvocatesco, a ricostituire la dote stessa, che il padre di Pirandello aveva dilapidato.

Pirandello argomentò che non poteva pagare la tassa su un bene di cui non aveva mai avuto il possesso. Era colpa sua, del suocero, continuava l’argomentazione pirandelliana, se la dote si era dissolta, non avendone egli preteso l’intangibilità al momento del conferimento, come la legge prevedeva. Non molto elegante ma furbo. E così il tribunale ingiunse al Portolano il versamento di una seconda dote.

 

Stefano, il padre di Pirandello, ritrovò una sue vecchia fiamma e con lei si deva appuntamento la domenica nel parlatorio di un convento, di cui era badessa una zia dei due. Era un amore giovanile lei era figlia di una sorella di Stefano: una nipote quindi. Ma detta cugina, poiché la differenza d’età non era molta, Stefano essendo stato l’ultimo dei 20, o 24, figli di Andrea. Tubavano imbeccandosi, racconta Pirandello nella novella “Ritorno”, che in questo atteggiamento pare li abbia sorpresi da bambino – così spiegherà al suo biografo accreditato Nardelli.

 

Stefano padre era stato con Garibalni nell’impresa dei Mille, e fino all’Aspromonte, 1862. L’anno successivo aveva sposato Caterina Ricci Gramitto, sorella di un suo compagno garibaldino. Giovanni Ricci Gramitto. Il padre dei due giovani era stato tra gli organizzatori della rivoluzione del 1848-49, che in Sicilia, come in Calabria e a Napoli, fu liberale più che nazionale. Fu quindi esiliato a Malta, dove morì l’anno dopo, nel 1850.

Il nipote Luigi, come già il padre Stefano, l’ex garibaldino, sarà uomo d’ordine, fino al fascismo.

 

Sciascia ha molto scritto di Pirandello. Due raccolte sono intitolate a Pirandello, “Pirandello e la Sicilia” e “Alfabeto pirandelliano”. Con un corredo di innumerevoli riferimenti ovunque nella sua prima opera. A ne parla molto in quanto Grande Siciliano, non amando né il personaggio, né Agrigento e il suo Caos, e neppure la sua opera. L’unico complimento che gli fa, in uno dei tanti saggi della prima delle raccolte, “Pirandello e la Sicilia”, è: “Il carattere originale che muove e spiega tutto Pirandello, è un qualità elementare, molto rara, la più rara: il candore”. Ma è un complimento di Bontempelli, in una dimenticata commemorazione di Prandello il 27  gennaio 1937 all’Accademia d’Italia. Che Sciascia s’ingegna poi a demolire, acculando Pirandello al realismo – come se il realismo (verismo) non fosse, non potesse essere, candido.

 

Ma poi, direbbe Sciascia, non lo dice dopo Bontempelli ma lo sottintende in tutta la sua opera, si è ma visto un siciliano candido?

Sciascia non ama Pirandello poiché ha una visione oscura del mondo, e vuole che gli altri abbiano una visione netta del nostro essere al mondo. Critica – oggi si direbbe - “corretta”. Un anti-Pirandello pirandelliano.

 

leuzzi@antiit.eu

Il Titanic liberale

Il trasporto transoceanico perfetto, la fine della storia, l’età della libertà, e altre assurdità trionfaliste, quando per il naufragio è già avvenuto. Non ci voleva molto per prenderne atto, è l’evidenza. Al comune elettore anche se non alla scienza politica o economica  basta pensarci solo un momento, fuori dall’inebriamento, o dall’ideologia, dall’ode perenne che il sistema si paga. Ma evidentemente ci vuole anche coraggio 
Si dice che non c’è una dittatura. Ma l’ideologia del mercato è micidiale, non si va da nessuna parte remando contro, se non nelle secche dell’anonimato, della disattenzione, dell’isolamento. I media specialmente ne sono infetti, che hanno infettato l’opinione pubblica – o ne sono governati si governa attraverso l’opinione, che il fascismo chiamava propaganda).
Parsi osa l’inosabile: dire la verità del mercato. Di questo mercato, che si regola da sé, per il maggior profitto del potere del momento, recalcitrando a ogni  legge. , da storico delle relazioni internazionali, bizzarramente non fa spazio all’emergere delle potenze asiatiche, Cina, India, delle tigri, dei bric, che sarà  la grande medaglia di questa stagione di liberismo. La globalizzazione è una rivoluzione vera, che moltiplica il reddito e migliora il destino di miliardi di persone. Duratura. Un altro assetto mondiale. Una novità che più dei poteri del mercato renderà arduo un riassetto, nel senso della giustizi sociale per i perdenti posto-e-reddito.
Vittorio Emanuele Parsi, Titanic. Il naufragio dell’ordine liberale, Il Mulino, pp. 219 € 16

