sabato 15 dicembre 2018

Il danno erariale dei fake trial

Requisitoria di Galli della Loggia sul “Corriere della sera” contro il processo fiorentino a Aldo Schiavone e al suo Sum, ora assolti, dopo dieci anni. Sum sta per Istituto italiano di Scienze Umane, per dottorandi, per un dottorato europeo, con i centri di eccellenza di Parigi, Londra e Francoforte. “All’idea” di Schiavone, ricorda Galli della Loggia”, “approvata e finanziata dal ministro Moratti, caldeggiata dalle due municipalità di Firenze e Napoli che misero a disposizione entrambe due sedi prestigiose con il relativo arredo, sostenuta da alcune prestigiose sedi universitarie come Bologna, la Sapienza, la Federico II, Pavia, e da docenti di vaglia come Umberto Eco e Massimo Cacciari, per citarne solo un paio, arrise una rapida fortuna”. E un’altrettanto rapida liquidazione.
Lo storico usa parole forti. Sotto l’impulso di Fabio Mussi, ministro dell’Istruzione “molto di sinistra “ – Schiavone è di sinistra, presidente a Roma per molti anni del Gramsci, ma, si vede, non abbastanza – “magistrati di Firenze, forse addirittura uno solo (è uno solo, Giulio Monferini, n.d.r.), chissà, ma di certo assai sensibili o sensibile all’ambiente cittadino, alle voci, alle denunce a mezza bocca — del resto non c’è l’obbligatorietà dell’azione penale?; e così dunque parte l’indagine sulle malefatte che si anniderebbero al vertice del Sum.
“È un’indagine in grande stile: perquisizioni, intercettazioni telefoniche, microfoni disseminati dovunque, interrogatori stringenti del personale amministrativo, minacciose convocazioni notturne nelle caserme della Finanza. E alla fine il rinvio a giudizio per il rettore dell’Istituto, Aldo Schiavone, sotto una sfilza di accuse infamanti: peculato, abuso in atti d’ufficio, divulgazione di segreti d’ufficio e chi più ne ha più ne metta. Segue l’abituale linciaggio mediatico…”
Quattro anni di indagini, quattro di processo in Tribunale, e ora in Appello l’assoluzione, su richiesta della Procura generale. Dopo una prima condanna del Tribunale fiorentino per la “sindrome Marino”: spese non adeguatamente giustificate per pranzi di rappresentanza – il fake trial già sperimentato dal Pd a Roma per proteggere la corruzione. Ma dov’è il danno erariale: nei pranzi non giustificati, o nell’uso per quattro anni della Guardia di Finanza, del personale e degli apparati, per (non) scoprirle - senza contare gli anni lavoro della Procura è del Tribunale, quelli ormai sono un tassa, non di scopo, a perdere? A uso magari di finalità corruttive.
Sicuro è infatti il danno all’università e alla ricerca. Il Sum è stato inglobato, e spento, dalla Normale di Pisa, gli “ambienti fiorentino-pisani” invidiosi cui allude Galli della Loggia – Mussi, di Piombino, è pisano di adozione. Cioè, la Normale si è presa i fondi del Sum. Senza giusticativi.


Il Medio Oriente è russo


Una novità assoluta si sta confermando in Medio Orente: il patronato russo. Putin è il playmaker. In Siria è arbitro e parte vincente. In Iran e in Turchia è la potenza di riferimento. E con l’Arabia Saudita gestisce il mercato mondiale degli idrocarburi. Senza dispiacere a Israele. Vincitore by proxy anche nello Yemen, dopo la Siria. Il Senato americano, votando contro il sostegno all’Arabia Saudita nello Yemen lascia libero campo all’Iran, armato e protetto da Mosca.
L’unico fronte su cui l’Occidente ancora confronta Mosca è l’Ucraina, ed è debole. Ancora di più, prevedibilmente, dopo le elezioni a Kiev, a motivo della corruzione, una desovietizzazione interminabile.
L’assassinio del giornalista Kashoggi ha ulteriormente allontanato gli Stati Unti dalla gestione del Medio Oriente. In un’area da “vergini offese” che non fa giustizia al giornalista assassinato e non consolida ma indebolisce l’egemonia americana. La partita è ancora in sospeso: l’Arabia Saudita, mentre si regola per gli idrocarburi con Mosca, fa shopping di armi negli Stati Uniti. Ma le novità ci sono già, e forti.
Quello che non era riuscito a Caterina la Grande e ai successori, contenuti dall’impero ottomano e poi dall’Inghilterra, è un dato di fatto, senza proclami, di Putin: una sorta di imperialismo grigio, non pirotecnico, non declamatorio, ma vigoroso e rapido. Vecchio stile anche, non dispendioso: Putin si fa forte vendendo armi e fornendo protezione diplomatica.

La scoperta della Magna Grecia


Un lavoro certosino dell’archelogo dell’Orientale di Napoli,  direttore della Scuola Archeologica Italiana di Atene. Molto umile, molto utile. Al viaggiatore curioso e anche al residente. Con schede dettagliate per ogni singolo monumento, grande e piccolo o piccolissimo, frammenti inclusi. Distribuite secondo itinerari pratici. Con una bibliografia localizzata, un glossario, e un indice dei luoghi molto dettagliato. In un certo senso una riscoperta, molte cose essendo note ma non conosciute.
Emanuele Greco, Magna Grecia, Laterza, remainders, pp. pp. 541, ill. € 14

venerdì 14 dicembre 2018

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto (383)

Giuseppe Leuzzi


Negli ultimi venti anni un milione 127 mila persone adulte, calcola lIstat, hanno abbandonato il Sud per Roma e il Nord Italia. È un saldo negativo netto sotto tutti gli aspetti, a differenza delle emigrazioni dell’Otto-Novecento e del dopoguerra. Di competenze. Di struttura sociale: emigra il ceto medio, l’ossatura di ogni società, lasciando gli equilibri a perpetuamente ricomporsi, e per questo deboli, di fronte alle mafie. Senza rientri economici, sotto forma di rimesse o investimenti domestici – la casa, il campo, il laboratorio.

Puntata violentissima martedì de “L’amica geniale” su Rai 1, in famiglia, in città, tra i giovani, degli adulti, specie i padri, contro i giovani, per due ore abbondanti – in due ore di cinema succedono moltissime cose. Seguita da nove milioni di spettatori, quasi uno su tre, un record per la serie. Non c‘è altra immagine di Napoli che nera, senza mai un briciolo di luce, di innocenza, spensieratezza, garbo. Giusto una maestra, ammalata.

Circola ripescato su face book il video di una “Addio Lugano bella” anni 1960 cantata nel salotto di Giorgio Gaber da Otello Profazio con lo stesso Gaber, Jannacci, Lino Toffolo e Silverio Pisu. Oggi non sarebbe immaginabile.
Erano anche vestiti di giacca, camicia bianca e cravatta, rasati e pettinati.

Noi siamo i luoghi
 “Sono stato accudito, innaffiato”, Camilleri felice confida a Roberta Scorranese su “Liberi Tutti”, il settimanale del “Corriere della sera”: “E non parlo solo dei miei 61 anni di matrimonio. A «innaffiarti» è anche il tuo sangue, la tua terra, l’appartenenza a un mondo. Questo non è da tutti”, lo scrittore, una vita a Roma, per quasi ottant’anni ormai, ci ripensa: “In tanti si perdono e smarriscono il contatto con un’identità che, con gli anni e con le vicissitudini, può diventare rarefatta. Ma non va mai persa. Ci nutre, ci salva”.
È una verità, che in bocca a Camilleri sembra perfino ovvia, e invece rara. L’ultimo film del regista iraniano Jafar Panahí, “Tre volti”, è stato visto a molti festival, a partire da Cannes, ed ha avuto molte critiche, tutte positive. Un centinaio si possono leggere in rete. Ma nessuna lettura corretta. Letture tecniche, storiche, dei precedenti film di Panahí, politiche, ma non del linguaggio, e della storia. Che è una ribadita, perfino struggente, ricerca e esibizione delle radici, sociali, culturali, linguistiche, di un mondo remoto alle porte della capitale ipertecnica, di cellulari, video, suv, set cinematografici. Un film politico, poiché l’autore è ostracizzato dal regime degli ayatollah, ma nel senso dell’autenticità nazionale, della compassione, della tolleranza: delle radici. Senza proclami, attraverso il linguaggio.
È la forza (poesia) del luogo natio, che perfino Leopardi sentiva. Già teorizzata e raccontata da  Peter Johann Hebel, nelle brevi prose de “Lo scrigno dell’amico renano” e poi come animatore dell’almanacco “Amico di casa renano” – da cui il “Tesoretto del’amico di Casa renano” è stato ricavato. Che il filosofo Heidegger, uno svevo alemanno molto legato al paese, dirà “paesaggio creativo”. E una comunità di linguaggio: “Quando alla sera, al tempo della pausa dal lavoro, siedo con i contadini sulla panca della stufa o al tavolo sotto il Crocifisso, per lo più non parliamo affatto. Fumiamo in silenzio le nostre pipe. Capita che venga detta una parola…”.

Usa trapiantare l’“Odissea” nel Baltico, o gli Argonauti sul Danubio (anche sul Volga…), ma c’è nella poesia una “natura” nel senso proprio del termine, geografico: una realtà legata ai luoghi. Che si è con essi determinata. Che Henry Miller, americano di Parigi, trova in Grecia (“Il colosso di Marussi”): il viaggio in Grecia diceva punteggiato di “apparizioni spirituali”. O Lawrence Durrell – di famiglia molto legata alla Grecia, a Corfù: “Siamo figli del nostro paesaggio”.
I poemi omerici non possono essere nordici. La luce (e le brume), i mari colorati, le isole vicine e lontane, la famiglia, la casa, le parentele, non si possono leggere i poemi e pensarsi in un altro mondo che il Mediterraneo.

