domenica 6 gennaio 2019

Il Male perfetto come espiazione


La prima testimonianza diretta dei lager, della struttura burocratica, la degradazione fisica e morale dei prigionieri in Germania, le turpitudini, fino al coinvolgimento dei prigionieri stessi nelle nelle crudeltà e le torture, era disponibile già nel 1945. Rousset, sopravvissuto a Büchenwald e a quattro campi di lavoro, compreso Dora-Mittelbau, dove si fabbricavano i missili di Von Braun, lo scrisse nell’agosto 1945, e lo pubblicò pochi mesi dopo, a inizio 1946. Una testimonianza socio-politica, concisa e strutturata: la descrizione minuziosa e ripetuta degli apparati repressivi, e una lettura dell’abiezione che vi si esercitava, delle sue forme e della sua natura.
Ci tornerà su dopo un anno con il voluminoso “I giorni della nostra morte”, una narrativa di un migliaio di pagine di cose viste o sentite nei lager dove era stato rinchiuso, e anche in altri, Auschwitz-Birkenau inclusi. Dove porterà a sintesi l’analisi avviata con questo primo saggio: “La vittima e il carnefice sono egualmemhte ignobili e la lezione dei lager è la fratellanza nell’abiezione”.
Questa reductio intellettualistica, contestabile, lo isolerà – ma qui è esposta con più senso. Ugualmente contestata, per motivi politici, l’osservazione che le SS lasciavano ai responsabili dei campi la scelta di chi mandare a morte, in corvées micidiali o semplicemente, per prostrazione, dritti al crematorio, e i kapò comunisti ci mandavano gli altri. La cosa sarà giustificata ancora qualche anno dopo da Simone de Beauvoir, “Per una morale dell’ambiguità”: “Dal momento che in nessun modo si poteva eludere l’atrocità di questi massacri, l’unico partito era di tentare, nella misura del possible, di razionalizzarla”. Ma già ad agosto del 1945 tutto si sapeva, se non altro per questa testimonianza. Che, benché contestata, fece epoca.
Rousset, che finirà deputato gollista nel 1968, in un partito, Udr, che lo ha visto tra i fondatori, è stato un militante per diritti umani e civili, si direbbe oggi, fin da ragazzo. Di formazione filosofica, fu presto trockista. Per questo espulso dal partito Socialista nel 1935, contribuì a fondare il Partito Operaio Internazionalista (Poi). Fu corrispondente di “Fortune “ e “Time”, mentre militava contro il colonialismo in Algeria e Marocco. Fu arrestato il 16 ottobre del 1943, per avere tentato approcci politici verso i soldati tedeschi. Finirà isolato nel dopoguerra, oltre che per il ruolo dei kapò comunisti nei lager, per avere denunciato per primo e con costanza i gulag sovietici – mentre a destra lo isolava il suo impegno costante contro le guerre coloniali, in Indocina e in Algeria. Con Sartre – che l’anno dopo se ne dissocerà per avvicinarsi al partito Comunista - aveva fondato nel 1948 un Rassemblement Démocratique Révolutionnaire. Sempre alla ricerca di una “terza forza, e sempre isolato.
Didascalica e pignola, la testimonianza di Rousset non ebbe la forza evocativa che avrà Primo Levi. Suscitò passioni politiche ma non lo scandalo, che poi prenderà la dimensione e la consistenza dell’Olocausto. Anche perché lui è personalmente passato per i campi di lavoro e non per quelli di sterminio. Ma ne ha già i materiali, e i riferimenti. “La fuga allucinante” degli ultimi giorni “davanti agli americani”. I “musulmani” –queli che non sarebbero sopravvissuti. Lo humour: “La scoperta appassionante dello humour, non in quanto proiezione personale ma come struttura obiettiva dell’universo. Ubu e Kafka perdono i tratti d’origine legati alla loro storia per divenire componenti materiali del mondo”.
Una prosa secca, anche quando si vuole commossa. Ma informata e informante. Rousset sa anche, agosto 1945, dei “campi di Ebrei e Polacchi: la distruzione e la tortura industrializzate su vasta scala” – compreso Birkenau, dove lavorava Primo Levi, “”la più grande città della morte”. Con la bizzarria dei coinvolgimento degli internati “in attività di ricerca”.
Si può anche dire che anticipa Hannah Arendt e la “banalità del male” al processo Eichmann: la burocrazia del male. Con una sociologia in questo caso molto aderente. Che porta alla complicità di tutti nell’abiezione, vittime e carnefici – o la difficoltà di non cedere al male, quasi impossibile. La “burocrazia” del male, inerte e inesorabile, Rousset documenta inappellabile. La disonestà, se non la crudeltà, è materia di vita: rubare, mentire, anche denunciare.
 L’abiezione viene come espiazione – l’assunto è al centro del saggio, “Le ore sileziose delle SS”: “I campi di concentramento sono la sorprendente e complessa macchina dell’espiazione”. Anche senza colpa: “Il comunista, il socialista, il liberale tedesco, i rivoluzionari stranieri, i resistenti, sono le figurazioni attive del Male. Ma l’esistenza oggettiva di certi popoli, di certe razze: gli Ebrei, i Polacchi, i Russi, è l’espressione statica del Male. Non è necessario a un Ebreo, a un Polacco, a un Russo, di agire contro il nazionalsocialismo: sono di nascita, per predestinazione, eretici non assimilabili, votati al fuoco apocalittico. La morte non ha dunque un senso completo. L’espiazione sola può essere soddisfacente, calmante per i Signori”. Attraverso la tortura, lo sfinimento, l’autodistruzione: “Solo questa filosofia spiega la geniale concatenazione delle torture, la raffinamento complesso che le prolunga nella durata, la loro industrializzazione, e tutte le component dei campi”.Un arsenale interminabile: “La presenza dei criminali di diritto comune, la messa in comune brutale delle nazionalità frantumando ogni comprensione possibile, la mescolanza calcolata dei ceti sociali e delle generazioni, la fame, la paura permanente infissa nei cervelli, i colpi – tanti fattori il cui solo sviluppo oggettivo, senza altri interventi, conduce a quella disgregazione dell’individuo che è l’espressione più totale del’espiazione”. Il resto è semplice: “La morte non sprigiona che poco terrore.Le lunghe file silenziose di impiccati non irradiano che mediocri turbamenti. La tortura in permanenza, trasformata in condizione naturale di essere, intrattiene una paura altrimenti potente”. Un’arma di efficacia singolare: “I campi castrano i cervelli liberi”.
Sembra alambiccato, ma altrimenti non c’è scampo per i sopravvissuti – la catena del Male si prenderebbe anche i non morti, soprattutto loro. Una riflessione affrettata ma con solidi punti di riferimento. Anche perché opera di un germanofilo, in gioventù e dopo. Che al centro della trattazione pone pure questo avviso: “L’odio insensato che presiede e comanda tutte queste imprese è fatto dello spettro di tutti i rancori, di tutte le ambizioni meschine deluse, di tutte le invidie, di tutti i dispiaceri generati dalla straordinaria decomposizione delle classi medie tedesche tra le due guerre. Pretendere di scoprirvi gli atavismi di una razza è precisamente fare eco alla mentalità SS”.   
David Rousset, L’univers concentrationnaire, Les Éditions de Minuit, pp. 159 € 11

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