È l’aprile del ’45, i lager sono via via liberati, all’arrivo
dei convogli di internati a Parigi si redigono le liste dei sopravvissuti,
Marguerite Duras le segue con apprensione: come giornalista, si procura le
liste per pubblicarle sul suo giornale, ma è anche moglie di un deportato,
Robert L. (Leroy, nome in codice nella Resistenza: è lo scrittore Robert Antelme).
“Il dolore” è il racconto dell’attesa, e poi, dopo il fortunoso salvataggio di Robert,
di una convalescenza lentissima, tra la vita e la morte. Che si compirà, un
paio di estati dopo, a Bocca di Magra, ospiti di Ginetta e Elio Vittorini. Dove
Robert riesce ad alzarsi dalla sdraio e avvicinarsi al mare, accompagnato da
questa riflessione di Marguerite: “Non è morto al campo di concentramento”.
Un racconto di espiazione.
Che Duras finge di avere redatto giorno per giorno a suo tempo, e ritrovato per
caso nel 1984, quando lo pubblica. Quando Antelme è vecchio e malandato – morirà
qualche anno dopo. Marguerite lo ha cercato, salvato e curato col suo amante,
D.(Dyonis Mascolo), che poi ha deciso di sposare. E a Robert che le chiede se
dopo il divorzio potrà rivederla, racconta, ha risposto di no. A Bocca di Magra
in realtà Antelme era già l’autore celebrato di un classico sui lager nazisti, “La specie umana”, uscito
nel 1947 - che Vittorini tradurrà.
La storia vera è ancora più
complicata. Marguerite viveva con D. già da due anni, quando Robert l’1 gugno
1944 è stato arrestato dalla Gestapo. Una sorte di ménage à trois, rafforzato dalla comune appartenenza allo stesso
nucleo della Resistenza, quello di Mitterrand (“Morland”) – il futuro
presidente nel racconto è specialmente efficiente: riesce a evitare l’arresto
di Marguerite quell’1 giugno, ritrova Robert a Dachau nel lazaretto degli incurabili,
sospetto di tifo, lo trafuga travestito da ufficiale francese, e lo porta in
salvo a Parigi. Sposa di Robert Antelme dal 1939, Marguerite con lui aveva
avuto un figlio nato morto nel 1942, poco prima, o subito dopo, l’avvio della
relazione con Mascolo. Tutt’e tre poi militeranno nel partito Comunista
fracese, che nel 1950 si servirà dello “scandalo” per espellerli. La decisione
era amturata per l’insofferenza dei tre allo stalinismo: fu presa quando Duras ne
fece una critica su “France Observateur”, poi “Le Nouvel Observateur”, il
settimanale radicalsocialista. Ma la motivazione fu l’immoralità. Dopo un
processo politico in cui l’accusa fu affidata a Henri Lefebvre, allora
“filosofo del partito”, allievo dei gesuiti, invano difesa da Edgar Morin. “La
mia fiducia nel partito resta intatta”, lei ribattè. Ma anche: “Forse mi
trattano da puttana perché non trovano altro”. S’era iscritta nel ‘44 omettendo di dirsi scrittrice,
“perché il Partito non amava gli intellettuali1”.
Tutto questo non c’è nel
racconto, ma gli dà il tono. Il racconto dell’attesa dei sopravvissuti, a mano
a mano che la Germania era occupata dagli Alleati e i prigonieri – politici,
S.T.O.(Service Travail Obligatoire, il lavoro forzato) ed ebrei – venivano
liberati e rimpatriati. In una Parigi già in mano a De Gaulle, e ai gollisti
tronfi, dame di carità in rutilante divisa, coi gallon, e il disprezzo per la
gente comune. Poi racconto del salvataggio del morto vivente Robert – “quando
c’è il sole, si vede attraverso le sue mani”. Grazie a D., “il suo migliore
amico”.
Le
vicende reali dietro i due racconti purtroppo non sono come Duras le presenta. E
questo, sapendolo, ne rende la lettura indigesta - un saggio breve, a firma
Gabriel Jacobs, sul “Journal of Romance Studies”, n. 2, 1997, “Spectres of Remorse: Duras’s War-Time
Autobiography,” dice la raccolta “una prolungata espiazione della colpa”. Ma
la lettura vergine dei fatti reali, come il film “La douleur” l’ha trascitta in
immagini, o forse proprio per questo, per il camuffamento, sfiora il
capolavoro.
“Il dolore” è assortito da
cinque altri racconti, del tipo venuto in voga negli anni 1980, della
trasgressione con collaborazionisti, delatori e miliziani – specie non più
bandita ma gente come noi, “che aveva le sue ragioni”. “Il Signor X., detto qui
Pierre Rabier”, è dell’infatuazione che Marguerite corre col francese della
Gestapo che ha arrestato Robert. Un romanzo breve. Che Duras ha la tentazione
di allargare, il francese gestapista facendo “probabilmente” tedesco, con un
nome falso preso da un congiunto morto, che lavora come francese per la Gestapo
perché ha carichi pendenti in Germania - ma poi avrà pensato che non poteva
fare i tedeschi della Gestapo stupidi. “Rabier” ammira Marguerite perché la sa
scrittrice, ha visto un suo romanzo sul tavolo di Robert quando lo ha arrestato.
E ha tutto pronto, “l’impero vincerà”, per fare il libraio d’arte. Sono i mesi
di giugno e luglio 1944, i tedeschi hanno deciso di lasciare Parigi – la capitale
sarà liberate ad agosto – ma “Rabier” porta Marguerite per ristoranti e bistrò
stracolmi di ogni ben di Dio malgrado i cinque anni già trascorsi di guerra,
frequentati dai tedeschi e dai francesi filotedeschi.
Seguono testi che Duras vuole
“sacrés”, e avvenuti. In uno, “Albert des Capitales”, tortura un informatore
dei tedeschi. In due, “Ter il miliziano” e “L’ortica spezzata”, ha “voglia di
farci l’amore”, col miliziano – ma è un informatore - giovane menefreghista,
anche davanti alla morte. L’utimo, “Aurelia Paris”, è “inventato, letteratura”:
un omaggio, d’“amour fou per una piccola
ebrea abbandonata”.
Marguerite Duras, Il dolore, Feltrinelli, pp. 160 € 7
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