Area grigia
– Sul “Corriere della sera” ieri Donatella Di
Cassare contesta il concetto e la definizione di “area grigia” che Primo Levi
aveva formulato per tutta quella serie di collaborazioni che l’organizzazione
tedesca – sintetizzata nelle SS – aveva istituito e riceveva nei lager, le strutture concentrazionarie
create per i detenuti politici, o come campi di lavoro forzato, e infine di
sterminio. Lo fa ricordando Shlomo Venezia, un forte ebreo di Salonicco,
cittadino italiano di passaporto, protetto fino ai vent’anni dalle truppe
d’occupazione italiane, ma dopo l’8 settembre, malgrado gli ultimi
lasciapassare, deportato subito dai tedeschi – i quali non avevano altra occupazione
maggiore, va notato. La madre e le due sorelle adolescenti morirono a Auschwitz,
Shlomo si salvò in quanto aggregato a un Sonderkommando, quello addetto
all’eliminazione dei cadaveri, mediante cremazione, fosse comuni, fuochi
all’aperto – l’eliminazione dei morti non era sempre “igienica”, come si dice,
nei forni crematori.
Shlomo Venezia ha reso la sua testimonianza in
francese, una quindicina di anni fa, intervistato da Béatrice Prasquier, con
prefazione di SimoneVeil, la prima presidente del Parlamento Europeo, nel 1979,
deportata ad Auschwitz sopravvissuta, che di Venezia elogia l’“onestà
irreprensibile”. Primo Levi aveva invece orrore delle forme di collaborazione
che i deportati avevano assicurato all’organizzazione dello sfruttamento e
dello sterminio. Non se li spiegava. “Questo è un argomento veramente
ustionante”, ripeteva da ultimo, nell’“Intervista”, 1983: “Io rimango atterrito
davanti a questa faccenda”. Non che non avesse indagato: “Ci sono alcuni casi
di gente che ha preferito farsi uccidere piuttosto che entrare nei Sonderkommando. Alcuni non l’hanno fatto”. Specialmente i I Sonderkomando,
i commando speciali, tra le tante forme di collaborazione, atterrivano Primo
Levi.
Di Cesare contesta
Primo Levi. Intanto perché era in un campo di lavoro, alla Buna-Monowitz, e non
di sterminio – ma da Monowitz vedeva i forni di Auschwitz e Birkenau, e sapeva,
come tutti, di tutto. E più in generale, pone la questione degli “esecutori
volenterosi”: “È
tempo….di sollevare una questione troppo a lungo tabuizzata. Shlomo Venezia ha rivelato il suo «terribile segreto»
solo dopo la morte di Primo Levi, che aveva puntato l’indice contro i membri
delle Squadre speciali ricorrendo a termini molto duri, a verdetti non di rado
sprezzanti. Proprio in quel contesto aveva coniato l’espressione «zona grigia»
con cui rinviava alla «complicità» di coloro che erano stati costretti alla
colpa.
“Aveva
ragione quando scrisse che le Squadre erano state «il delitto più demoniaco del
nazionalsocialismo». Ma per il resto lui,
che parlava da Auschwitz-Monowitz, campo di concentramento, non di sterminio,
avrebbe forse dovuto rivedere il suo giudizio a partire dalla testimonianza di
Shlomo Venezia. Quell’industrializzazione della morte, che nelle officine
hitleriane ha evitato il faccia a faccia con le vittime, è stato il sapiente
trionfo dell’anonimato e l’intenzionale frantumazione della responsabilità.
Così i criminali tentarono in seguito di definirsi innocenti”. Quindi aggiunge:
“Oggi sappiamo che, se c’è stata resistenza, se c’è stata rivolta, ciò è
avvenuto grazie ai membri del Sonderkommando”.
Questo però non è
vero. Anche perché non c’era sabotaggio possibile. Le altre testimonianze sull’organizzazione
dei lager, non solo quella di Primo
Levi, sono concordi nel coinvolgimento dei deportati nelle attività di
controllo e selezione, dell’alimentazione, del lavoro, dell’ordine, nei campi e
fuori, nei luoghi di lavoro, delle punizioni e delle morti. La prima testimonianza,
“L’universo concentrazionario” di David Rousset nell’estate del 1945, ha una
galleria di tedeschi “estremi”, di diritto comune e politici (socialisti,
comunisti, terroristi), testimoni di Geova, trafficati e borsaneristi, nell’organizzazione
dei lager: Kapò di vario tipo, di camerata,
di blocco, di squadra di lavoro, di mensa, Meister, Vorarbeiter, Blockältester,
Lagerältester, Blockführer, et al.
Scelti tra i prigionieri: tedeschi politici e di diritto comune, polacchi, russi,
francesi, ebrei etc. Responsabili pratici di ogni evento della vita concentrazionaria,
dal favore alla morte – l’SS domina da remoto. Ciò non va sottovalutato per una
collocazione esatta della Shoah nella struttura concentrazionaria - nel
complesso dell’abominio che H.Arendt ha sintetizzato come “banalità del male”:
la rete di attendismo, della violenza fine a se stessa, perfino senza malanimo,
da una parte e dall’altra, dell’attendismo se non della rassegnazione, contando
su privilegi minimi e scappatoie.