La storia omerica – 2
L’“Odissea” al Sud d’Italia è di Victor Bérard prima che di Armin Wolf,

Ma con più cautela, e qualche pezza d’appoggio. Tecnica, di tecnica della navigazione, non “interna al testo”: sempre fantasiosa, ma corredata di venti e correnti, misura delle coordinate, calcolo del tempo\distanza.
Bérard, geografo della Marina e in cattedra a Parigi, notevole classicista, studioso in particolare della Magna Grecia, esordì nei primi anni 1900 con la contestazione di Samuel Butler, l’italianista inglese teorico di un Omero al femminile, “L’autrice dell’Odissea”. Butler si era invaghito di Trapani, al seguito degli inglesi industriali del Marsala, e ne aveva fatto Scheria, la terra di Nausicaa, e anche Itaca – Graves lo seguirà nel 1955, col romanzo “La figlia di Omero”, in cui l’autrice dell’“Odissea” non è ignota ma è Nausicaa, e lo è in quanto figlia. C’è stato insomma un rinascimento omerico fantasioso.  
In filologia Bérard debuttò criticando Butler, con due articoli nel 1902 nella “Revue des deux mondes”, i numeri del 15 maggio e dell’1 giugno. Nel 1924 portò a termine e pubblicò una traduzione rivoluzionaria, in prosa ritmica, dell’“Odissea”. Il cui successo lo indusse nei sette anni successivi a una prolifica produzione” omerica”. Per primi quattro volumi su “La Navigation d’Ulysse”. Circostanziati, e poi poco contestati. Dell’“Odissea” delineando una geografia che principalmente la situa nel Sud dell’Italia: Circe al Circeo, a sud di Roma, l’isola delle Sirene a Capri, Polifemo a Nisida, i Lestrigoni a Palau, sotto La Maddalena-Caprera-Santo Stefano, Cariddi e Scilla nello Stretto di Messina, l’isola di Eolo alle Eolie, l’isola del Sole identificando nella Sicilia.

Il partito della Bistecca, o il populismo rovesciato
Molto del populismo per il plebiscito 5 Stelle in Campania e in Sicilia, e lo stesso Salvini senatore della Calabria, si vuole meridionale. Si vuole farlo meridionale. In una con l’anarchismo e l’asocialità, sempre meridionali. Il sottosegretario Giorgetti, ex sindaco di Cazzago Brabbia, Varese, già segretario della Lega Lombarda, e poi capogruppo alla Camera della Lega Nord, lo dice anche, oggi, a Montecitorio: “Credo che dalle mie parti il reddito di cittadinanza non interessi, ma questa è l’Italia”. E invece non è vero, il partito della Bistecca c’è sempre stato, al Nord prima che al Sud. Che, come sempre, va al carro.
Ci fu un periodo in Sicilia, il periodo dell’orgoglio democristiano, in cui si diceva che l’isola guidava il paese, innovando, adattando, elaborando la politica nazionale – il “compromesso storico”, le “convergenze parallele”, il “pentapartito”, eccetera. Quella che poi sarebbe diventata la politica nazionale. Che tutti sanno – sapevano già all’epoca – non essere vero. Il Sud esaspera certe volute nazionali, ma non le guida. Lo stesso col populismo.
Ora alla Scala abbiamo assistito, per la prima della stagione, al trionfo di Mattarella. Che è siciliano, il presidente Mattarella è siciliano. Ma lo consacrava Milano. Che è la Scala. La quale è la Milano che ha consacrato la Lega, Milano 1, la circoscrizione più ricca e più intelligente d’Italia, 100 mila elettori scelti, quando la Lega era Lombarda, ed era solo il facondo incredibile Bossi.
Anche i 5 Stelle. È vero che hanno fatto l’en plein a Sud, ma non sarebbero stati i 5 Stelle del futuro senza Milano, i suoi giornali e i suoi soloni. Non erano il partito del “vaffa”? Molto meno dei gilets jaunes francesi: goliardi, Di Maio, Fico, Di Battista, al più venditori di polizze, quelli che proprio volevano lavorare, per mancanza di mestiere. Che Milano ha decretato il nuovo, e quindi il fiore all’occhiello, e quindi da votare. Il Sud subito ha obbedito.
Ora, cosa c’entra il trionfo di Mattarella alla Scala? Che Milano si è pentita, della Lega e dei 5 Stelle, e non trova altro strumento di difesa che il presidente siciliano. È sempre Milano che mena il gioco, ma trova solo in Sicilia l’antidoto al partito della Bistecca, il vecchio senso dello Stato – un po’ di senso dello Stato.

La storia capovolta, o Parsifal a Reggio Calabria
Usa capovolgere la storia, da qualche tempo fare di Omero un poeta nordico, attorno al Baltico, e degli Argonauti una spedizione danubiano-renana. Persuasivamente, perché no. Ma una storia – una di più - è possibile a bussola invertita,orientata al Sud, il Nord trasponendo al Sud. Per esempio a Reggio Calabria. La storia per esempio che Astolfo, “Vorrei andarmene ma non so dove”, in via di pubblicazione, si fa raccontare a Berlino, nella Berlino ancora occupata dai sovietici:
“Il signor Mimmo ha ospite un giovane compaesano, anch’esso Mimmo, Rotondo di nome e di fatto, che tace, o parla inarrestabile. Un argomento può essere il Parsifal del poema persiano Parsiwalnâma, che liberò dal drago la principessa Peri Mergiana, la Fata Morgana di Reggio Calabria, nell’occidentale città di Kapisca. Che è insieme la Kap di Parsifal e il drago Klingser del poema di Wolfram von Eschenbach, e quindi è sempre Reggio, la città del capo.
“Un altro argomento sono Italo e suo figlio Morgete, re della Calabria, da capo Spartivento fino a Taranto e Salerno. Italo che diede il nome all’Italia, e a Roma la fondatrice, prima di Romolo, la madre Roma appunto, sua figlia, detta anche Regina – con una g o con due? Morgete, trascritto Morgante, fu esca al noto filone.
“Una variante della prima vicenda, al riguardo di Wolfram, è che Sigfrido uccide il drago Fafner nella “terra di lavoro”, che è l’agro reggino nel linguaggio degli opici o aurunci ausoni, i primi abitanti autoctoni dell’Italia, corrispondenti agli asi della mitologia nordica. E dunque Oslo è a Reggio Calabria. I normanni l’hanno riconosciuto, che hanno localizzato nello stretto di Messina la dimora di re Artù e della Fata Morgana, la Persefone o Artemide degli antichi, protettrice dei reggini – ma a Locri la pensano diversamente, e comunque Persefone se la sono presa i tedeschi e la tengono a Berlino.
“Una variante della seconda vicenda è che il fondatore Italo è pronipote di Noè, e quindi capostipite degli indoeuropei. Ma forse questa è la storia principale: il placido giovanotto, che ha studi giuridici e s’indirizza al servizio dello Stato, in veste di magistrato o questurino, ha così sistemato un secolo di biblioteche e di razzismo.
“L’unico problema che la facondia lascia aperto è Vitalia, o Ovitalia, che diede il nome all’Italia, e alla Calabria, a Reggio, eccetera: è terra di Zeus, oppure terra dei buoi? E perché non terra degli ovini? La cultura classica ha bisogno di poco, ha l’ascendente dei vecchi miti e dei riti tribali. E si esercita etnicamente, l’identificazione su cui fa aggio è di tipo parentale, sanguigno, la dottrina dei primati non è tanto scema.
“Un altro filone del giovane compaesano fa perno sul cane. La costellazione e il titolo. Khan, re, è alla radice di Ascanio o Aschenez, che fu anch’egli pronipote di Noè, quindi capostipite degli indoeuropei. Reggio e Aschenez sono sinonimi, per l’autorità di san Girolamo. La costellazione del Cane, col mito di Orione-Osiride, che a questo punto conviene risparmiare al lettore, va quindi localizzata nel porto di Reggio. Col riconoscimento implicito di Caracalla, che dedicò la terza regione italica, la Lucania col Bruzio, a Iside e Osiride-Horo. E dunque anche l’Egitto è a Reggio”.

leuzzi@antiit.eu

Omero siamo noi

“Aprire l’«Iliade» e l’«Odissea» è come aprire un quotidiano”. “Ulisse siamo noi”, etc. Tesson, viaggiatore estremo, giro del mondo in bicicletta, o del Gobi, o del Tibet, arrampicate di facciate di palazzi catedrali, eremitaggi sul lago Baikal in Siberia e altrove, rilegge Omero isolato, per un mese, “in una piccionaia veneziana posta sul’Egeo, nell’isola di Tinos, di fronte a Mykonos”, nella luce, tra i gabbiani inquieti e il mare schiumoso. Una lettura con gli occhi di oggi – rifacendo un vecchio testo di Vernant, “C’era una volta Ulisse”.
Tesson vive ora tranquillo, un incidente di scalata ne ha dimezzato le articolazioni. Ma è felice di leggere Omero alla radio – il libro raccoglie una settantina di brevi pezzi letti a France Inter l’estate del 2017, con grande successo. Da lettore entusiasta: l’ Iliade”, quindicimila versi, e l’“Odissea”, dodicimila, che bisogno abbiamo di altro, contengono tutto. E tuttavia sobrio: perché ogni vita sarebbe uguale all’altra? in Omero no.
Il narratore è felice con Omero. E la sua felicità ridonda sul lettore. Niente di nuovo – la bibliografia è striminzita, meno di quella di un liceale: Citati, Veyne, Vernant, de Romilly, S.Weil. Niente nemmeno di speciale. Ma Omero vivo. Omero che, “prima di essere un personaggio di biografia, è una voce”. Che anima il mondo, un pulviscolo di mondi: luce, la “luce della Grecia”, brume, imperiose e brevi, venti, le isole, mondi separati e conchiusi. E, tra tanto girovagare, la casa: “La vera geografia omerica risiede in questa architettura: la patria, il focolare, il regno. L’isola da cui si proviene, il palazzo nel quale si regna, l’alcova dove si ama, il campo dove si costruisce”, o si lotta.
Una serie di inviti alla lettura. A partire da una sintesi promettente dell’“Iliade”, “poema del destino”: “Nessun sfugge al suo destino, te lo ripeto\ una volta nato, nessun mortale, né vile né nobile”, è la risposta di Ettore nell’addio a Andromaca, che lo invita alla pace. Con gli dei ridotti a giocare a dadi, chi di qua chi di là, scommettendo sull’un campo o sull’altro. Su campi o mondi uniti, gli Achei, i Troiani, ma distinti, specie quello acheo, “un universo mosaico”, di “parti infinitamente singolari, distinte le une dalle altre, e felicemente ostili l’una all’altra, come preconizzava Lévi-Strauss, perché conviene salvaguardarsi da ogni uniformizzazione”. Con questo  messaggio di Omero “ai tempi attuali”, secondo Tesson: “La civiltà è quando si ha tutto da perdere, la barbarie quando hanno tutto da guadagnare”, e dunque vincono – essi, i barbari.

