Giuseppe Leuzzi
Salvini dimette per mafia il sindaco di
Siderno Pietro Fuda, settantacinquenne in politica da mezzo secolo, un Dc che è
stato Forza Italia e poi, con Agazio Loiero, il fondatore del partito
Democratico Meridionale, senatore, presidente della provincia di Reggio C.,
sindaco al suo paese da tre anni con una maggioranza di sinistra, senza
addebiti specifici. Ma forse la politica non c’entra. Fuda ha citato in
giudizio per danno erariale la gestione commissariale, cioè prefettizia di Siderno
precedente la sua elezione. La Prefettura lo ha “sciolto” per mafia. Che
sicuramente c’è, ma dove?
Il ministro dell’Interno è stato eletto
senatore in terra di mafia. Con i voti dei fedelissimi di Scopelliti, l’ex
presidente della Regione Calabria finito in carcere per avere truccato i
bilanci di Reggio quando era sindaco. Uno che era stato eletto a sua volta con
i voti di Berlusconi, ma ora con Berlusconi è in rotta. E dunque?
Però Salvini – è il ministro
dell’Interno, yes – ha sbancato la
Calabria, ottimo. Da solo. Ci voleva un lombardo.
C’è lo Stato dietro la mafia, lo Stato
dietro il terrorismo, lo Stato dietro le stragi, lo Stato dietro la crisi,
interminabile. Forse non è una battuta dire che il problema del Sud è l’Italia.
Quando
il Sud era il Nord
“Quando la sponda ricca del Mediterraneo
era quella meridionale”, spiega Amedeo Feniello, lo storico medievista, su “La
Lettura”. Operosa, ingegnosa, imperialista. È un fatto, nella storia, per più
secoli. Il Sud non è stato un problema fino all’unità. Il Regno borbonico del
Sud era criticato dai liberali a Londra, ma anche i Savoia erano maneschi coi
giovani italiani, e gli austriaci.
Il titolo di Feniello però è riferito al
rapporto col mondo arabo: “Intorno all’anno Mille i viaggiatori musulmani
descrivevano l’Europa come una contrada di genti povere, sporche, incivili.
Mentre il Nord Africa, oggi ribollente di tensioni e ostilità, era ricco
d’ingegni, arte e cultura”. C’è da temere?
La ricchezza in realtà si crea. Con
l’applicazione. Essendo però padroni del proprio destino. Il Sud non può liberarsi dell’Italia e
nemmeno gli converrebbe. Ma liberarsi della cappa mafiosa sì, dovrebbe. Anche
contro l’Italia.
Mater
semper certa
Carlo Macrì racconta al “Corriere della
sera” una favola a Cosenza a lieto dine: ¨Io laureata con mia figlia, affetta
da sindrome di down”, in Comunicazione e Dams, discutendo la tesi lo stesso
giorno.
Poiché il giornale, per acume promozionale, vuole
pagata la lettura in archivio, ve ne sintetizziamo la storia. Loredana
Ambrosio, che a Cosenza è funzionaria in Confartigianato, ha seguito la figlia
Francesca Pecora in tutti gli studi (“mai avuto bisogno dell’insegnante di
sostegno), fino alla laurea. Condividendo gli interessi della figlia, fino alla
passione per il teatro, la danza, il cinema, al punto da rifare l’università
insieme con lei, fino alla laurea: “Lo studio per lei è stato una sicurezza”.
Poi si dice il familismo.
Quello dei brutti, sporchi e cattivi sarebbe brutto lo stesso, come ogni cosa
che loro toccano.
…et
non
“La scrittrice, nata a Reggio Calabria nel
1978 ma romana d’adozione…”,
“Corriere della sera”, 6 agosto. La scrittrice si è fatta esorcizzare? O è
pregiudizio redazionale?
Martedì Filippo Tortu, figlio di
Salvino, oro sicuro nei 100 m. agli Europei di Berlino, è “l’atleta milanese” e
“il Pie’ Veloce brianzolo”. Mercoledì lo stesso Tortu, svogliato quinto, è “di
Tempio Pausania”.