mercoledì 4 luglio 2018

Problemi di base grilini - 430

spock


Grillo festeggia a Roma con Raggi. Che cosa?

È talmente felice Grillo con Raggi e il fico Fico sulla terrazza del Campidoglio che viene da chiedersi: i romani perché si lamentano?

Ma perché Grillo vuole gli stadi, con immobili, e non le Olimpiadi?

Più tenerezza o più sconcerto per la mezz’ora di internet gratis di Di Maio per “chi non può permetterselo?

Da dove vengono, dalla luna?

Di Maio vuole anche i dazi: con la sbarra e il gabelliere?


E la pesa pubblica?

spock@antiit.eu

Quando si era diversi nell'unità

“Vorrei vedere Francesco d’Assisi, l’umile amico degli animali,  dopo una notte in un villaggio della Rutenia subcarpatica”, di ebrei poveri, pieno di cimici. Joseph Roth è al meglio nel racconto brene, l’istantanea. Per il senso acuto del semplice, perfino dell’ovvio.
Roth ha qui raccolto una ventina di elzeviri da terza pagina, del decennio successivo alla guerra. Sul nulla: il negozio di coloniali, il secondo (e terzo) amore, le cimici appunto, i ritrovamenti coi compagni di scuola, malinconici, e così via. Con l’aggiunta di una rivisitazione del villaggio dell’infanzia, pubblicata poco prima della fine, stroncato dalla solitudine e dall’alcol. In una prosa serrata, ritmica, veloce – forse esito della traduzione, di Gabriella de’ Grandi.
C’è anche qui il ricordo dell’imperatore. All’uscita dallo Schönbrunn, al mattino, tra la folla che gli fa ala rispettosa, che si è alzata di bun’ora e ha fatto il viaggio da Vienna apposta, per salutarlo all’uscita, “il piccolo cerimoniale austriaco di un’ora mattutina a Schönbrunn”. Di un impero domestico.
Si fa molta ideologia, e quasi scandalo, del rimpianto di Joseph Roth  per il vecchio ordine k.u.k., ma la ragione è semplice: era l’impero di “un imperatore privato”: “Una maestà umana. Si allontanava dagli affari di governo, se ne andava in vacanza l’imperatore. Qualsiasi ciabattino poteva immaginarsi  di aver concesso la vacanza a Sua Maestà”.
La nostalgia è di un mondo integro. Unito cioè e non in armi, diviso, conteso. Di cui lo scrittore ebreo è personalmente singolare testimonianza, nella familiarità col mondo dell’impero cristiano. Di cui tutto fa suo, anche i riti, i santi, le devozioni. Si rimpiange il vecchio impero,la Mitteleuropa, come di un amalgama irripetibile di popoli e di culture. Ma di esse la più sorprendente, più di quella linguistica o delle nazionalità, è la religiosa. Leggere Joseph Roth oggi, che il viso dell’arme di prammatica, quasi un dovere, specie dell’ebraismo nei confronti del cristianesimo, è la sorpresa maggiore.
Joseph Roth, Il secondo amore, Adelphi, pp. 124 € 11



