Alberi – C’è una ripresa della “difesa
degli alberi” anche della letteratura, come era avvenuto in passato. Di cui lo
storico Alain Corbin ha fatto una rassegna in “La douceur de l’ombre”, di
“tutti quelli che hanno saputo «vedere l’albero»”: Orazio e Virgilio, Ronsard e
La Fontaine, Roussea, Goethe, Novalis, Chateaubriand, Hugo, Proust. Yves
Bonnefoy, il grande poeta recentemente scomparso, ottimo italianista tra
l’altro, ne era appassionato. La celebrazione più appassionata è dello
scrittore che meno si vede nella natura, Philip Roth. Il suo protagonista di
“Pastorale americana”, un ricco, bello, fortunato imprenditore, a un certo
punto si accorge di possedere degli alberi: “Io posseggo quegli alberi”, riflette degli alberi nel giardino di
casa. Lo trova “stupefacente”: “Fu più stupefacente per lui possedere alberi
che possedere fabbriche”. W
“sconcertante”: “Era sconcertante possedere
alberi – non erano posseduti al modo come si possiede un’impresa o una casa.
Semmai, erano tenuti in affido. In affido. Sì, per la posterità”.
Bovary – Ma la sua colpa è la
lettura: è una che s’immagina cose leggendo. Flaubert aveva in odio anche la
lettura? Aveva tendenze suicidarie, se poi sono le donne che leggono i romanzi
– o come dice Vargas Llosa “consentono di scrivere e vendere romanzi”.
Un personaggio adorato dalle lettrici
femminili, ma uno sbocco di acidità. Opera di uno scrittore parecchio misogino.
Che le donne frequentava al bordello, e sulla carta senza compassione e anzi
cattivo.
Complottismo - “The Nation” passa in rassegna le mostre
di New York, singolarmente dedicate in gran numero in contemporanea al complottismo.
Dal Metropolitan Museum a molte gallerie d’arte. Scoprendo che il complottismo
del lungo dopoguerra è di sinistra, dei media, gli intellettuali e i politici
di sinistra.
Il sospetto è storicamente di destra, Eco ne ha fatto ripetuto
inventario, dal “Pendolo di Foucault” al ““Il cimitero di Praga” e a “Numero
zero”, l’ultimo romanzo. Se ne è prodotto molto a partire dal primo Ottocento,
contro la rivoluzione francese, attribuita a questa o quella setta, loggia, potenza
eccetera - gesuiti compresi. Ma era in origine proprio liberale, e contro i
gesuiti. Contro il “complotto gesuitico” – quello proverbiale, il “Protocollo
dei savi di Sion” è ricalcato sui tanti “complotti gesuitici” di
centocinquant’anni prima.
In
America la sinistra non ha trovato di meglio, dai Kennedy in poi: mafie, russi,
cinesi, social, fake news, hacker. Tutto pur di non confrontarsi con la realtà,
che la stessa America agisce – quella che conta, la spina dorsale. “The Nation”
curiosamente non fa il caso di Putin che avrebbe ordito l’elezione di Trump, il
“Russiagate”.
Frantz Fanon – Autore di culto del
Sessantotto, per il lato liberazione del Terzo Mondo, lo psichiatra scrittore
francese della Martinica, nonché stratega della lotta anticoloniale in Algeria,
è sarcasticamente preso a partito da Philip Roth in “Pastorale americana” come l’influencer del terrorismo americano post-68,
dei Weathermen, le Pantere Nere e altri gruppi. Lo Svedese, il protagonista
della “Pastorale”, riflette che l’adorata figlia divenuta terrorista non ha più
pensiero per sé, i genitori, la casa, per le persone che uccide, a caso, “quello
di cui lei si preoccupava era l’Algeria. Lei
amava l’Algeria”. E l’Algeria di Fanon lo scrittore fissa in un lungo passo di
“Per la rivoluzione algerina”: “Dev’essere costantemente tenuto a mente che la
donna algerina impegnata apprende insieme il suo ruolo come «una donna sola per
strada» e la sua missione rivoluzionaria istintivamente. La donna algerina non
è un agente segreto. È senza pratica, senza istruzioni, senza confusioni, che
va fuori in strada con tre granate nella borsa. Lei non ha la sensazione di
giocare un ruolo. Non ha un personaggio da imitare. Al contrario, c’è un’intensa
drammatizzazione, una continuità tra la donna e il rivoluzionario. La dona
algerina si erge direttamente a livello della tragedia”.
