Il comunismo di Marx “ha
sempre lottato per l’utopia senza mai rinunciarvi”. Ed eccoci qua, alle prese
con questo comunismo, trent’anni dopo la caduta del regime sovietico. In Cina
ben al governo, in Vietnam, forse a Cuba, ma anche altrove nei discorsi e nelle
idee.
“Una rassegna”, dice l’autore
questa “fenice Marx”, del postcomun0simo. Di alcune posizioni intenibili del
post-comunismo - non postmarxismo, non siamo al post: Asor Rosa e poi, su un
altro livello, Antonio Negri, Jean-Luc Nancy, Giorgio Agamben, Alain Badiou.
Sviluppata sul nocciolo di ricerca proposto dieci anni prima, in “aut-aut” nn.
271-271, 1996, “Comunismo come supplemento d’anima?”.
De Benedetti è arrabbiato. E
il lettore con lui. Apre i capitoli all’insegna del pop, i Beatles, gli Arena,
Mogol e Battisti. In antitesi – o no? – col trattato postcomunista di Negri,
“Impero”, che termina appaiando san Francesco e le “posse” – si spera quelle
musicali. Ma il panorama è sconfortante . La trattazione, benché datata, è purtroppo
sempre attuale: i quindici anni trascorsi dacché l’opera è stata pubblicata non
hanno migliorato il postcomunismo. Non sembra vero, col populismo trionfante,
in Europa e nelle Americhe, a Sud e a Nord, a destra e a sinistra, ma il populismo
ne è una derivate, oggi ignorata, ma consistente, nelle determinazioni di voto -
in Italia in Toscana, in Emilia-Romagna e nelle Marche, e nel “vaffa” di
Grillo.
Di Marx ce n’è più d’uno
La storia del comunismo ancora
non si è fatta, in Russia e fuori. E della critica si è svuotato pure il
termine, oltre che la funzione, lo schieramento si dissolve solo un po’, per
ragioni anagrafiche. Piuttosto che analizzarsi criticamente, il postcomunismo
si fa furbo. I filosofi “si sono rilevati ancora più restii degli storici a
prendere in considerazione qualcosa come una presunta «lezione dei fatti»”. I
filosofi “di lingua italiana”. Ma come parte della “koiné ermeneutico-heideggeriana”, di una sua lettura “quanto meno
sbrigativa”, e “in grado di vanificare qualsiasi «fatto»”, di “dissolverlo in
un «conflitto delle interpretazioni»”, pretestando nessuna verità possibile. Fino
all’ineffabile Derrida, che sempre salva capra e cavoli – “di Marx ce n’è più di uno, deve essercene”.
Mentre, è evidente, il
comunismo avrebbe bisogno di misurarsi col sovietismo, con la sua pratica
trucida e fallimentare, anche al fine di ricostituirsi o meglio definirsi. Ma
non se ne può parlare male, se non di qualcosa di remoto e a noi ignoto – a
noi, quelli che lo hanno praticato una vita. Al centro della trattazione si
ripropone così “la capacità inedita del post-comunismo di entrare in rapporto
con tutto quanto possa servire di volta in volta alla costruzione non tanto di
un’alternativa realmente percorribile
volta al miglioramento delle condizioni sociali dei più, quanto di alimentarne
le speranze o quantomeno di gestirne il rapido trapasso da aspettativa a
disincanto, prolungando indefinitamente quella che si potrebbe chiamare la
dimensione adolescenziale dei corpi sociali”. È il “vaffa” di Grillo che
spopola. De Benedetti ci aggiunge i “bamboccioni”: “Il post-comunismo vive una
fase molto simile a quello che accade nelle famiglie di oggi, costrette o per
convenienza o per mancanza di alternative
praticabili, a prolungare la giovinezza dei figli in uno spazio
indefinite fatto di attese e delusioni”.
Sotto al chiesa di san Paolo
Di fatto, “una volta venuto
meno al comunismo quel tanto di principio di realtà rappresentato dal socialismo
reale, lo scatenamento della fantasia sembra non avere più limiti”. De
Benedetti ne propone gli esempi più notevoli, di maggior richiamo. Ma più che
della fantasia lo scatenamento sembra dell’insolenza: “Il comunismo è rimasto,
per questa galassia culturale immensamente influente, l’orizzonte tuttora
imprescindibile di ogni buona azione, di ogni buona intenzione, che non è mai
tale se non si referenzia, in ultima analisi, ai valori, agli stili e alle
promesse che il comunismo stesso ha alimentato”, il comunismo reale, il sovietismo.
Il meccanismo è semplice: “Le società dell’Est sono crollate non a causa dell’insostenibilità
del comunismo, della sua impossibilità ‘tecnica’ ed economica, ma, al
contrario, perché in quell’esperimento vi era troppo poco comunismo, anzi non ve n’era affatto”. La
continuità è peraltro, va aggiunto, nella lingua di legno – che purtroppo si
riflette anche nella trattazione di De Benedetti.
Non dire sembra l’imperativo.
