È
il racconto del viaggio di Giuseppe e Maria verso Betlemme, per il censimento. Per
ridare vivacità all’aneddoto pio e all’oratorio classico, Perrucci vi
introdusse una vena eroicomica, grazie al linguaggio misto, che al dialetto nelle
sue forme più vivaci, anche scurrili malgrado la sacertà, intervalla la lingua accademica,
arcadica.
Un
ripescaggio geniale, come i suoi tanti della tradizione napoletana, di De
Simone. Che da musicologo accompagna l’azione scenica con parti cantate e
ballate su melodie e ritmi tradizionali. Con una curiosa sovversione: l’opera
teatrale si era data ogni anno per l’Avvento liberamente nella Napoli presunta
bacchettone e clericale, in una parola borbonica, mentre venne censurata
dall’Italia laica risorgimentale - che non aveva a cura tanto la morale quanto
la religiosità popolare che si coagulava nella rappresentazione? La boicottò, e
nel 1899 la proibì – Benedetto Croce ne dette l’annuncio perplesso: “Debbo
segnalare la fine di questa secolare tradizione, perché in questo Natale 1899
il prefetto di Napoli, Conte Cadronchi, l’ha spezzata proibendo d’ora innanzi
la recita natalizia, per ragioni di ordine e decenza pubblica”.
Nella
rappresentazione Belfagor, Satana e ogni altro obiettore fanno di tutto per
impedire il viaggio a Betlemme. Ma l’Arcangelo Gabriele veglia, e con lui due
napoletani veraci, Strazzullo, scrivano e gabelliere, e Sarchiapone, gobbo, “barbiere
pazzo e omicida”, maestro nell’arte di arrangiarsi.
Roberto
De Simone, La cantata dei pastori,
Teatro Politeama, Monte di Dio, Napoli
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