Sylvain Tesson, Un’estate con Omero, Rizzoli, pp. 233 € 17

giovedì 13 dicembre 2018

Quattro batoste e un primo posto

Si chiude con quatto batoste per le squadre italiane il primo turno di Champions League. Ma con soddisfazione di tutti perché due sono qualificate comunque per il secondo turno, e una al primo posto, la Juventus. Senza vergogna e senza giustificazioni.
La teoria dell’“abbiamo vinto” comunque la fa l’allenatore della Juventus Allegri su Rai 1. Reduce da due sconfitte consecutive. Dopo due partite disastrose. Una nel proprio stadio, di fronte al proprio pubblico. Entrambe su Rai 1, il palcoscenico d'Italia: il 7 novembre 6 milioni e mezzo di spettatori, il 24 per cento di tutto il pubblico, ieri di già dimezzati, comunque sempre sui quattro milioni di spettatori, uno su cinque. Lo stesso allenatore che ieri ha mandato in campo una squadra con cinque attaccanti, come se andasse a passeggio – meno il sesto giusto, Dybala, che entrando all’ultimo ha fatto due bellissimi gol (uno annullato per regolamento, ma bellissimo). 
Nessuna scusa, nessun riguardo per i tifosi. Che sono quelli che fanno la forza di un club, ma che la Juventus non ha accresciuto probabilmente di una unità nella formidabile promozione gratuita su Rai 1, e anzi avrà ridotto. La Roma se non altro ha il buongusto di chiedere scusa ai tifosi. Ma viene da una serie ormai innumerevole di batoste, dentro e fuori la Champions.
E dunque cosa c’è da festeggiare? Che gli incassi sono aumentati. Più che gioco e bel gioco si sbandierano gli incassi: tanto dall’Uefa, tanto dalla Rai, tanto da Sky, tanto dagli sponsor, e tanto da plusvalenze negli acquisti\cessioni. Sui media e anche tra i calciatori, che si impegnano solo per i premi partita.
È da molto tempo ormai che le squadre di calcio, benché legate alla città, non rappresentano nessuno, se non tifosi bistrattati: non entusiasmano. E la debolezza è nota: squadre senza cuore - agonismo, spirito di gruppo. Cui però si pensa di sopperire non con stimoli passionali, affettivi – atleti giovani, locali, tecnici, impegnati – ma con contratti multimilionari, di acquisto\cessione, ingaggio, promozione, pubblicità. Per quale pubblico? O si pensa che si faccia il tifo per i soldi, invece che per il gioco?
Lo stesso per gli stadi. Gli stadi sono semivuoti e vuoti, quasi sempre. Ma non c’è altro tema di discussione che fare stadi nuovi. A Firenze, a Roma, a Milano, a Napoli. Che non sono impianti sportivi – si potrebbero rifare i vecchi: sono progetti immobiliari, in aree remote da rendere edificabili e da urbanizzare. Le proprietà sono anche esplicite su questo: i Della Valle a Firenze, Pallotta a Roma, De Laurentiis a Napoli, i cinesi a Milano (oltre che a prestare soldi ai loro club all’8 per cento). Non c’è salvezza nemmeno negli sport.

Letture - 367

letterautore


Apollo L’apollineo di Nietzsche era uno degli dei più truci. Matò per divertimento, con sua sorella Atena, i Niobidi. Fece spellare Marsia, che era un amico. Non c’è efferatezza che non lo veda protagonista. Anche nelle lettere, in Omero, in Eschilo. Però, ispirava i poeti, con la lira. Il poeta è uno truce?

Bachtin – Una delle “non storie” (“non vite”) che ossessionano lo scrittore protagonista di “La stanza chiusa” (“Trilogia di New York”) di Paul Auster è dell’autore celebrato (postumo) di “Rabelais e la cultura popolare”, epistemologo, reinterprete di Dostoevskij. Che durante l’invasione tedesca della Russia si fuma il manoscritto di uno studio sul romanzo tedesco che gli aveva preso anni, “la sola copia” dello studio. “A una a una, prese le pagine del suo manoscritto e usò la carta per rollarsi le sigarette, ogni giorno fumandosi un po’ di più del libro, finché non fu finito”.
Negli anni dell’invasione gli fu anche rifiutato l’insegnamento a Mosca. Dopo la condanna a nove anni di esilio duro in Siberia.

Hawthorne – “Probabilmente il primo vero scrittore americano” – Paul Auster, “Trilogia di New York”, p.175. Dopo la laurea a .., torna a casa dalla mamma a Salem e non si fa più vedere per dodici anni. Per dodici anni sta chiuso in camera a scrivere, senza mai uscirne e senza vedere nessuno.

Heidegger – Rinvia irresistibile a HD, Humpty-Dumpty, l’uovo di “Alice nel paese delle meraviglie” che Paul Auster dice “l’essenza dell’uomo”, la sua ontologia. Quello che può dire di sé, con Auster: “Esistiamo, ma non abbiano ancora raggiunto la forma che è il nostro destino. Siamo puro potenziale, un esempio del non-ancora-giunto”. Benché “creatura della Caduta” - questo Heidegger avrebbe disapprovato: HD “è caduto dal suo muro e nessuno potrà più rimetterli insieme”. Però, riecco Heidegger, “questo è il dovere di noi esseri umani, di rimettere l’uovo insieme di nuovo”. Una sintesi migliorata dall’uovo di Colombo, insiste l’uomo decaduto (“gettato” direbbe Heidegger) di Auster: affettato quanto basta per stare in piedi, che sempre cerca, e trova senza sapere – “cercava il paradiso e scoprì il Nuovo Mondo”.

Leopardi – Schopenhauer legge Leopardi nel 1858. Assumendolo come un fratello in pessimismo, nei “Supplementi” al IV libro del “Mondo”: “Nessuno ha trattato così a fondo e così esaurientemente questo tema”, il pessimismo, “come, ai giorni nostri, Leopardi…. Il suo tema è ovunque la beffa e la miseria dell’esistenza”. Nello stesso anno curiosamente l’accostamento tra Schopenhauer e Leopardi era operato da De Sanctis nel famoso saggio-dialogo “Schopenhauer e Leopardi (Dialogo tra A. e D.)”. Facendo però una distinzione tra i due. A favore del “pessimismo eroico” di Leopardi, esistenziale, e contro quello di Schopenhauer, giudicato rinunciatario, eticamente e politicamente. Entrambi contro il progresso, ma Leopardi, si direbbe oggi, da sinistra.

Ruoli – Per “Gravity”, il film di Cuarόn che ha preso tutti gli Osar 2014, eccetto quelli per gli attori, erano  stati contattati una dozzina di grandi nomi per il ruolo principale femminile che poi è andato a Sandra Bullock – per un compenso di 20 più 50 milioni di dollari (il 15 per cento delle entrate da distribuzione): Angelina Jolie, Marion Cotillard, Scarlett Johansson, Natalie Portman (scritturata, poi declinò il ruolo), Black Lively (id.), Naomi Watts, Sienna Miller, Rachel Weisz, Abbie Cornish, Carey Mulligan, Rebecca Hall, Olivia Wilde.
Per il protagonista maschile, che infine sarà George Clooney, era stato scritturato Robert Downey jr, che poi rifiutò. Dopo di lui e prima di Clooney erano stati contattati una decina di attori di nome: Harrison Ford, John Travolta, Bruce Willis, Russell Crowe, Kevin Costner, Denzel Washington,Tom Cruise, Tom Hanks, Daniel Craig.

Scrivere – “Scrivere è una forma minore di danza”, Paul Auster, “Diario d’inverno”.

Dalla “scuola di scrittura” allo “storione familire” (memoir, selfie) è tutta in Heidegger, “Note V”, 1948 ca, p. 638: “La consegna del linguaggio alla scrittura da scrittori.
“Il modo della scrittura da scrittori nell’epoca della tecnica.
“La scrittura da scrittori e la sceneggiatura da film. La scrittura da scrittori e la radio (oggi si direbbe la tv, n.d.r.).
“La distruzione del linguaggio in quanto medio tra il visto e l’udito.
“L’ultimo atto della desertificazione.
“Il romanzo nel passaggio verso la compilazione di reportage.
“Il reportage non è una descrizione di uno stato di cose, bensì l’allestimento dell’opinione pubblica sul binario che si vuole”.

Tedeschi – Da dove scaturisce la calamità nella storia dei tedeschi?”, si chiede Heidegger nel “quaderno nero” “Note I”, p. 41. Ma non dà la risposta.