Vanno molto le origini, che combinate
con l’antropologia che si vuole applicata al Sud fanno stato di una sorta di mafia
congenita. L’origine della camorra Pasquale Villari, lo storico napoletano
maestro di Salvemini, unitarista convinto e anzi entusiasta, poneva nelle
“Lettere meridionali”, la seconda serie, del 1876 (la prima è del 1862, di
lettere pubblicata sulla “Perseveranza”, giornale di Milano…) poneva
nell’unità, per come si era conclusa. Villari riporta l’origine della camorra all’abolizione del
feudalesimo e all’unificazione. In questo caso nell’uso spregiudicato dei
camorristi come gestori dell’ordine e del commercio da parte di Liborio Romano,
il ministro borbonico dell’Interno passato con Garibaldi, e dei nuovi
amministratori. E nell’abbandono a se stessa della plebe da parte dello stato
unitario. Specie con la manomissione della manomorta, i beni che si lasciavano
in eredità agli enti ecclesiastici perché
provvedessero agli indigenti.
Machionne era abruzzese, è emigrato con
i genitori quando aveva quattordici anni. È l’unico punto della biografia che
non si rileva – una biografia ricca, molto, ma non molto variata, fissabile in
tre-quattro punti. Se fosse nato e cresciuto, e avesse fatto le medie, poniamo,
in Lombardia, non lo avremmo saputo? Tutti i suoi compagni di classe. Tutti i
suoi vicini, i parenti.
L’odio-di-sé
musicale
Ancora nella passata legislatura,
presidente della Camera Laura Boldrini, l’orchestra di fiati dei ragazzi di
Laureana di Borrello, 6-20 anni, era stata invitata a partecipare a un concerto
nella Sala della Regina. L’invito poi decadde, si disse, su informative dei
Carabinieri che riscontravano parentele di qualcuno dei ragazzi con gente “in
odore di ‘ndrangheta”.
Successivamente l’accusa decadde e il
concerto, si disse, era stato annullato per l’indisponibilità della sala. Che
pensarne? Che sicuramente qualcuno dei ragazzi era imparentato con gente in
odore di ‘ndrangheta, nei paesi è così. Se le gente “in odore” venisse
perseguita e condannata, o assolta, la ‘ndrangheta non sarebbe così
inesorabilmente contagiosa.
Qualche mese dopo, nei dibattiti estivi,
una tre giorni 19-21 luglio di “Gente in Aspromonte” organizzata dalla giunta
Dem della Regione Calabria a Africo vecchio, la storia è ripresa da Mimmo
Gangemi: i Carabinieri “in due diversi riscontri” esaminano “le parentele di
ogni singolo componente della banda” e trovano “l’odore di ‘ndrangheta”. Ma la
giornalista Mediaset Valentina Loiero, figlia di Agazio, giornalista e presidente
della Regione Calabria: “Sicuramente è arrivata quella informativa, è chiaro
che è arrivata. Ma non qualcuno, erano tutti, tutti. Io ti farei dire cosa mi
disse il prefetto di Reggio”. Tutti, tutti.
Una banda – non musicale - di teen-ager: vogliamo battere le paranze
di Saviano? Fare musica non è la stessa cosa che sparare, ma si vede che la
‘ndrangheta nel suo monopolismo si è data ora agli ottoni.
Il prefetto di Reggio, che ha già a
Ferragosto il record annuale di scioglimenti di consigli comunali per mafia, è
lo stesso denunciato da Fuda per danno erariale – forse non era lo stesso del
danno presunto, i prefetti cambiano, ma la prefettura è immutabile.
Il
pranzo di Pasquale
Bruno De Stefano ha fatto un grosso
lavoro, raccogliendo le biografie minuziose, una ventina di fitte pagine
l’uno, di 23 boss, di camorra,
prevalentemente, mafia, ‘ndrangheta e Sacra Corona Unita, “I boss che hanno
cambiato la storia della malavita”. Cambiato no, ma certo non c’è limite al
peggio. “Da Raffaele Cutolo a Totò Riina, le storie di tutti i criminali che
hanno tenuto sotto scacco l’Italia”, continua il sottotitolo. Questo è vero, da
ogni punto di vista, che i criminali hanno tenuto sotto scacco l’Italia.