martedì 3 luglio 2018

Letture - 350

letterautore


Castaneda – Il guru delle droghe di mezzo secolo fa, sulla traccia della scomparsa civiltà tolteca, oggi dimenticato ma che a lungo spopolò con i suoi libri di antropologia messicana, era peruviano. Personaggio di cui si fantasticò molto, che non voleva apparire, e fu anche ritenuto “inventato”, dai suoi editori, dopo il successo di vendite a sorpresa della sua prima ricerca. Un grosso volume, “Castaneda Papers”, s’ingegnò di smontarlo, riducendolo appunto a un solo libro, quello  delle prime ricerche sulle proprietà e gli usi delle sostanze allucinogene nel Sud del Messico, che poi i suoi editori avrebbero  replicato per il grande successo del primo. Ma l’uomo esisteva, e scriveva. Fellini lo ha incontrato, e ne parla a lungo in “Imago”, dopo avere tentato invano di ricavare dai suoi racconti un film. Lo ricorda con acredine, per le difficoltà che trovò in questa impresa, compreso un lungo viaggio tra Stati Uniti e Messico che fu una serie disavventure: “Si sono verificati fenomeni strani e prodigi piccoli e grandi”, ricorda: “Sono passati diversi anni dal 1986 e ancora non sono riuscito a farmi bene un’idea di cosa sia davvero accaduto. Forse Castaneda si era pentito di avermi fatto andare sin lì e aveva architettato tutta una serie di fenomeni che mi scoraggiassero”.
L’uomo però esisteva: “Io Castaneda l’ho conosciuto, era seduto là… E a Roma era venuto prima ancora che io lo conoscessi e volessi fare un film su di lui”. Presentato da una signora romana: “Avevo perso anni cercando di prendere contatto con l’editore e l’agente letterario, poi con lo stesso Castaneda”. A Roma avevano discusso su cosa Fellini voleva fare dei suoi racconti: “Quando Castaneda è venuto a trovarmi a Roma, in questo studio”, gli spiegò, sintetizza la sua intervistatrice, “che la matrice degli organi non si trova nel corpo fisico ma nella sua energia astrale, o corpo etereo, e che dunque, in qualche modo, pulsa a pochi centimetri dall’organo stesso”. Insegnandogli “alcuni esercizi per stimolare e guarire i diversi organi (fegato, cuore eccetera)”. Che Fellini provò, senza alcun effetto, di nessun genere.
Può darsi che quello di Fellini non fosse il vero “Castaneda”, ma un furbo profittatore? O che non fosse un antropologo ma un mago? Fellini per qualche tempo gli credette – fino al 1986, come dice. Quando abbandonò l’uomo e il progetto che aveva concepito sui suoi racconti. Irritato dagli “eventi misteriosi” a New York e in Messico che ritenne progettati e eseguiti da Castaneda o dai suoi affiliati o scherani. 

Incipit – “Robinson” lo celebra con Belpoliti: “La prima frase è quella che conta. Lì c’è racchiuso tutto, quello che sarà e quello che non sarà”. Illustrandolo con gli incipit dei cinque candidati finalisti al premio Strega. Che non dicono nulla.

Italiano - Un altro Gramsci ci vorrebbe, l’italiano è ora ostaggio, dopo Manzoni, dei siciliani, benché amabili, Verga, Pirandello, Tomasi, lo stesso Sciascia, retori del pathos, l’onore, la famiglia, i destini dolenti, che nell’isola stonano, altezzosa com’è, crudele, immaginifica. Senza, però, riemerge lo snobbino epidermico, entomologo da circolo Pickwick a Montreux, il retino in mano, per farfalle di cui non sa che farsene. Immemore e distratto.

Jünger  - Una “curiosità da entomologo”, la stessa di Jünger, di Nabokov, rivendica anche Fellini, per una poetica del tutto opposta a quella jüngeriana: estroversa, colorata, espressionista.

Manzoni - Stupefacente è come Manzoni riesca a infiacchire un catalogo spaventoso, di mafia, stupro, aborto, anche in convento, sciacalli nella peste, corruzione della giustizia e della religione, morte, idiozia, putredine, non c’è altro romanzo gotico, nero, che accumuli tanta turpitudine, tanto più per un’anima pia, che si assolve nella Provvidenza, e Dio pretende che lo ascolti e lo aiuti.  