Umorismo – “Una fioritura silenziosa della libertà”, il severo Heidegger si diverte per una volta in poche righe dei suoi fitti quaderni neri, “Note I-IV”, p. 243. C’è chi ne manca, “allora è un povero babbeo”. Però, questo caso può essere dell’“umorismo vero”: “Può anche significare che l’umorismo non si mostra immediatamente”, che “resta trattenuto nell’atteggiamento del pensiero”.
È una riflessione occasionale, sperduta - indotta dal fratello amatissimo Fritz, noto barzellettiere in paese? Ma il filosofo mostra di saperne di più, sulla qualità dell’umorismo, e sul rapporto dell’umorista stesso con l’umorismo, col suo bisogno di fare umorismo: “Forse questo buon umore, quello inappariscente, è il solo genuino. Laddove l’umorismo si fa chiassoso, si tradisce facilmente come scappatoia e velamento di una profonda insicurezza”, cui magari il soggetto pensa di “essere sfuggito”. Mentre, al contrario, “l’umorismo invisibile non va affatto a parare nell’insicuro e nel forzato perché è una fioritura silenziosa della libertà. Per questo resta raro. Ancora più raramente esso viene riconosciuto”.
L’appunto termina con l’usuale rapporto tra umorismo e malinconia: “Che l’umorismo possa essere lo stesso di una sana malinconia sarà comprensibile solo a pochi uomini. L’umorista, generalmente, ha in misura minima buon umore”.


letterautore@antiit.eu

Il misantropo che ama i buoni libri


Un atto d’amore per la letteratura sotto forma di infatuazione per un autore. Peraltro scontroso e poco incline all’entropia sociale, come ogni buon fiorentino, Pietro Citati. Raccontato con arguzia e anche con finezza, quasi mimando l’arte dello stesso Citati nel raccontare la letteratura.
Fera, ora giornalista, si innamorò del suo progetto con la tesi di laurea. Segue e fa parlare Citati sul filo del libro che non ha scritto, su Dostoevskij. E con l’aneddotica di cui il quasi novantenne scrittore, protagonista della migliore editoria letteraria e della critica del secondo Novecento, è miniera inesauribile - misantropico, non un maestro, ma devotissimo ai grandi ingegni: molta buona letteratura, da Gadda a Calvino, gli deve molto.
Chiara Fera, Il libro invisibile di Pietro Citati, Rubbettino, pp. 104 € 14

mercoledì 12 dicembre 2018

Ombre - 443

Non c’è una maggioranza britannica per l’uscita dall’Unione Europea – anche perché nella Ue Londra ci sta comodamente, cioè con tutti i suoi comodi. C’è una minoranza isolazionista (sovranista, imperiale), che diventa però maggioranza, lo è diventata al referendum, per beghe interne al partito Conservatore. Contro Cameron, il primo ministro del referendum, e ora contro  May. Gli eventi politici in democrazia si producono per linee di forza sghembe.

Non ha fatto in tempo ad annunciare le dimissioni da capo del personale alla Casa Bianca, per fine anno, che a John Kelly sono piovute addosso offerte stratosferiche per le memorie. Con anticipi, scrive il “Daily Mail”, fino a 15 milioni di dollari, cifra paperoniana. Purché parli male di Trump, che lo ha nominato. Libertà di stampa? Controinformazione? Business? La democrazia si nutre di rifiuti.

Un’edizione straordinaria del Tg 1, nel mezzo de “L’amica geniale”, fa molto di più che un’intemperanza di Salvini. Per l’allarme e l’ansia che mette in moto. Ma soprattutto perché riporta alla realtà dei fatti, tra i buoni propositi e le petizioni di principio. Bisogna essere antirazzisti, ma la prescindere diventa a prescindere dallinformazione. 

L’attentato ormai di prammatica del terrorismo islamico alla vigilia di Natale in una piazza europea è odioso naturalmente, ma anche insidioso. Perché mette in imbarazzo le buone coscienze. E perché esporta in Europa, per il Natale, gli odi interni che caratterizzano l’islam da un quarantennio, tra sciiti e sunniti, e tra diverse fazioni sunnite, con stragi degli indifesi, alle scuole e nei mercati.

Dire terroristi gli Hezbollah libanesi-iraniani, che lo sono sempre stati e non vogliono essere altro, è sovversivo: Salvini che lo ha detto in Israele moltiplica i servizi tv e le paginate contro. Per fargli un monumento? È Salvini stesso che mobilita i media, anche contro di sé?

La Francia può andare sopra il 3 per cento di deficit di bilancio e non succede nulla, l’Italia non può andare al 2,4 e nemmeno al 2. I casi sono differenti, la Francia non ha il debito dell’Italia e quindi pone meno problemi. Ma la discriminazione percepita è poco contestabile. Non ragionevolmente: il debito del’Italia è posto per affidabilità a livello di Ungheria, Romania,  Kazakistan, peggio di Panama e le Filippine, del Messico, del Perù, della Malesia, molto peggio del Botswana. E questa è una discriminazione difficile da giustificare.

Dunque la paga oraria media del lavoro dipendente è scesa in due anni, 2015-2016, di due euro e mezzo, a meno di 10 euro, se n’è accorto anche l’Istat. Come si pensa che un’economia sia prospera se la distribuzione del reddito si contrae invece di allargarsi, se si produce povertà invece che ricchezza?

E L’Istat non dice – lo dice tra le righe – che una gran parte del lavoro, quello femminile, quello giovanile, è pagato 8 euro l’ora. Per crearsi una famiglia, fare figli, disinnescare la gelata demografica, far crescere l’economia? Per combattere la paga oraria cinese, si dice. Ma la Cina si combatte con la qualità del prodotto, e con controlli alla dogana.

La presidente mancata della sinistra americana Hillary Clinton è testimonial (si fa fotografare) ospite d’onore in India alle nozze superricche superkitsch di una superricca ragazza indiana.  Hillary non si arrende, non vuole stare dietro a Trump nemmeno in volgarità.
Però si fa pagare.

I “gilets jaunes” francesi mobilitati da Putin. Perché no? È facile infinocchiare l’opinione pubblica, l’America non ha inventato nulla.

Florentino Perez, il padrone di mezza Argentina e del Real Madrid, si accorda col suo fratello Macri, il presidente argentino, per far disputare la Copa Libertardores argentina a Madrid, nel suo stadio. Al costo di 90 milioni. Che le squadre bonaerensi finaliste perdono e il Real Madrid incassa. E tutto sempre molto chiaro nel calcio, a volerlo leggere: la corruzione vi è spregiudicata.

Insulti alla memoria di Scirea in Fiorentina-Juventus, fischi del settore interista alla memoria di Radice, ma il procuratore della Figc Pecoraro non batte ciglio. Se non punta Juventus, Napoli non si muove – il prefetto Pecoraro, famoso a Roma perché voleva crearvi la monnezza per strada, successore alla Figc del napoletanissimo Palazzi, non è propriamente di Napoli, è di Palma Campania.

Al funerale di George Bush Trump saluta tutti, con vigore Barack Obama e Michelle Obama, ma non i Clinton, ostentatamente, seduti accanto agli Obama. Che erano stati gli ospiti d’onore alla festa per le sue nozze con Melania nel 2005, l’ex presidente e la senatrice di New York. Trump nn era allora reietto. O la politica non scalfisce l’establishment, è solo un gioco di avanscena - avanspettacolo. 

Il senso delle vite senza senso

Metamorfosi, nei toni del “giallo”, con qualche suspense.  Di vite reali inventate. Al modo di Henry Dark, segretario di Milton, “un personaggio di un libro che un volta ho scritto”.  O di Peter Freuchen, l’eploratore artico qui esagerato, che il suo stesso respiro minaccia di soffocare.
Vite che si assottigliano, si frantumano, si perdono a New York. Di Risolutori o deus ex machina : il Detective dei gialli, l’Autore – che diventano vittime di se stessi. Cacciatori che diventano prede, e si dissolvono mentre che si esercitano al meglio. Su un presupposto sbagliato, che è la “filosofia” di Auster anche in altri racconti: che “le vite non hanno senso”. Mentre il contrario è vero – “le vite non hanno senso” conclude una incursione sulla vita di Da Ponte, che invece ne è piena (e cosa dirà il biografo di Auster?).
Racconti anche sotto il fascino dei barboni di New York. Metropolitani, di Normale Degrado: imprevedibile e inatteso ma radicale. Inciampi, deviazioni, deiezioni, verso cui l’autore, recluso volontario nell’arco Brooklyn-Manhattan, è attratto. Genere a effetto, e perciò sospetto. 
Metamorfosi, nei toni del “giallo”, con qualche suspense.  Di vite reali inventate. Al modo di Henry Dark, segretario di Milton, “un personaggio di un libro che un volta ho scritto”.  O di Peter Freuchen, l’eploratore artico qui esagerato, che il suo stesso respiro minaccia di soffocare.
Vite che si assottigliano, si frantumano, si perdono a New York. Di Risolutori o deus ex machina : il Detective dei gialli, l’Autore – che diventano vittime di se stessi. Cacciatori che diventano prede. E si dissolvono mentre che si esercitano al meglio. Su un presupposto sbagliato, che è la “filosofia” di Auster anche in altri racconti: che “le vite non hanno senso”. Mentre il contrario è vero – “le vite non hanno senso” conclude una incursione sulla vita di Da Ponte, che invece ne è piena (e che cosa dirà il biografo di Auster?)
Racconti anche sotto il fascino dei barboni di New York. Racconti metropolitani, di Degrado Normale: imprevedibile e inatteso ma radicale. Inciampi, deviazioni, deiezioni, verso cui l’autore, recluso volontario nell’arco Brooklyn-Manhattan, è attratto. Genere a effetto, e perciò sospetto. Con un finale a pesce, anzi senza capo né coda. 
Ma il corpo è godibile, la narrazione avvincente. Per un nota  scanzonata che la sottolinea. Tra personaggi che rientrano nella trilogia come a teatro tra le quinte. O come fantasmi – i “Fantasmi” del secondo racconto sono gli scrittori, che vivono scrivendo, soli, muti. Anche se senza residui - dopo non resta nulla, non un personaggio, e nemmeno la storia. 
Racconti di bravura, Città di vetro”, “Fantasmi”, “La stanza chiusa”. Scritti in compagnia della lettura di Marco Polo – le “meraviglie” della scoperta e della scrittura. Con un omaggio alla moglie Siri – Hustvedt, la scrittrice.
Paul Auster, Trilogia d New York, Einaudi, pp. 316 € 12

martedì 11 dicembre 2018

Appalti, fisco, abusi (134)

Dopo quattro mesi di false piste, il punto qualificante della “manovra” (bilancio pubblico 2018) sarà non la riduzione ma l’aumento delle tasse. Per la riduzione delle deduzioni fiscali, e lo sblocco delle imposte locali, patrimoniali (Imu, Tasi), e addizionali Irpef (comunale, regionale). Si consolida il record italiano della pressione fiscale.