Quella di Venezia è testimonianza efficacemente onesta: semplice e veritiera. È
anche, sul piano storico, testimonianza indiretta ma inoppugnabile – nelle cose
- di due fatti introvabili per gli storici: la Soluzione Finale, e
l’antisemitismo comune fra i tedeschi, non solo dei nazisti o delle SS. Fino al
1942 non ci sono deportazioni. Mentre ci sono angherie, anche violente, dei
soldati tedeschi. In un discorso tenuto al Senato il 17 ottobre del 2012, sul
disegno di legge che introdurrà nella successiva legislatura il reato di negazionismo,
la stessa Di Cesare aveva sottolineato, ricordando la morte di Shlomo Venezia,
interventuta il giorno precedente a Roma, il valore di testimonianza
incontestabile della sua memoria. Non “negazionista”.
Ha ragione Levi. Due anni dopo Rousset, “L’espèce
humaine” di Robert Antelme, lo scrittore filosofo ex marito di Marguerite
Duras, confermava il dettaglio di
Rousset, con una nota inquietante sulla natura contagiosa del male. Su quello
che Blanchot chiamerà in “L’infinito intrattenimento”, leggendo Antelme, “l’egoismo
senza ego”. Il vecchio istinto di sopravvivenza, di quando la morale non era
stata inventata.
Eccezionalismo americano – È un
altro termine per populismo, meno sgradito
politicamente ma più incisivo, non da oggi. Seymour Martin Lipset, “American
Exceptionalism”, che ne fa nel sottotitolo “A double edged sword”, un’arma a doppio
taglio, ne fa comunque un’arma. Anche se per “american exceptionalism”, dice, s’intende
una cosa sola, e semplice: la mancanza di un forte sindacato socialista e di un
partito laburista nella storia americana – storia unica, si può aggiungere, fra
tutte quelle di Occidente. le storie dell’Occidente.
Una questione, in questi
limiti, nata già con Engels, che ne fece il problema principale dei suoi ultimi
dieci anni di vita. Werner Sombart si pose il problema in un’opera apposita,
“Perchè non c’è il socialismo negli Stati Uniti?”, 1906. Nello stesso anno lo
stesso quesito poneva H.G.Wells, allora giovane attivista fabiano (socialista)
in “The Future in America”.
Sarà un problema anche per Lenin e Trockij, che
Marx non funzionasse in America. E non c’è rimedio, conclude Lipset
introducendo la sua ricerca, sotto forma di interrogativo retorico: “Perché l’America
è stata la società politica più classicamente liberale al mondo dalla sua
fondazione al presente”.
Il liberalismo della società americana è ora da
più parti contestato, su base storica e di sociologia politica. Ma l’eccezione
continua: il liberalismo americano si spinge a sinistra (Kennedy, Obama),
appena appena più in la del centro. E quando ci riesce lo fa negandosi. Per
alcuni decenni l’eccezione si è rafforzata con la paura del comunismo
sovietico. Ma, poi, non ne ha bisogno. Lipset spiega infine l’“eccezione” prospettando
gli Usa come il paese dell’eguaglianza, Cioè no, “più uguale”. Non nel senso di
Orwell - “tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali di altri” –
ma comparativamente, con le società europee migliori. Che è vero, naturalmente,
e non è vero: i diritti si pesano e non si contano.
Lipset porta a testimone Edmund Burke, che da
giovane, il 22 marzo 1775, aveva tentato di proporre al Parlamento inglese “la riconciliazione
con le colonie americane”. Secondo Lipset sul presupposto della “diversità”
degli americani, degli inglesi d’America, a motivo del loro senso della
religione che oggi diremmo integralista, per una sorta di vangelo
dell’uguaglianza. Ma non è così. Burke faceva un conto dell’importanza economica degli Stati
Uniti – che nel 1772 assorbivano da soli tutte le esportazioni
inglesi nel mondo di settant’anni prima. E prospettava la pace come unica
soluzione possibile – “l’uso della sola forza non può essere che temporaneo”. Con la concessione agli inglesi
d’America dei diritti di rappresentanza politica – proponeva un progetto costituzionale
in cinque punti.
La diversità invece colpirà Tocqueville, la
diversità americana, e fonda il suo classico “La democrazia in America”, 1831,
a mezzo secolo dall’indipendenza americana, e quando ancora l’America contava pochi
stati comunità: “La posizione degli Americani è perciò davvero eccezionale e si può ritenere che nessun popolo democratico verrà mai a trovarsi in una posizione simile. La loro origine strettamente puritana, i loro costumi esclusivamente commerciali, persino il Paese che abitano, che sembra sviare le loro menti dalla ricerca della scienza, della letteratura e dell’arte, la prossimità con l’Europa, che permette loro di trascurare queste ricerche senza scadere nella barbarie, un migliaio di motivazioni speciali, di cui sono stato capace di rilevare soltanto le più importanti, hanno concorso singolarmente a fissare la mente degli Americani su obiettivi puramente pratici. Le loro passioni, i loro desideri, la loro educazione, ogni cosa sembra concorrere al proposito di attirare i nativi degli Stati Uniti verso le cose terrene; persino la loro religione, che permette ad essi, di tanto in tanto, un'occhiata fugace e distratta al paradiso”. Un caso particolare, in realtà, intende Tocqueville, che conclude: “Lasciateci smettere, allora, di vedere tutte le nazioni democratiche alla luce dell’esempio del popolo americano”. Che equivale anche a dire: l’America non è esemplare.
astolfo@antiit.eu
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