Questo è indubbio, il Miglior Lombardo ha affossato l’italiano. Che da esperto propose dopo l’unità politica, poffarbacco, l’unità della lingua “in tutti gli ordini di popolo”. Con maestri toscani nelle scuole, viaggi delle scuole in Toscana, e in tutte le scuole un vocabolario del “fiorentino vivo”. Dopo aver “risciacquato in Arno” “Fermo e Lucia”, che già era scritto in toscano,  col “fiorentino vivo”. Ora, farsi fiorentini non è una colpa, specie se colti. Ma che ne era del resto dell’Italia, gli potevano obiettare Isaia Ascoli e ogni altro, giù fino a Croce?
Manzoni vedeva l’Italia come la Francia e l’impero romano, attorno a una corte e a una città, e questo, bene o male che sia, in Italia non avviene. Fu ottimo storico, ma non della lingua, che infettò d’insulsaggini, perdindirindina, senza colpo ferire, due piccioni prendendo a una fava, di conserva col ministro Brolio come il vino, ai glottologi dando la baia, che menavano il can per l’aia, di buzzo buono, tra il lusco e il brusco, fino a lasciarli con le pive nel sacco, se non che c’è un limite a tutto, e quel che viene di ruffa in raffa se ne va di buffa in baffa.

Semiologia – Dan Brown, dopo Laurent Binet, “La settiima funzione del linguaggio”, e dopo il suo stesso “Codice da Vinci”, ripropone in “Origin” lo scienziato pazzo, avveniristico e di potere, come semiologo. La semiologia è dunque la chiave per i milioni di copie, dopo il “Codice da Vinci” - o dopo Eco, “Il nome della rosa”.

Seneca – È Seneca che ha dato alla poesia inglese la chiave del suo fascino, attesta Praz, e li ha resi maestri del dialogo, “insegnando loro la brillante tecnica della sticomitia e delle battute brevi”. Ma non per sé: moralista, l’azione fa incidentale, le persone, le cose, la storia stessa, in un mondo senza libertà e senza avventura – prevedibile, alla Manzoni.

Vigna – Era povera al tempo di Jefferson, fine Ottocento, Il futuro presidente americano, il terzo, 1800, fa un periplo delle aree vinicole francesi, Champagne, Borgogna, Beaujolais, nella primavera del 1787, e ne resta desolato: “Quelli che coltivano la vite sono sempre poveri”.

Voce – Negletta, a favore della vista, ha molte proprietà anche taumaturgiche. Quella della “stanza accanto”, per esempio, in Vernon Lee. Theodor Fontane l’orgasmo estendeva alla voce. In “Cécile” fa intrattenere a un vecchio duca e all’infermo nipote una ragazza povera e di poche maniere perché parla e legge con appropriata inflessione di voce. L’ugola può dare acuto godimento. Nel  “Conte Petöfy”, altro romanzo di Fontane, un vecchio conte sposa un’attrice giovane per il piacere di ascoltarne la voce impostata e arguta.
Anche Stendhal godeva nell’orecchio, soprattutto ascoltando la signora Barilli cantare: “Voi che sapete\ che cos’è amore”, dal “Figaro” di Mozart. Era sua convinzione che nella musica “il piacere fisico, che proviamo attraverso il senso dell’udito, è più potente e vicino alla sua vera essenza che non il godimento d’ordine intellettuale”.