La pressione fiscale aumenta anche indirettamente, per la crescta dello spread, la valutazione differenziale dei titoli del debito pubblico sui mercati dei titoli.  Che i risparmiatori pagano in tre modi. Per la riduzione di valore del capitale investito in titoli pubblici e la conseguente illiquidità degli stessi. Per gli accresciuti oneri bancari, sul debito (prestiti, mutui) e anche sugli attivi (spese di gestione). Quali sottoscrittori di titoli e fondi delle banche stesse.

Dal lato spese, il bilancio pubblico presenta solo uscite improduttive. Per primo il finanziamento fino a seimila euro per chi compra una macchina da 28 mila euro. Il reddito di cittadinanza non di discosterà dalle provvidenze in essere per la povertà: pensioni sociali e di invalidità,  bonus spesa e social card.

Di tutte le grandi opere, che dovrebbero rinnovare e adeguare le infrastrutture dell’Italia, solo lo stadio della Roma va realizzato. Un progetto immobiliare speculativo, in area da bonificare, e con accessi da costruire. Per spese iniziali di urbanizzazione di “almeno” 300 milioni. Con forti connotazioni corruttive, del costruttore del progetto, Luca Parnasi, e della proprietà della Roma calcio.

La chiusura di un conto corrente alla Bpm, ex Banca Popolare di Milano, ha preso otto mesi nel 2017.  Malgrado (a costo di) contati quasi settimanali. Senza un punto di riferimento nel personale. Per un costo finale di 247 euro. La chiusura di un conto corrente a Intesa Sanpaolo ha preso già quattro mesi, in analoghe condizioni, senza termini e\o procedure previste o prevedibili.
Sono procedure normali per l’organo di vigilanza, la Banca d’Italia. 

Nessuna conseguenza penale, nemmeno d’ufficio, per responsabilità oggettiva, per le banche che hanno defraudato correntisti e risparmiatori. Anche se nelle banche sostanzialmente fallite, fino alla Vicenza, si vendevano bidoni a ragion veduta, non per errore o incapacità. Colpa di nessuno, solo del risparmiatore.

I ladri di capitale

Bragantini è l’ultimo dei pentiti della grande abbuffata – partendo da Guido Rossi (ma già Cesare Merzagora, il Grande Profeta del privato, privatissimo, sapeva dove saremmo andati a finire, con Montedison et al.). Dei teorici del mercato e del privato che non possono nascondersi la realtà. Il reddito langue, da quai tre decenni ormai, sempre più prosciugato dai “pochi”. E da un meccanismo più di depredazione che di moltiplicazione del reddito. Il mercato brucia risorse – è il senso della stagnazione – invece di moltiplicarle.
L’ex commissario Consob apostolo del libero mercato non rinuncia all’ideologia: il difetto non è del sistema, ma di “piranhas”, padroni e manager voraci, pochi, pochissimi. “Come difendere le imprese da soci e manager troppo voraci” è il sottotitolo della sua trattazione.  
Non come difendere gli utenti, i consumatori, i cittadini – poiché tutto si tiene, se la Fiat soffre soffre anche l’impiegato del catasto. Difendere le aziende da azionisti e manager. Come se ce ne fossero non di azionisti e manager. Ovvero sì, ce ne sono, ma in un’altra ideologia, che Bragantini  non sponsorizza, quella degli stakeholder, degli aventi diritto non necessariamente padroni o manager. Fornitori, consumatori, risparmiatori (vedere il risparmiatore sotto le sembianze grifagne dell’azionista, come fa Bragantini, è una bizzarria), i lavoratori, anche esterni, dei fornitori e subfornitori, e naturalmente le banche e ogni finanziatore non amministratore.
Ma l’impegno è nobile. “L’Occidente sviluppato si sta attorcigliando su un autolesionistico modello economico, nel quale la ricchezza smodata di pochissimi si fonda sulla durezza della vita imposta alle moltitudini” è la premessa. Le soluzioni non ci sono, ma si spiega che bisogna cercarle. 
Sugli esempi della disfunzione Bragantini, che sa molte cose, avrebbe potuto essere più vicino a noi. Per esempio sul buco nero Tim, derivato da un gigante, Stet, convertito in piccola stella, Telecom, a opera dei migliori, Umberto Agnelli, Colaninno, Tronchetti Provera, De Benedetti. O il Monte dei Paschi. O la Vicenza, e le altre medio banche.

Salvatore Bragantini, Contro i pirañas, Baldini + Castoldi, pp. 188, ril. € 19


lunedì 10 dicembre 2018

Problemi di base stellari bis - 461

spock


Fanno parlare Di Maio ma dove sono i Casaleggio?

E Grillo?

Troppo occupati, con lo stadio della Roma?

E Berlusconi, che ha regalato Raggi a Roma e Appendino a Torino?

E chi è Raggi, un ectoplasma?

E Appendino?

Piccole donne crescono?

C’è la ventriloquia politica – c’è?

Cos’altro muove Grillo, a parte la cialtroneria – Di Maio, Tonineli, Di Battista, Fico – che spopola?