Negli Usa Fanon era morto nel 1961, in
un estremo tentativo di curare la leucemia, dopo un ricovero non risolutivo in
Unione Sovietica. Gli scritti di Fanon, “Pelle nera, maschere bianche” e i
postumi, “I dannati della terra”, “Per la rivoluzione africana”, pubblicati a
cura di Sartre, sono sempre riediti. Fanon è uno dei pochi autori
terzomondisti, probabilmente il solo, ancora stabilmente in edizione, anche in italiano
e in inglese.
Fellini – Era un malinconico, non
zuzzurellone quale sembra, e non sguaiato. “Confuso e volgare” era il mondo che
vedeva, l’Italia del dopoguerra e del boom. È il ritratto che ne fa Mereghetti
su “Liberi tutti”, il supplemento del “Corriere della sera” – non ce ne sono
stai altri per i 25 anni della morte. Col sorriso, ma retrattile, introverso. Anche
perché si sapeva non “in linea” – il neo realismo imperante non gli perdonò “La
dolce vita”.
Litote – “Gentile civilissima figura” una volta – “questa
lirica non è malvagia” – diventa “ferale” se ripetuta. Gadda bolla con durezza
la doppia e triplice litote - quella, per capirci, di cui si compiacciono i verbali di polizia e i
giudici - nelle “Norme per la redazione di un testo radiofonico”: la frase del tipo “non
è impossibile che non sia avvenuto…”, per dire che “forse è avvenuto”. Anche per una ragione pratica, oltre che
di verità degli assunti, spiega, pratico di analisi matematiche: “Una
doppia litote è, le più volte, un problema di secondo grado. Difficile risolvere
mentalmente un problema di secondo grado, impossibile risolvere un problema di
terzo grado”.
Pasolini – “Se ci fossero stati i
social, credo che lui sarebbe stato su Facebook”, Michela Murgia, “la
Repubblica” dell’altro giovedì. O non li
avrebbe condannati? Pasolini era un moralista più che un esibizionista – un
esibizionista di moralismo.
Era un tuttologo, anche lui? Non da
talk-show, in tv non rendeva.
Remake – Da “Profumo di donna” al
“Suspiria” di Amazon-Guadagnino, è più spesso, se non sempre, un flop. È anche inevitabile
che lo sia, si vuole replicare un grande successo, che per definizione non è
replicabile, poiché nel successo confluiscono degli imponderabili. Ma, specie
al cinema, che pure implica sempre grossi investimenti, è privilegiato, rubare
un soggetto e anche la sceneggiatura.
Tucidide – È stato tradotto da Hobbes
per la prima volta dal greco, nel 1629, direttamente in lingua “volgare”, in
inglese. Prima circolava la versione latina di Lorenzo Valla a Firenze, 1452,
commissionata dal papa Niccolò V, nel quadro del suo progetto di ricostituire i
testi antichi. Altri progetti fiorentini di traduzione in latino prima di Valla
erano finiti nel nulla. Leonardo Bruni in particolare rifiutò di occuparsene, protestando
che avrebbe dovuto passare troppo tempo sull’originale greco. Valla ci impiegò
due anni, ma produsse un’edizione annotata che fece testo su Tucidide per
molti secoli.
L’originale greco fu pubblicato da Aldo
Manuzio a Venezia nel 1502. Adattamenti in lingue “vernacolari”, più
spesso di passi, furono eseguiti sulla traduzione di Valla. Quella francese si
segnala, nel 1527, a opera di Claude de Seyssel, perché fu stampata in ben
1.225 copie. Tucidide era entrato dopo Valla nella tradizione umanistica. Prima
la storia era quella di Plutarco e di Erodoto.
Pure la traduzione di Hobbes, allora
sconosciuto segretario di William Cavendish, conte di seconda generazione, e
alla sua prima opera, ebbe successo. Tre riedizioni seguirono, da lui curate. Grazie
alla sua provvida avvertenza iniziale, che le storie di Tucidide aiutavano a comprendere
il momento attuale in Inghilterra. Hobbes dichiarava anche di avere condotto la
traduzione dal greco e non dal latino o altre lingue, con il supporto di dizionari
e altri testi di riferimento, basandosi sulla migliore edizione del testo greco disponibile,
quella di Emilio Porto a Francoforte nel 1594. “Nel 1658 William London, un noto
librario di Newcastle, inserì gli Eight
Bookes (di Tucidide) all’interno di un catalogo che raccoglieva
le opere da lui giudicate più vendibili” (Luca Iori, “Thomas Hobbes traduttore
di Tucidide”).
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