letterautore@antiit.eu

Le passioni di Eco, a fuoco lento

Senza parricidio fine della storia? È l’apocalisse che Eco antivedeva nel 2001, a ridosso del G8 di Genova, “entrando in una nuova era in cui, col tramonto delle ideologie, l’offuscamento delle divisioni tradizionali tra destra e sinistra, progressisti e conservatori, si attenua definitivamente ogni conflitto generazionale”. Cosa non buona, che non prelude a nulla di buono: “È biologicamente raccomandabile che la rivolta dei figli”, insomma l’assunzione del proprio destino, “sia solo un adeguamento superficiale ai modelli di rivolta provvisti dai padri, e che i padri divorino i figli semplicemente regalando loro gli spazi di una emarginazione variopinta”, finta? Sarebbe un livellamento, e un girare a vuoto del motore della storia. Eco bonario non ci crede, che conclude: “Forse nell’ombra già si aggirano giganti, che ancora ignoriamo, pronti a sedere sulle spalle di noi nani”.
Il titolo è più classico, sono i nani che vengono sulle spalle dei giganti. Giusto l’epigramma attribuito a Bernardo di Chartres – siamo nel XII secolo: chi viene dopo ne sa di più dei giganti del passato, semplicememnte per potersi issare sulle loro spalle e vederci con più chiarezza e profondità. 
È la lite ritornante sui classici e moderni che Eco riassume nel saggio del titolo, la prima lettura da lui tenuta alla Milanesiana, nel 2001. Altri undici testi, molto illustrati, a sua cura, che arricchiscono e facilitano la lettura, seguono negli anni fino al 2015, sempre per il festival milanese. Sui temi a lui congeniali: la bellezza, la bruttezza, il complesso del complotto (il segreto, le trame, il falso, la falsificazione), e su quelli cari alla ideatrice della rassegna, l’invisibile, l’assoluto, l’imperfezione nell’arte.  Una compilazione postuma, a cura di Elisabetta Sgarbi, la fondatrice de La Nave di Teseo, e della Milanesiana.
Con molta ars definitoria: cosa è paradosso e cosa aforisma – e paradosso logico o antinomia (di cui propone esemplare – ironicamente? – l’incomprensibile “paradosso del barbiere” di Bertrand Russell: “Il barbiere del villaggio è colui che rade tutti gli uomini che non si radono da sé. Chi rade il barbiere del villaggio?”); dire il falso, mentire, falsificare: tutte le forme del segreto. E un curioso corpo a corpo con (contro) Oscar Wilde – di cui non apprezza la paradossalità – acculandolo al lord Wotton del “Dorian Gray”.
Un libro bello. Da gustare con lentezza: le illustrazioni servono anche a rallentare la fluvialità d Eco. Con molti repertori.
Due saggi, “Assoluto e relativo” e “La fiamma è bella” lo stesso Eco aveva pubblicato in una precedente raccolta, “Costruire il nemico”. Su Magritte, “La conoscenza dell’assoluto”, articola il primo intervento: divagazioni. ”Di molte pulsioni il fuoco si fa metafora, dall’infiammarsi d’ira al fuoco dell’infatuazione amorosa”, il fuoco delle passioni, è il tema del secondo. Le passioni il semiologo rivede a fuoco lento. con gradevole ironia – e una traccia di monotonia, l’ironia stanca. 

Umberto Eco, Sulle spalle dei giganti, La Nave di Teseo, pp. 445, ill., ril. € 25


lunedì 2 luglio 2018

Il mondo com'è (346)

astolfo


Apparizioni – Sono sempre più e solo della Madonna, non ci sono apparizioni di altre divinità. La casistica ne è precisa.  Alfonso M. Di Nola, “Lo specchio e l’olio”, ne censisce vent’anni fa 266 fra il 1930 e il 1980, in cinquanta anni. E benché così limitate sono in fase di moltiplicazione. A sette di queste apparizioni la Chiesa, spiegava Di Nola, ha riconosciuto fondatezza “umana”  fra il 1830 e il 1985 – restando impregiudicato allora il caso di Medjugorie. Destinatari delle apparizioni sono negli ultimi due secoli bambini e donne, in genere di famiglia povera, più spesso contadina.

Germania – Ha il vezzo di lamentarsi, non  da ora. E anche di sentirsi vittima. È – era - il paese della caccia alle streghe: almeno la metà dei centomila processi, e delle innumerevoli (milioni) vittime si produssero in Germania. Non in due anni, in duecento. Non all’epoca della selva, nel Cinque-Sei-Settecento.

Non ci sono ricordi belli delle occupazioni tedesche, solo cattiverie e soprusi. Niente monumenti, non se ne fa nemmeno la storia. Anche delle emigrazioni: solo isolamento arcigno, mai una festa in comune.

Giustizia – È cara. Si sa da quando era privata, e quindi era possibile calcolarne i costi unitari. Fino cioè a fine Settecento, quando al giustizia privata finisce per una diversa concezione dell’ordinamento politico, ma già da tempo languiva a causa dei suoi costi. Thomas Jefferson, il futuro presidente americano, ambasciatore a Parigi, viaggiando per il Sud della Francia nel 1787, faceva questo conto di un suo anfitrione, il castellano De Laye Epinay¨”Il signore è responsabile della pace delle sue terre. È  quindi soggetto alle spese per mantenerla. Un criminale processato, sentenziato e giustiziato costa a Monsieur de Laye circa cinquemila livres. La procedura è così dispendiosa per i Seigneurs che essi sono restii a dare corso ai processi”.
Ma la giustizia pubblica costa di meno? Il calcolo del costo unitario di un processo non è possibile, per la moltitudine di essi e la grande varietà tra l’uno e l’altro procedimento. Ma a lume costa anche di più, mettendo nel costo le spese d’indagine, ora anche elettroniche e quindi costose, oltre i tre-cinque gradi di giudizio.