spock@antiit.eu

Hanno fatto nero Heidegger

Non c’è l’antisemitismo. La condanna è del cristianesimo, ossessiva, “giudeo-cristiano”, e della cristianità. Della metafisica. Di Nietzsche – e non: c’è un Nietzsche buono, quello di Heidegger. Della storia. Della filosofia – che non è pensare. Della scienza. Del “letteratume” e dell’opinione pubblica. Della democrazia. Della liberazione. Di Hitler anche, ripetuta. Ma con la strumentazione di Hitler, antisemitismo escluso. L’orgoglio del Rettorato. Una serie di autoannientamenti. L’orgoglio della solitudine – la grandezza. Anche rispetto ai laudatori, Beaufret, Jünger, Sartre, allievi (“non ho allievi”). E l’indicibilità, la volontà di ermetismo, in prosa e in versi, moltiplicata dall’Essere in croce.
La vendetta
Non c’è lo scandalo, con cui i quaderni sono stati annunciati. La questione ponendo dell’edizione di Heidegger: di che stiamo parlando? Questi “quaderni neri” saranno materiali per la biografia di Heidegger negli anni dell’isolamento, radiato dall’università. Un Heidegger “messo a nudo”, non alla Baudelaire, non volontariamente. Ma forse si, questi quaderni non sono brutte copie, sono in ordine, e anche la pubblicazione sembra programmata. Di Heidegger nei limiti del suo filosofare, a tratti sconveniente. O forse solo scortese, irritante: il Filosofo Terzo, dopo Democrito e Eraclito.  Del suo pensiero unico – solo Heidegger “pensa” è il filo di settecento pagine. Senza ironia mai: piange la “produttività della filosofia che fa naufragio”, 323, per i troppi filosofi che scrivono e pubblicano - e lui con i 100 o 120 volumi? Del nazismo anche, senza e contro “Hitler”: “La distruzione dell’Europa è, comunque essa possa svolgersi, sia senza sia con la Russia, l’opera degli americani. «Hitler» è solo il pretesto. Certamente però gli americani sono, se visti in relazione all’insieme, europei. L’Europa distrugge se stessa”, 307. “Il socialismo è la totale mancanza di pace generate dalla civilizzazione tecnica dell’umanità”, 318. “Democrazia è anarchia”, 612. Non si scusa perché non ha sbagliato, 310: “Qualcuno ha mai visto delle aquile volare in stormi?”
Orgoglioso sempre, per tutti i quaderni, sprezzante. “Il successo quasi commosso riconosciuto alla ‘Lettera sull’umanismo’ mi desta un sospetto: o non si è riflettuto sulla cosa, o la cosa non è riuscita”. Il profeta nella tebaide, autoreferente, è in vari passi anche esplicito nel primo quaderno, “Note I”. P.es. a p. 100, dove il “terrore della violenza furiosa” viene ascritto, oltre che alla “rozza violenza” e alla “pubblica devastazione”, con più perversione alle buone coscienze – e cioè, siamo nel 1945 o 1946, dopo la sconfitta e sotto l’occupazione alleata, agli alfieri della libertà: “Il terrore del possesso della verità però è abile e pone ciò che passa inosservato e la preoccupazione per la salvezza del mondo al servizio dei suoi stratagemmi”. Facendosi scudo, furbo, di una falsa libertà per recidere la vera Libertà, del pensiero dell’Essere - o di Heidegger. Ancora dopo, in “Note V”, 590, quindi attorno al 1948, dopo il ponte aereo per Berlino, mentre si costituiva la Germania Federale: “Il popolo tedesco è politicamente, militarmente, economicamente, anche nella sua migliore forza popolare, rovinato, tanto per via della follia criminale di Hitler, quanto anche per la volontà di annientamento dell’estero”. Anch’esso senza colpa:  “Non si cerchi d’ingannarsi. Tanto è stolto iniziare a calcolare la storia dal 1945, e lamentarsi dunque per l’oppressione e l’ingiustizia, quanto è stolto iniziare invece dal 1933”. E un avvertimento come invito alla riscossa: “Resta ancora il compito: sterminare i tedeschi spiritualmemte e storicamente. Si aprano gli occhi. Un antico spirito di vendetta si aggira per la terra”.
Opus incertum
Ma in generale non si trova nulla in questi “quaderni neri”, ormai siano a una decina tradotti, dello scandalo che li ha preceduti, con le dimissioni di Peter Trawny dall’incarico di curatore, e di Donatella Di Cesare dalla vice-presidenza della Fondazione Heidegger. Non l’antisemitismo, non la difesa di Hitler – e la professione nazionalistica stretta, e antidemocratica. Uno scandalo che, dopo la faticosa lettura, sa solo di pubblicità. Riportando alla memoria un lontano saggio di Thomas Sheehan (“Caveat Lector: the new Heidegger”, di fine 1980), sulle bizzarrie dell’opera omnia del filosofo. Che non è un’edizione critica, e viene affidata dagli eredi, e per essi a lungo dal figlio-non-figlio Hermann, a curatori più o meno occasionali, Trawny è l’ultimo di una lunga serie. Senza colpa probabilmente del quasi centenario Hermann - “il colonnello Hermann Heidegger” di un sobrio lusinghiero ritratto di Magris nel 1986 sul “Corriere della sera” (ora in “L’infinito viaggiare”, 72): “È un uomo alto e gentile, con uno sguardo pieno di bontà e una profonda dirittura segnata nel viso”. I tre volumi di lezioni su Nietzsche, si ricorderà, collazionati in italiano da Franco Volpi, hanno avuto in quattro anni tre curatori diversi.
I “quaderni neri” vengono pubblicati senza nessun supporto, se non i riferimenti alla stessa opera omnia, nell’originale tedesco. “Note I” e “Note II non hanno datazione, nemmeno approssimata del curatore, che vi accenna svogliato. “Note III” è datato 1946-47, ma si apre con un riferimento al quaderno successivo, “Note IV”. Più volte è questione della “Lettera sull’umanismo”, che però è del 1949 – è di prima, pubblicata da Beaufret in rivista nel 1946, e nel 1947 da Grassi-Szilasi in volume, rivista dallo stesso Heidegger, ma per Heidegger la sola è quella da lui stesso curata, in edizione a sé (Grassi-Szilasi la recavano in appendice alla riedizione del suo saggio su Platone e la verità), nel 1949.
L’autoassoluzione
Le polemiche hanno oscurato la verità, è il caso di dire alla Heidegger. L’autoassoluzione sì, c’è, ma in forma compensativa, nei giorni della denazificazione e dell’“annientamento”, per dirla in termini heideggeriani: “Alle mie spalle, e pure al tempo stesso di nuovo di fronte a me, si distende il lungo cammino dal chierichetto di Messkirch all’esserci di adesso, defilato e sconosciuto”. La rivendicazione è ripetuta per tutti i cinque quaderni, orgogliosa, anche dell’isolamento.
In una col nazionalismo ristretto, delle “origini” gelose.  E col rifiuto ribadito della democrazia, senza giri di parole, tra le prime riflessioni di “Note II”, qui a p. 195: “«Democrazia» come nome di copertura per l’impostura planetaria. Questa parola è così mendace che non vale nemmeno se con essa si intende il «dominio della plebe»”, eccetera, esito di “incondizionata macchinazione”. Libertà non è tra le “parole chiave”, tematiche, di cui Heidegger compila l’indice per ogni quaderno. Entrambi sono ripresi a p. 102, il rifiuto dell’Occidente (della storia, della filosofia, della metafisica, del “giudeo-cristianesimo”, della democrazia) e della libertà. E, nella pagina seguente, di Goethe: del Goethe del “diffuso «pensiero» dei ben collocati francofortesi” (l’unico accenno ai “francofortesi”, n.d.r., cioè a Adorno & co., probabilmente nella sterminata opera di Heidegger), che ne fanno una bandiera antinazionalistica, mentre “il superamento del nazionalismo è già accaduto da tempo”, con Hōlderlin, “nel tratto più proprio del destino dell’Occidente – non «umanisticamente» e non «classicamente» e non «internazionalmente», bensì uni-versalmente”. Universale volendo non l’“internazionalismo” di Goethe ma lo strapaese imputato all’incolpevole Hōlderlin, delle origini e dei luoghi, come antidoto al nazionalismo – della Svevia natia anzitutto: “Adesso ci sono”, con Heidegger cioè, “un «umanismo  della Svevia superiore» e un «Occidente bavarese»”. Mentre i liberatori, “i democratici di tutto il mondo”, si confermeranno poco dopo, a p. 123, “i funzionari della più pura – cioè mascherata – volontà di Potenza”.
Senza costrutto
Ma il gergo è ovunque prevalente – prova di iniziazione, sciamanesimo. In una scrittura pesante, faticosa, insignificante, se non per allusioni. Più contorta che negli altri testi noti. “Pensare è il dire della saga del colloquio della Άλήθεια del linguaggio in quanto dimora dell’abitare nel componimento” – 107. In cui pensare, dire, saga, linguaggio si vogliono indefinite, oltre alla “dimora dell’abitare”. Sull’incomprensibilità, dichiarata, ricercata, Iadicicco, che questi quaderni traduce, avverte che la “sperimentazione linguistica” è portata all’estremo, e fa un lungo elenco delle asperità di costrutto, “il lunghissimo periodare”, “la complessa architettura delle subordinate”, “i sottintesi”, le “frasi ellittiche… densamente sintetiche”, che “implodono nell’abisso misterioso della loro letteralità”.
Il problema si direbbe normale per appunti sparsi. Che però non sono questi “quaderni neri”, al contrario curati, ordinati per la pubblicazione, provvisti pure di indice tematico – Peter Trawny, che la pubblicazione ha curato, prima di dissociarsene, attesta nella postfazione: “I manoscritti sono elaborati a fondo. Presentano di rado delle correzioni. Non sono affatto dei taccuini di appunti”. Sono la ripetizione, ricalcata, di ciò che Heidegger è e vuole essere.
Con le note preclusioni. Della metafisica e la filosofia – “la metafisica è l’essenza della «filosofia», entrambi i nomi dicono lo stesso”, 176, “la fine della filosofia è l’inizio del pensiero”, 177. Contro il progresso, la verità, l’arte (applicazione, tecnica), la storiografia. Col rifiuto – anche crociano… - della psicologia, contro l’ex sodale Jaspers e non solo. Soprattutto, da uomo di fede (274-275, non tiepido), del cristianesimo. Nel senso dell’“autoannientamento” e ancora di più. Nel senso della demolizione, a opera sua, di Heidegger.  Della “smitizzazione del cristiano”, 266, rivendicando anzi polemico la primogenitura, rispetto a Bultmann, cui Jaspers sembra farla risalire. E un continuo rifarsi a “Essere e tempo”, uno scudo, una barricata.
Anti-cristiano
