La
prima testimonianza diretta dei lager,
della struttura burocratica, la degradazione fisica e morale dei prigionieri in
Germania, le turpitudini, fino al coinvolgimento dei prigionieri stessi nelle
nelle crudeltà e le torture, era disponibile già nel 1945. Rousset,
sopravvissuto a Büchenwald e a quattro campi di lavoro, compreso
Dora-Mittelbau, dove si fabbricavano i missili di Von Braun, lo scrisse nell’agosto
1945, e lo pubblicò pochi mesi dopo, a inizio 1946. Una testimonianza socio-politica,
concisa e strutturata: la descrizione minuziosa e ripetuta degli apparati repressivi,
e una lettura dell’abiezione che vi si esercitava, delle sue forme e della sua natura.
Ci tornerà su dopo un anno
con il voluminoso “I giorni della nostra morte”, una narrativa di un migliaio
di pagine di cose viste o sentite nei lager
dove era stato rinchiuso, e anche in altri, Auschwitz-Birkenau inclusi. Dove porterà
a sintesi l’analisi avviata con questo primo saggio: “La vittima e il carnefice
sono egualmemhte ignobili e la lezione dei lager è la fratellanza nell’abiezione”.
Questa reductio intellettualistica, contestabile, lo isolerà – ma qui è esposta
con più senso. Ugualmente contestata, per motivi politici, l’osservazione che le
SS lasciavano ai responsabili dei campi la scelta di chi mandare a morte, in corvées micidiali o semplicemente, per
prostrazione, dritti al crematorio, e i kapò
comunisti ci mandavano gli altri. La cosa sarà giustificata ancora qualche anno
dopo da Simone de Beauvoir, “Per una morale dell’ambiguità”: “Dal momento che
in nessun modo si poteva eludere l’atrocità di questi massacri, l’unico partito
era di tentare, nella misura del possible, di razionalizzarla”. Ma già ad
agosto del 1945 tutto si sapeva, se non altro per questa testimonianza. Che,
benché contestata, fece epoca.
Rousset,
che finirà deputato gollista nel 1968, in un partito, Udr, che lo ha visto tra i
fondatori, è stato un militante per diritti umani e civili, si direbbe oggi,
fin da ragazzo. Di formazione filosofica, fu presto trockista. Per questo
espulso dal partito Socialista nel 1935, contribuì a fondare il Partito Operaio
Internazionalista (Poi). Fu corrispondente di “Fortune “ e “Time”, mentre
militava contro il colonialismo in Algeria e Marocco. Fu arrestato il 16
ottobre del 1943, per avere tentato approcci politici verso i soldati tedeschi.
Finirà isolato nel dopoguerra, oltre che per il ruolo dei kapò comunisti nei lager,
per avere denunciato per primo e con costanza i gulag sovietici – mentre a destra lo isolava il suo impegno
costante contro le guerre coloniali, in Indocina e in Algeria. Con Sartre – che
l’anno dopo se ne dissocerà per avvicinarsi al partito Comunista - aveva fondato
nel 1948 un Rassemblement Démocratique Révolutionnaire. Sempre alla ricerca di
una “terza forza, e sempre isolato.
Didascalica
e pignola, la testimonianza di Rousset non ebbe la forza evocativa che avrà Primo
Levi. Suscitò passioni politiche ma non lo scandalo, che poi prenderà la dimensione
e la consistenza dell’Olocausto. Anche perché lui è personalmente passato per i
campi di lavoro e non per quelli di sterminio. Ma ne ha già i materiali, e i
riferimenti. “La fuga allucinante” degli ultimi giorni “davanti agli americani”.
I “musulmani” –queli che non sarebbero sopravvissuti. Lo humour: “La scoperta
appassionante dello humour, non in quanto proiezione personale ma come
struttura obiettiva dell’universo. Ubu e Kafka perdono i tratti d’origine
legati alla loro storia per divenire componenti materiali del mondo”.
Una
prosa secca, anche quando si vuole commossa. Ma informata e informante. Rousset
sa anche, agosto 1945, dei “campi di Ebrei e Polacchi: la distruzione e la
tortura industrializzate su vasta scala” – compreso Birkenau, dove lavorava
Primo Levi, “”la più grande città della morte”. Con la bizzarria dei
coinvolgimento degli internati “in attività di ricerca”.
Si
può anche dire che anticipa Hannah Arendt e la “banalità del male” al processo
Eichmann: la burocrazia del male. Con una sociologia in questo caso molto
aderente. Che porta alla complicità di tutti nell’abiezione, vittime e
carnefici – o la difficoltà di non cedere al male, quasi impossibile. La “burocrazia”
del male, inerte e inesorabile, Rousset documenta inappellabile. La disonestà,
se non la crudeltà, è materia di vita: rubare, mentire, anche denunciare.
L’abiezione viene come espiazione – l’assunto è al centro del
saggio, “Le ore sileziose delle SS”: “I campi di concentramento sono la
sorprendente e complessa macchina dell’espiazione”. Anche senza colpa: “Il
comunista, il socialista, il liberale tedesco, i rivoluzionari stranieri, i resistenti,
sono le figurazioni attive del Male. Ma l’esistenza oggettiva di certi popoli,
di certe razze: gli Ebrei, i Polacchi, i Russi, è l’espressione statica del
Male. Non è necessario a un Ebreo, a un Polacco, a un Russo, di agire contro
il nazionalsocialismo: sono di nascita, per predestinazione, eretici non
assimilabili, votati al fuoco apocalittico. La morte non ha dunque un senso completo.
L’espiazione sola può essere soddisfacente, calmante per i Signori”. Attraverso
la tortura, lo sfinimento, l’autodistruzione: “Solo questa filosofia spiega la geniale
concatenazione delle torture, la raffinamento complesso che le prolunga nella
durata, la loro industrializzazione, e tutte le component dei campi”.Un
arsenale interminabile: “La presenza dei criminali di diritto comune, la messa
in comune brutale delle nazionalità frantumando ogni comprensione possibile, la
mescolanza calcolata dei ceti sociali e delle generazioni, la fame, la paura
permanente infissa nei cervelli, i colpi – tanti fattori il cui solo sviluppo
oggettivo, senza altri interventi, conduce a quella disgregazione dell’individuo
che è l’espressione più totale del’espiazione”. Il resto è semplice: “La morte
non sprigiona che poco terrore.Le lunghe file silenziose di impiccati non
irradiano che mediocri turbamenti. La tortura in permanenza, trasformata in
condizione naturale di essere, intrattiene una paura altrimenti potente”. Un’arma
di efficacia singolare: “I campi castrano i cervelli liberi”.
Sembra alambiccato, ma altrimenti
non c’è scampo per i sopravvissuti – la catena del Male si prenderebbe anche i non
morti, soprattutto loro. Una
riflessione affrettata ma con solidi punti di riferimento. Anche perché opera
di un germanofilo, in gioventù e dopo. Che al centro della trattazione pone pure questo avviso: “L’odio insensato che presiede e comanda tutte queste
imprese è fatto dello spettro di tutti i rancori, di tutte le ambizioni
meschine deluse, di tutte le invidie, di tutti i dispiaceri generati dalla
straordinaria decomposizione delle classi medie tedesche tra le due guerre.
Pretendere di scoprirvi gli atavismi di una razza è precisamente fare eco alla
mentalità SS”.
David
Rousset, L’univers concentrationnaire,
Les Éditions de Minuit, pp. 159 € 11
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