Intelligenza artificiale – Si costituisce un Laboratorio Nazionale di Intelligenza Artificiale e Sistemi Intelligenti, coordinato dal Cini (Consorzio Interuniversitario per l’Informatica), cui faranno capo 600 ricercatori di 40 università, più i centri di ricerca, il Cnr, l’Iti e la Fondazione Bruno Kessler. Uno sviluppo poderoso, per temere il passo coi tempi. Ma è un concentrato tecnologico: l’IA si moltiplica come business, dopo avere drenato molta ricerca per applicazioni pratiche, ancillari – della robotica, che è lo sviluppo dell’utensileria. All’insegna del mercato – l’università Bocconi di Milano, che non fa ricerca scientifica, si è presto dotata di un settore IA, per i possibili suoi sviluppi merceologici. Per questo, per stare sul mercato, con soluzioni nelle sue applicazioni “migliori” di altre. ha bisogno di essere promozionata (magnificata. “risolutiva”). Ma con qualche differenza qualitativa rispetto al passato, a quando si definiva come cibernetica..La guida autonoma è tipico sussidio ancillare – utensile sviluppato.

Si dice una “rivoluzione” e si paragona all’elettricità, al salto di fine Ottocento. Ma ne è uno sviluppo: la “nuvola” può bene scomparire con Google - le aziende nascono e muoiono – o per un corto circuito. black out, fulmine, con tutta la memoria. Senza  contare che, con ogni evidenza, la IA è tutto quello che già abbiamo.

Particellari  - Stanno solo bruciando miliardi? Sono quelli dei sincrotroni e degli acceleratori in genere, da Frascati al Cern di Ginevra, a Grenoble, al  Texas. Alla ricerca ben promozionale della “particella di Dio” e dell’origine dell'universo. Che sono due cose diverse: una sostanza o materiale, un’entità; e un procedimento (reazione). Anzi tre, con la ratio del procedimento. Una ricerca metodologica, che procede per gradi, e una inventio, la scoperta, anche improvvisa o casuale. Entrambi orientati al segreto della vita, o dell’universo, ma concettualmente dissimili e non  complementari – non che se ne sia finora dimostrato un qualche legame. Due mondi, si direbbe, diversi seppure della stessa scienza, la fisica.

È un business, analogo all’IA, nel senso che è parte del rinnovato scientismo, Un positivismo più sofisticato, con la stessa mentalità risolutiva-riduttivistica, solo aggiornato nelle technialities – lavoro di gruppo, pubblicità della ricerca e dei risultati. Ed è solido, dotato riccamente, della ricerca come professione.

La soluzione unica è della vita come dispersione.: “La vita è semplicemente ciò che l’universo crea per dissipare energia”, di cui sarebbe gravido. Ma è di un romanziere a effetto, Dan Brown, “Origin”. Il secondo principio della termodinamica è ancora da spiegare.
E l’evoluzione, è costante e insita nella materia?

Progressismo – Se ne censisce la scomparsa tra i lamenti, come una colpa altrui, senza analizzarne le cause. È la conferma che da tempo era un termine vuoto. Pieno di sussiego tanto quanto senza riferimenti alla realtà. Autoreferente, chiuso addirittura, ogni fenomeno avverso relegando nel populismo. Ma come in un alveo ingiurioso, senza curarsi di identificarlo, che sarebbe chiedersi ragioni o fattori del “populismo”, cioè della propria debolezza o fallimento.
Era un guscio vuoto già ieri, quando dominava, o sembrava dominare. Con Obama, Hollande, la Merkel di sinistra (nucleare, migranti, diritti civili), Renzi, e altri minori in giro per l’Europa. Di colpo sostituiti con politici avversi, tutti quanti - Macron è un falso progressista, Sanchez è ampiamente minoritario. Dissolto, si direbbe, nel trionfo, ma senza traumi: le stesse masse progressiste si sono rivoltate, autonomamente. Senza putsch, colpi  di mano, fake news, piazzate. Spontaneamente e all’unisono, tali e tanti erano e sono le debolezze del progressismo. Mentre ancora non c’è un’analisi, una sola, anche emendabile, dell’insorgenza Trump, in una elezione già segnata, e questo dice tutto dei limiti entro cui il progressismo s è rinchiuso.