L’antisemitismo non c’è. Se non come parte dell’antimetafisica anticristiana – la metafisica è “giudeo-cristiana”, della “storia dell’Occidente”. Polemica, questa, ricorrente in tutti i quaderni, a partire da “Note I”, dalle prime riflessioni. Delle quali è sintesi, contorta, la notazione a p. 27: “L’anti-Cristo, come tutto ciò che è «anti», deve  derivare dallo stesso fondamento essenziale di ciò contro cui si pone come «anti» - dunque «del Cristo». Questo discende dall’ebraicità. Essa, nell’epoca dell’Occidente cristiano, vale a dire della metafisica, è il principio della distruzione. È l’elemento distruttivo nel rovesciamento del compimento della metafisica”. Segue, p. 28, il capoverso incriminato, l’unico, che però è uno della serie degli “autoannientamenti” profetizzati o denunziati, da un Heidegger compunto-beffardo, nei primi due quaderni: “Non appena ciò che è essenzialmente «ebreo» in senso metafisico lotta contro ciò che è ebreo, si raggiunge il culmine dell’autoannientamento nella storia; ammesso che «l’ebreo» si sia impadronito ovunque e completamente del potere, così che la lotta contro ciò che è «ebreo» rientra anche e anzitutto nella sua sovranità”.
Ma la “colpa metafisica” degli ebrei non è “l’odio metafisico” di Hitler per gli ebrei? Di Heidegger nessuno ha studiato quando e come ha letto il “Mein Kampf” di Hitler, o comunque lo “Hitler mi ha detto” di Rauschning, che fu letto moltittismo, anche per l’affidabilità dell’autore, non un semplice giornalista, essendo stato presidente del Senato della città libera di Danzica, 1933-1934.
Nel secondo quaderno, “Note II”, ha a p. 212, dopo i ribaditi “autoannientamenti” della filosofia e del cristianesimo, un’avventurosa messa in guardia contro l’antisemitismo: “La «profezia” è una tecnica volta al rifiuto del destinale della Storia” – della filosofia di Heidegger, qui incidentalmente ridotta alla sottomissione rassegnata dell’islam: “È uno strumento della volontà di potenza. Che i grandi profeti siano ebrei è un fatto sul cui mistero ancora non si è riflettuto. (Nota per gli asini: questa osservazione non ha nulla a che fare con l’“antisemitismo”. Quest’ultimo è tanto folle e riprovevole quanto lo furono le azioni sanguinose e soprattutto quelle non sanguinose del cristianesimo contro «i pagani». Che anche il cristianesimo stigmatizzi l’antisemitismo come «non cristiano» rientra nell’elevato grado di formazione della raffinatezza della sua tecnica di potere)”.
Uomo di fede
Un anticristianesimo temperato dalla fede. Heidegger è uomo di fede, religiosa Alla quale in questi quaderni dedica un paio di pagine pesate, 273-275 e passim – il papa Francesco gliele invidierebbe. “La fede è, sì, un sapere, ma non è mai un pensiero”. Non è heideggeriana (poche righe dopo dirà il contrario: “Il cristianesimo è metafisica che spaccia la fede cristiana per un sapere” - 273, ma non importa). Per centri concentrici però lo è: “Il pensiero”, Heidegger, “è, per la fede, una follia”, 273, diventa due pagine dopo: “Il pensiero è, per la fede, una follia, e la fede per il pensiero è l’impossibile. Ma entrambi sono uniti nel fatto di riconoscersi: il riconoscimento consiste nella richiesta della fede che il pensiero sia pensiero e nella richiesta del pensiero che la fede sia una fede”.
Le percezioni di Heidegger sono mistiche, disse Jaspers subito, dopo “Essere e tempo”, presentate speculativamente in parabola, immagine e poesia. A Jaspers lui stesso ha spiegato nel 1935 che la sua filosofia senza la teologia è incomprensibile. Ora la teologia è aborrita, con tutta la chiesa cristiana, ma la fede è forte, seppure non in Dio, che intende quello delle Scritture: Heidegger non abiura al suo personale “essere”. Con l’odore del vecchio confessore: chiamata dell’essere è la grazia, altrettanto repentina, illuminata, ingiustificata, parola dell’essere è il verbo, la clausura è dei santi. Prima e dopo lui stesso  maestro di tanti preti, benedettini, gesuiti, perfino qualche francescano, dopo il rettorato hitleriano. Proponendo, proponendosi, la questione centrale della fede, la questione dell’essere, “l’antichissima questione propria del mondo medievale e scolastico”, dirà il nipote don Heinrich parroco a Messkirch. Non ha mai smesso di segnarsi, ginocchio a terra, nei suoi trekking, al passaggio davanti a una chiesetta o cappella votiva. La pietà religiosa fa bene parte delle origini. Al suo paese, a Messkirch, nella chiesa fanno – facevano - vedere le iniziali che, da chierichetto, ha inciso in un banco, con mano sicura, rinforzandole con un riquadro. 
Insensato
Raramente umano, come si presupporrebbe di appunti. Per esempio, anche questa notazione è iniziale, sulla vecchiaia, contro il trucco di “fingere di onorare” i vecchi facendoli giovani – ma resta il solo cenno di tutto il volume. Il risentimento è certo molto umano, ma per settecento pagine crea risentimento e non complicità, non avvicina, allontana.
Con qualche verità pratica, soprattutto in tema di opinione pubblica, da cui guardarsi: “Il reportage non è un descrizione di uno stato di cose, bensì l’allestimento dell’opinione pubblica sul binario che si vuole”, 638. E con qualche aforisma, raro. “Il semplice è ciò che è più incomprensibile”, 409. “L’oltreuomo è assolutamente ancora uomo”, 5343. “La misura fruttuosa è sempre smisurata. La misura non sta mai nel mezzo”, 517. “Il silenzio è l’aver cura del silenzio”, 604. “Il surrealismo è solo, ancora una volta, il realismo del reale”, 633. Ma anche: “L’arte del pensiero consiste nel pensare senza arte”, 298 – per caso? Dopodiché, al centro di “Note III”, 299-307, la summa in dieci pagine dell’“impensabile”, tra “pensiero dell’Essere” in croce e “saga”, da cui si esce vaccinati – “pensare, una traccia senza tracce dell’Essere espropriato”.
Colpiscono d’acchito riflessioni anche insensate: “La smisuratezza stessa è priva di misura” - 6. Oppure: “I giorni di festa sono la veglia notturna per il destino” -7. Sarà. Ma “destino è l’evento dell’intimità”, 8. Che non ha senso se non boccaccesco, per la mania di Heidegger di farsi le allieve, anche non ebree. Poi c’è “il bisogno della mancanza di bisogno”, quasi derridiano, ib.. E: “I pensatori essenziali e genuini” sono detti filosofi, “amici di ciò che autenticamente va saputo” ib. – la scoperta dell’Africa. E “le origini sono le vicinanze dell’inizio”, 9. Cose così. E: “L’enigma è il vero della partenza dell’ultima della fuga”, 462. O: “La riscrittura è la saga del silenzio nella fuga della partenza che parte  dalla Libera dell’enigma”, ib.. Dove si introduce, dopo la “saga”, la “Libera” - sic: “il silenzio della Libera”, “la Libera dell’uso”, “la Libera della fuga”. Per culminare nella fuga: “La fuga rifugge la fuga”, 465. O: “Gli uomini ingegnosi non possono cercare” – devono aspettare che la meda cada dall’albero?
Hōlderlin
Molto è della filosofia come poesia, nello Hōlderlin ricorrente che gli fa da specchio. E della politica – si parla molto di politica, in “Note II” e “Note III”: “Verrà una volta il tempo in cui la storia dei tedeschi del 1914 sarà vista, senza la facciata della storiografia liberal-democratica, nelle sue forme autenticamente efficaci come un’avanzata della volontà di Potenza nel senso di un processo mondiale”. L’“errore del 1933” ritorna anch’esso più volte insopportabilmente astruso. P.es. a p. 170: “Non «si» capirà tanto presto ciò che nel mio passo del 1933”, il rettorato, il discorso del Rettorato, “era l’elemento autenticamente determinante che tuttavia divenne un errore; non in quanto appunto si era detto, bensì riguardo alla possibilità del nazionalsocialismo e riguardo all’attimo e all’appropriazione di un pensante all’agire conforme alla amministrazione in un istituto di pubbliche lezioni – l’essenza del materialismo imperialista”. Intendendo che lui nel 1933 condannava, all’università, l’Occidente e il comunismo insieme, col linguaggio di Marx che gli conveniva citare ma non conosce. Nello stesso quaderno, il “Note II”, ci ritorna alle pp. 246-249, per farne assurda difesa contro il burocratismo, all’università, e contro le “rappresentazioni partitiche” nel Senato accademico. Mentre lui si voleva solo profetico. “Questo è stato detto nella «Autoaffermazione»” dell’università tedesca, che essa “ha bisogno come minimo di tre secoli”. Senza senso del ridicolo: “Ma non vi si prestò ascolto”. I professori non capirono: “Si era troppo preoccupati della salvezza del prestigio professorale. Si credeva che le chiacchiere eccitate degli avvenimenti di superficie fossero già una riflessione sull’unica cosa necessaria”.
Con l’altrettanto assurda difesa del “cattivo poeta”, 264 - “Si va ora raccontando che Heidegger sarebbe un cattivo poeta, ma non un filosofo”. Il cattivo non gli va, il poeta sì. Nei quaderni, anche in questi, non si risparmia le rimette - “E se il pensiero opportuno, che cerca di pensare l’Essere, fosse un  poetare?” Lo stesso curatore Trawny inavvertitamente ripete la critica: “Non di rado la scrittura di Heidegger trapassa in uno stile espressivo che imita l’eloquio e il tono di Hōlderlin”, 693.
L’errore del Rettorato
Nel quaderno successivo, “Note III”, il Rettorato ritorna in altra specie “Il mio errore nel 1933 non fu un errore politico. Mi sbagliai nella relazione essenziale tra le scienze e il pensiero”. Ma questo, poco prima, pp. 344-5, aveva detto in sostanza errore politico, di giudizio, di opportunità: “Forse un giorno qualcuno scoprirà che nel discorso del Rettorato del 1933 era stato fatto un tentativo di pensare in anticipo questo processo del compimento della scienza nel perire del pensiero, di portare di nuovo il sapere, in quanto sapere dell’essenza, al pensiero, non però di consegnarlo a Hitler – perché il partito fece combattere questo discorso in tutti  raduni di docenti?” E di nuovo, di seguito: “Certo non perché esso”, il discorso, “come l’opinione pubblica mondiale dà a intendere, ha tradito l’università per il nazionalsocialismo. Forse un giorno qualcuno, che sia libero da malevolenza e aperto al destino del mondo, scoprirà che in quell discorso era pensato un attimo del destino della scienza occidentale.” Un “errore” tra virgolette seguito da finta ammenda, sprezzante: “Tali osservazioni non vogliono giustificare il Rettorato. La gestione fu sbagliata. Forse perfino il discorso fu un errore, precisamente lo fu il fatto di averlo tenuto, perché non si deve parlare dei colori ai ciechi”.
E che errore fu, il Rettorato, si chiederà alla fine, a fronte di quelli di Churchill? Che ora attacca Stalin ma “per anni” è stato con Stalin. Qualcosa qui, però, concedendo alla storia. “Io non vorrei paragonarmi a Winston Churchill”, scrive a p. 613: “Non mendico nemmeno indulgenza per la mia attività dei dieci mesi di rettorato trascorsi tra il 1933 e il 1934. Vorrei solo che si considerasse una cosa: dacché oggi continua a levarsi, con ingiurie e menzogne, un grido di vendetta, l’attività politica non sarà forse un pretesto per screditare il mio pensiero?” Dunque, ci fu un Heidegger in “attività politica”.