Anche a costo di dire scemenze. Di Negri con san Francesco affiancato alle “posse”
per il comune spirito di comunità. O di Badiou, con Agamben al seguito, che
rifanno la comunità di classe con san Paolo e il comunitarismo bimillenario
della Chiesa – e a De Benedetti è mancato Tronti, che il pedigree ha
perfezionato ad altezza liriche – “Il nano e il manichino”. Agamben è anche uno
che introduce “Al di là dei diritti umani”, uno dei saggi di “Mezzi senza fine”, 1996, con
“prima che si riaprano in Europa i campi di sterminio (il che sta già
cominciando ad avvenire)”. Dopo che si sono chiusi i campi di sterminio
comunisti?
De Benedetti affronta il
postcomunismo sul piano della riflessione: “Perché un ideale politico come
quello comunista sembra sopravvivere alla severa confutazione della storia”. Il
comunismo di Marx, che a differenza del summum
bonum di sant’Agostino si vuole di questa terra, è il tema del libro. Scandito
attraverso l’analisi di cinque opere, dei cinque post-comunisti citati - con
Derrida ghignante, attorno, sopra, e sotto. Cosa voleva Marx, e cosa è o può
essere la sua critica (filosofia). Ma inevitabilmente costeggia la scena culturale, che è
dominante – il pensiero è scarso, il potere vasto. Si veda all’inizio, la
rozzezza del “pensiero politico” di Asor Rosa nel postcomnista “La guerra”. Uno
che non ha letto il Rapporto Krusciov, 1956, non sa di Ungheria, 1956, né di
Praga, 1968, del Muro a Berlino, della Polonia, delle fughe, dei manicomi. E
nemmeno del socialismo, la “transizione” forzata di Marx, che in Althusser è
“una merda”.
Agitatore politico
Marx è certo stato un
filosofo. Ma a leggerlo è un agitatore politico. Non un politico, se non di partito:
fazioso, un agitatore. Marx è diventato un filosofo dopo Lenin e l’Ottobre
sovietico, dopo il loro fallimento, la storia di una catastrofe, di una serie di
catastrofi. Basato su una nozione, la classe, strumentale, puramente agitatoria.
Non definita nemmeno. Marx ne parla al libro III del “Capitale”, svogliato e
non concluso, dopo due libi incentrati sul “conflitto di classe”,
Sterminate trattazioni Lenin
ha seminato, che la sapiente propaganda del Komintern ha fatto germogliare
ovunque – per quanto: quanto Marx Gramsci, per dirne uno, ha letto e ponderato?
Ma per ciò stesso, per restare “esornativo”, soprammobile, come lo dice Croce, è
diventato filosofico. Una delle intuizioni più brillanti della trattazione di
De Benedetti. Croce porta a un grosso equivoco, spiega, attribuendo “carattere
ornamentale”, nella “Storia dell’Europa”, alle tesi massimaliste del congresso
socialista di Erfurt, 1891: avalla di fatto il massimalismo stesso. Impianta e
radica - nella “storiografia del comunismo patrio” – “una lunga stagione di
equivoci e fraintendimenti intorno alla portata e al ruolo del comunismo nella
cultura italiana che tenderà ad ascriverlo alla tradizione dell’umanesimo
italico, sottovalutando gli esiti devastanti, proprio a fronte di quella
tradizione, ottenuti nella sua realizzazione pratica in porzioni significative
del continente europeo”. Portando ad esso l’adesione del “ceto medio-alto
influente” – a differenza, si può aggiungere, di altri paesi europei, la
Francia, la Germania, la Gran Bretagna. A un comunismo avulso dalla realtà, che
è solo un lavacro culturale, e uno zoccolo duro di buona coscienza.
Ma, poi, lo stesso De Benedetti
trova che il comunismo, che comunque va fatto risalire a Marx, è all’origine
una filosofia. Per programma, e per la ragione antica e seminale, all’origine
dell’“Occidente”, che Taubes rilevava, “Messianismo e cultura”: Marx introduce
per primo “una promessa di salvezza”, grazie a una verità che “non resta
incarnata esclusivamente in una teoria accessibile solo a pochi nell’inattività,
ma, attraverso la prassi della storia, diventa una possibilità per tutti”. O
del comunismo, anche, come religione - prima dell’attendamento sotto san Paolo.
Una denuncia giusta, da critico
culturale pacato, senza eco. C’è un social
scientist, accreditato, ci dovrebbe essere un cultural scientist. Che però, ceto, è abito ingrato: è anticonformista
e porta all’isolamento. Essere nel giusto è un colpa, c’è poca onesta e molta
malafede nella cultura – presunzione, opportunismo, faziosità. La storia del
dopoguerra in Italia e in Europa, la storia della Prima Repubblica in Italia, e
anche della Seconda, non ne dovrebbe fare
a meno, della critica culturale. Anche perché la sua assenza si è tradotta, si
traduce, senza anticorpi, senza critica, in ritardo economico e sociale. Oggi
si direbbe anche politico: l’implosione del comunismo non ha cessato di fare danni.
L’eredità resta pesante. Specie in Italia.
Riccardo De Benedetti, La fenice di Marx, Medusa, remainders,
pp. 163 € 6,25