Di uno di essi, Pasquale Galasso, un
ricordo personale ricorre, raccontato in questa rubrica
il 13 dicembre 2015
Sulla spiaggia di Roccella Jonica, in un
lido chiamato “Dal naso al cielo”, letterario (è titolo di Pirandello), all’ora
di pranzo, su una duna incombente un signore pasteggiava solo, massiccio visto
dal basso. Corretto in camicia, scuro di pelle ma non abbronzato. Che a tratti
emetteva suoni rauchi forti, duri. Sembrava non guardasse nessuno, ma a ognuna
delle sue ejaculazioni un movimento inquieto si produceva a una tavolo in
basso, un tavolino non apparecchiato, da bar. Dove quattro donne era come se ne
accusassero ricezione: ogni volta si agitavano in conciliabolo, poi l’una o
l’altra si alzava, il viso tirato, e scompariva, riappariva, scompariva di
nuovo. Poi tornava. A ogni urlo lo stesso sommovimento, come una reazione
nervosa. Quattro donne in bikini, nerissime di tintarella, non parenti, chissà
perché davano netta questa impressione, non più giovani ma ben tenute, anche se
si muovevano lente, e quasi piegate, con la borsa attaccata alla spalla. Di cui
non si seppe che pensare, in assenza di spiegazioni dell’imperturbato gestore
di “Dal naso al cielo”, o come si chiamava il lido.
L’uomo, che sembrava conosciuto, poi si
rivelerà sui giornali Pasquale Galasso. Le donne dunque le poliziotte di
scorta, che lo assistevano durante il pasto. Piegate dalle armi che portavano
nei borsoni. Quattro della vicina caserma di un reparto speciale antimafia di
Polizia, aperto in un grande edificio nei pressi della spiaggia. Un reparto che
serviva anche, evidentemente, ai poliziotti e alle poliziotte per farsi un po’
di mare nel tempo libero. Questo nel 1997, o 1996. Pasquale Galasso si era
pentito, ma ancora non si sapeva.
Di un altro capo camorrista censito da
De Stefano, Carmine Alfieri, quello
molto devoto, con angoli in casa dedicati a immaginette di madonne e santi, si diceva in
Romania che fosse un frequent flyer,
un viaggiatore frequente tra i due paesi. Lo dicevano i
giovani accompagnatori in occasione di un’intervista importante con l’allora
presidente Iliescu, che per candidare la Romania alla Ue cercava il sostegno
dell’Italia - e lo ebbe. Erano giovani dei servizi segreti: lui non faceva
mistero del suo ruolo, lei era giovane, bella, poliglotta, “figlia di
diplomatico”, come occorreva a tutti i giornalisti che lavoravano al di là
della cortina di ferro, solo da poco demolita. Era la primavera del 1993.
Alfieri De Stefano rappresenta come “’O
‘ntufato, cioè l’arrabbiato”, con un’espressione sempre torva. “Taciturno,
riflessivo, affidabile”, è quello che portò alla malavita Galasso, in carcere e
poi fuori. Galasso era di buona famiglia, figlio di un ricco concessionario di
automobili, studente di medicina, uno che aveva a disposizione una Porsche, e
una Ferrari 380 GTS. In Porsche, racconta De Stefano, fu soggetto a un tentato
rapimento, mentre viaggiava con la sorella Consiglia. Tornavano da un notte
fuori con gli amici. Pasquale aveva vent’anni. Dapprima pensa che i tre figuri
armati vogliano la macchina, poi capisce che è un rapimento di persona.
D’improvviso si attacca a uno dei tre, gli prende la pistola, si mette a
sparare a caso. Due dei tre muoiono, il terzo riesce a scappare. È l’inizio
della fine. Il padre lo fa difendere da Giuliano Vassalli e Vincenzo
Siniscalschi, i migliori su piazza, ma i dieci mesi di carcere preventivo lo
macchiano per sempre, tra Cutolo, gli Alfieri, i Moccia, gli Zaza e altri camorristi.
leuzzi@antiit.eu