Polemista
Il perché è spiegato anch’esso all’inizio, 10. È “il dissidio” col dopoguerra. Di questi quaderni si dà la datazione 1942-1948, è necessario tornare sul tema cronologia, ma già le prime pagine di “Note I” sono del dopoguerra, tra sconfitta, occupazione e denazificazione (radiazione dall’insegnamento). In questa chiave si potrebbe anche leggerlo, leggere questi quaderni. Di un polemista, certo serioso ma come i peggiori (migliori) polemisti del deprecato “giornalismo”, alla Malaparte, alla Pasolini. Che “si fa” l’avversario, si costruisce il pupazzo da attaccare – la cosa contestata.
Da polemista, quindi terra terra, queste “Note” sono una vindicatio. Orgogliosa e sprezzante. Di “Essere e tempo”. Del “pensiero rammemorante”. Nella reviviscenza della “dimensione estetica”.dell’“estasi dell’apertura”, che si manifesta col “l’entrata nella terra natia” – proprio quella alemanna. Anche in versi cantabili, 361: “Nella tua stanza lo hai inventato?\ Oppure in dono dopo ore ti è arrivato,\ il cui corso ha deciso\ che cosa è canto, che cosa grido,\ che cosa è saga che la differenza ha diviso?”
Bugiardo
Con poche curiosità. Una mezza difesa del suo proprio volagisme, gli incapricciamenti sessuali – parla di amore, ma in lui è solo sesso. Dei silenzi, quando non erano bugie, di cui li ricopriva, a p. 250 – il silenzio come bugia non detta: “Pochi uomini sanno o comprendono in che senso a un amore appartenga il tacere”. La moglie gli rimprovera nelle lunghe corrispondenze le bugie, lui opta, verso i sessanta, per il silenzio. .
Adolescenziale sempre: “Il pensiero autentico è determinate da «coraggio» per ciò che è inutile”, 11. Noi siamo, “siamo storici”, “in base all’appartenenza all’essenza della storia”. E dove sembra logico non lo è: “Il grado più alto della tecnica sarà raggiunto quando essa, in quanto consumo, non avrà più nulla da consumare – se non se stessa” – l’umanità non è innovazione, non si distingue per il fare?, non vive nell’inattività, nella sopravvivenza, nell’isolamento.
Esoterico, ieratico, inziatico
Il restante esoterismo è conseguente. Parole in libertà, ieratiche, iniziatiche, “La ex-istenza (lo stare fuori) della quotidianeità”. Il “carico del mondo” (Occidente, giudeo-cristianismo, storia). “Tacete nella parola. È così che fonda il linguaggio” Con un ritorno di “Wiege” e “Wage”, culla e bilancia, che articolarono una sua famosa poesia, una radice qui declinata in una mezza dozzina di accezioni, 46: culla, bilancia, via, bilancio, pesare, cullare, soppesare, osare.
Subito dopo si definisce “La questione dell’essere e del nulla”. Senza riserve: “Nella mia tesi di abilitazione apparsa nel 1916 c’è questa nota a pagina 237: «Riguardo a questo problema (quello dell’‘oggetto’), l’attore spera di poter fornire prossimamente, in una ricerca più approfondita su essere, valore e negazione, definizioni di principio»”. Cioè: “Essere e tempo” era in nuce nel 1916.
Ma il gergo resta prevalente, al § successivo, “Pensiero”, teorizzato, seppure interrogativamente: “Allora il pensiero sarebbe il mestiere del tacere?”. :
E subito dopo ancora, 112, l’abominio dell’esclusione dall’insegnamento alla liberazione estendendo all’occupazione accettata, quasi che la Germania non fosse stata occupata centimetro per centimetro: un tradimento, e uno che “non si può spacciare per una conseguenza del terrore ormai scomparso”. Una caduta nella volgarità tedesca, della Germania che non può perdere una guerra, se non perché è tradita.  Hitler è il “terrore”, ma incidentalmente, mai una riga che lo prenda di petto, lo spieghi, lo condanni per motivi specifici. Il tradimento è “ai danni del pensiero”, ai danni di Heidegger. Per “l’autoannientamnto che ora, nel tradimento al pensiero, minaccia l’esserci”.
Filippico
Come la Pizia di Plutarco, “filippizza”, sprezzante: “A che punto si è arrivati con i tedeschi?  Solo là dove essi erano già da sempre: al fatto che adesso essi scioccamente e sempre più scioccamente rinnegano la propria anima e, schernendo se stessi con lo scherno degli stranieri, abbandonano, senza avere una vaga idea di essa, la loro essenza più nascosta. Per quanto tremende da sopportare siano la distruzione e la devastazione che adesso sopraggiungono sui tedeschi e la loro terra natia, tutto questo non raggiungerà mai l’autoannientamento che ora” etc. A p. 517 dice i tedeschi “sconvolti, spossati”, al punto da  lasciarsi “rieducare da New York e da Roma” – da Roma?
Radicale, extraparlamentare si sarebbe detto un tempo: “L’università è uno strumento politico-ecclesiastico. Essa serve”. Non alla “verità”, sempre tra virgolette, bensì alle scienze, “mezzo della tecnica”, e quindi alla “formazione di una forza lavoro da esse resa necessaria”. Ma più profetico e misterico. Contro la metafisica, fino a Nietzsche compreso – difeso però contro “il cristianesimo e le alleanze internazionali”, che gli passano “via accanto lasciandoselo alle spalle”, attenendosi “alla facciata” del suo pensiero, alla “sua reazione contraria agli anni della fondazione del XIX secolo che stava per concludersi”, “a ciò che da Nietzsche viene urlato e a ciò che da lui viene insultato”, 668 – anche se “spesso si accontentò di quanto era di seconda categoria”. Contro Burkhardt e contro Schopenhauer, disprezzati. E contro la stessa filosofia.
Autoannientamenti  
Con la fissa degli “autoannientamenti”. Del pensiero, “organizzato ecclesiasticamente e partiticamente, oppure invece alimentato per smarrimento e incapacità”. Dell’“Occidente” con più insistenza – da non intendersi per Europa o Nord America. Del cristianesimo con spietatezza: “Filosofia Cattolica”? Un bluff, “non molto diverso dalla «scienza nazionalsocialista»: un cerchio quadrato, un ferro di legno”, senza “anche solo una traccia del nocciolo di una reale intuizione”, che si fa forza “andando a cercare in qualità di protettrice cattolica delle verità eterne una postazione ausiliaria dalla parte del partito comunista”. Del popolo tedesco in continuazione: “Dell’essenza universale-destinale dei tedeschi in quanti popolo pensante-poetante, in quanto cuore dei popoli”, roba del genere, vittime volenterose della “plausibile parvenza di rimuovere lo spaventoso reggimento del «nazismo»”, etc. ). E dell’“ebraismo” inteso come “giudeo-cristianesimo” – europeo, occidentale, tecnologico.
Ma con la facile consolazione, ricorrendo alla “predisposizione all’Essere”. “L’amore senza nome del pensiero inappariscente” ritrovando fin nei giochi di bambini, col fratellino Fritz, “accanto alle «cataste» di legno di quercia tagliate di fresco”. Il pensionamento imposto? Marameo, ha solo tolto “i blocchi frenanti” al “pensiero audace”.
Impolitico
L’impolitico di Hannah Arendt, un po’ fessacchiotto. Come molti altri tedeschi importanti. Ma lui sempre nello stesso senso. Pregiatore - poco ma distinto - di Hitler, e perfino di Marx. Spregiatore sempre della libertà e della democrazia. Il nazismo rimproverando ai “partiti”, gli stessi che ora vede “nella smania di combattere il «nazismo»”. Il rettorato nei confronti di Hitler? Una mezza pagina di riconsiderazione, ma di un errore minimo: non mi ero sbagliato tanto su Hitler, quanto perché “credetti fosse arrivato il tempo di diventare, non con Hitler ma con un risveglio del popolo nel suo destino” finalmente intorno e interni all’Essere, “iniziali, storici”. Non è la stessa cosa, Hitler evidentemente essendo quello del “risveglio del popolo”?
Hitler non è ben considerato, è “l’orrore”, a ogni evocazione. Ma c’è di peggio: l’opinione dominante non ha “imparato niente; sembra che in quei dodici anni non sia accaduto niente da noi  - i naufragati si riallacciano allo stato delle cose nel 1932 con in più  anche il consenso dell’estero. Si conosce solo questo, oppure l’orrore del nazionalsocialismo. Ma questo aut-aut è l’autentico errore”. Al punto che un rovesciamento non è più possible: Heidegger si considera la Germania, vera, profonda, autentica, per l’attesa dell’Essere che propone, e la Germania sbaglia a volersi come gli altri, democr atica, “internazionalista”, occidentale, invece che attendere al “destino unico”.
Farneticazioni, contro il “Grande «si»”, qui definito “Macchinazione”, l’impersonale che ci domina.
Eraclito
Molto Eraclito. Il tipo con cui si sente in sintonia: “Con i pensatori che pensano in silenzio, che non scrivono; è come un incontro nell’essenza di tutte le cose.  Allora si risveglia il quieto sapere di ciò che ancora è tenuto in serbo,  inattinto”. Mentre “laddove si agisce, tutto è perduto”. Ma scrivendo a sua volta molto e moltissimo e tutto curando per la pubblicazione.
Di pochi interessi. “Di Jean-Paul Sartre ho «letto» di recente solo poche pagine”, poiché era sui giornali nel dopoguerra – altre volte nominato tra virgolette. Altrove lo condanna come impostore. Sia lui che l’“esistenzialismo” – “l’«esistenzialismo» è «chiacchiera»”, 242, “la chiacchiera sull’esistenzialismo si smarrirà nella noia della sua stessa superficialità”, 322.. Fa per questo i conti con Jaspers, non solo per la Colpa, e con altri amici e allievi – a p. 635 contro il “«filosofare» di Jaspers” e contro “la scrittura da quattro soldi di Sartre”. Perfino, al suo modo, allusivo, con E. Jünger, che pure considera, suo coauore di “Oltre la linea”. Nonché con Goethe – la Germania di Goethe è abominio per Heidegger, come per ogni altro rivoluzionario conservatore. Su Husserl, suo maestro, poi trascurato, ha un pagina eccezionalmente chiarificatrice, 587-8.
Solitario
Un percorso intimo di una rigidezza sconcertante. Mai interrogative. Mai un dubbio – uno vero, non antifrastico. “Allievi non ne ho avuti, perché nessuno è diventato per me stesso un insegnante”, 480. E uno pensa ai suoi tanti allievi, professi e non. Ma poi, 635, li rivendica, sempre in chiave misantropica: “Sono stati furiosamente bollati come eretici e stigmatizzati in quanto unilaterali non solo i miei lavori, bensì anche certi buoni lavori dei miei allievi sulla filosofia greca, su Plotino, Meister Eckhart, Leibniz, Kant, Hegel, Nietzsche. In seguito li si è poi vigorosamente e da molte parti sfruttati, e infine sono stati taciuti”.  Lui solitario nell’“aria densa delle altezze, 481. Dove “il giusto tacere tace anche se stesso”, 480. Quello di Heidegger è un tacere ingiusto?
Uno scoppio prolungato di amarezza, un uomo esacerbato, dalla sua stessa improntitudine, non si può pensare un “uomo di pensiero” così astioso.
Martin Heidegger, Note I-V (Quaderni neri 1942-1948), Bompiani, pp. 701 € 30