Curioso è il passaggio del progressismo sulle barriere del mercato, di cui resta difensore unico. Fino a flirtare con l’antipolitica. Anche ora che il mercato è sconfessato. Un’ideologia e un retaggio non suoi, di cui però si è fatto alfiere. Fino a difenderlo con toni volutamente odiosi, militanti. Per un errore non minore: accularsi alla sua difesa nel nome della modernità, dell’aggiornamento. In Italia anche per ammenda della lunga stagione anticapitalista, perfino antindustriale.

astolfo@antiit.eu

Quando l'Italia vinceva

Una mostra fotografica, con qualche cimelio, di Paolo Rossi e del Mondiale di Spagna nel 1982 – il Pallone d’Oro, la Scarpa d’Oro, il Collare d’Oro, le maglie che il centravanti avrbbe indossato nel Mondiale vittorioso.
Sotto una titolazione paesana, e i toni iperbolici per un personaggio che frequenta i luoghi (la contigua Ronchi), la nostalgia di anni che saranno stati l’ultima primavera italiana. Un nuovo Rinascimento, si diceva. Quando l’Italia era la quinta o quarta potenza economica mondiale. C‘era Pertini. I lvoratori votavano per ridursi la contingenza, per battere l’inflazione. Il Mondiale di Spagna l’Italia vinceva battendo Argentina, Brasile e Germania, niente di meno. Nettamente. E la minaccia sovietica acculava, da sola, al ritiro e all’implosione, schierando gli euromissili.
Poi vennero Soros, e Di Pietro.  
Pablito, great Italian emotions, Fortino di Forte dei Marmi

domenica 1 luglio 2018

Gli Esteri alle Province


A p. 5 il corrispondente da Bruxelles di “la Repubblica” fa un articolo di cento righe su due righe del “Financial Times” in cui, “secondo una fonte diplomatica”, l’Italia non avrebbe ottenuto niente a Bruxelles sull’immigrazione, se non un “lavorando”-
In realtà non si capisce né che cosa l’Italia ha ottenuto né che cosa non ha ottenuto, solo che è un articolo contro il presidente del consiglio Conte. Lo stesso giornale poi, a p. 12, fa un articolo ammirato, se non elogiativo, sul ministro inglese per l’uscita dala Ue, David Davis, che in sei mesi ha avuto solo quattro ore di colloqui a Bruxelles. E questo è provincialismo.
I giornali si dividono in redazioni e servizi: Esteri, Province, Sport, Spettacoli, Cultura, Cronaca, Politiva, Economia, Nera, etc. Nei giornali italiani gli Esteri sono in disuso, non da ora: l’Italia repubblicana è sempre stata provinciale, chiusa su se stessa. Esauriti Trump, le multe e i moniti di Bruxelles, e la maldicenze di “Spiegel”, “Financial Tines” e “Economist” sull’Italia, riprese dalla traduzione che l’Ansa sollecita fornisce, l’agenzia dei giornali italiani, il mondo cessa di esistere per i servizi Esteri dei grandi media – gli altri media gli Esteri non ce li hanno proprio. Si emozionano per così poco – hanno imparato l’inglese da poco?
Che gli Esteri siano i più provinciali nel pur provincialissimo giornalismo italiano è strano. Ma è l’Italia, upside down.


Problemi di base francescani - 429

spock

Perché Francesco si presta ai selfie, nella sala delle udienze, che contratti deve rinnovare?

Trump no, Salvini sì?

Salvini deve finanziare le scuole private?


De Gasperi, Moro, La Pira, Zaccagnini, i nuovi santi devono essere stati democristiani?

Tutti cardinali, è il metodo 5 Stelle?

Il prossimo papa per sorteggio – non sarà il caso la volontà di Dio?

Perché il papa cambia spesso opinione, non è più infallibile?

Perché il papa fa tutto, eccetto che il papa?

I francescani hanno costretto Ratzinger a lasciare,  ma poi hanno fatto meglio o peggio, molto peggio? 

spock@antiit.eu