giovedì 24 gennaio 2019

L'amore alla liberazione, malato

È l’aprile del ’45, i lager sono via via liberati, all’arrivo dei convogli di internati a Parigi si redigono le liste dei sopravvissuti, Marguerite Duras le segue con apprensione: come giornalista, si procura le liste per pubblicarle sul suo giornale, ma è anche moglie di un deportato, Robert L. (Leroy, nome in codice nella Resistenza: è lo scrittore Robert Antelme). “Il dolore” è il racconto dell’attesa, e poi, dopo il fortunoso salvataggio di Robert, di una convalescenza lentissima, tra la vita e la morte. Che si compirà, un paio di estati dopo, a Bocca di Magra, ospiti di Ginetta e Elio Vittorini. Dove Robert riesce ad alzarsi dalla sdraio e avvicinarsi al mare, accompagnato da questa riflessione di Marguerite: “Non è morto al campo di concentramento”.
Un racconto di espiazione. Che Duras finge di avere redatto giorno per giorno a suo tempo, e ritrovato per caso nel 1984, quando lo pubblica. Quando Antelme è vecchio e malandato – morirà qualche anno dopo. Marguerite lo ha cercato, salvato e curato col suo amante, D.(Dyonis Mascolo), che poi ha deciso di sposare. E a Robert che le chiede se dopo il divorzio potrà rivederla, racconta, ha risposto di no. A Bocca di Magra in realtà Antelme era già l’autore celebrato di un classico sui lager nazisti, “La specie umana”, uscito nel 1947 - che Vittorini tradurrà.
La storia vera è ancora più complicata. Marguerite viveva con D. già da due anni, quando Robert l’1 gugno 1944 è stato arrestato dalla Gestapo. Una sorte di ménage à trois, rafforzato dalla comune appartenenza allo stesso nucleo della Resistenza, quello di Mitterrand (“Morland”) – il futuro presidente nel racconto è specialmente efficiente: riesce a evitare l’arresto di Marguerite quell’1 giugno, ritrova Robert a Dachau nel lazaretto degli incurabili, sospetto di tifo, lo trafuga travestito da ufficiale francese, e lo porta in salvo a Parigi. Sposa di Robert Antelme dal 1939, Marguerite con lui aveva avuto un figlio nato morto nel 1942, poco prima, o subito dopo, l’avvio della relazione con Mascolo. Tutt’e tre poi militeranno nel partito Comunista fracese, che nel 1950 si servirà dello “scandalo” per espellerli. La decisione era amturata per l’insofferenza dei tre allo stalinismo: fu presa quando Duras ne fece una critica su “France Observateur”, poi “Le Nouvel Observateur”, il settimanale radicalsocialista. Ma la motivazione fu l’immoralità. Dopo un processo politico in cui l’accusa fu affidata a Henri Lefebvre, allora “filosofo del partito”, allievo dei gesuiti, invano difesa da Edgar Morin. “La mia fiducia nel partito resta intatta”, lei ribattè. Ma anche: “Forse mi trattano da puttana perché non trovano altro”. S’era iscritta nel ‘44 omettendo di dirsi scrittrice, “perché il Partito non amava gli intellettuali1”.
Tutto questo non c’è nel racconto, ma gli dà il tono. Il racconto dell’attesa dei sopravvissuti, a mano a mano che la Germania era occupata dagli Alleati e i prigonieri – politici, S.T.O.(Service Travail Obligatoire, il lavoro forzato) ed ebrei – venivano liberati e rimpatriati. In una Parigi già in mano a De Gaulle, e ai gollisti tronfi, dame di carità in rutilante divisa, coi gallon, e il disprezzo per la gente comune. Poi racconto del salvataggio del morto vivente Robert – “quando c’è il sole, si vede attraverso le sue mani”. Grazie a D., “il suo migliore amico”.
Le vicende reali dietro i due racconti purtroppo non sono come Duras le presenta. E questo, sapendolo, ne rende la lettura indigesta - un saggio breve, a firma Gabriel Jacobs, sul “Journal of Romance Studies”, n. 2, 1997, “Spectres of Remorse: Duras’s War-Time Autobiography,” dice la raccolta “una prolungata espiazione della colpa”. Ma la lettura vergine dei fatti reali, come il film “La douleur” l’ha trascitta in immagini, o forse proprio per questo, per il camuffamento, sfiora il capolavoro.
“Il dolore” è assortito da cinque altri racconti, del tipo venuto in voga negli anni 1980, della trasgressione con collaborazionisti, delatori e miliziani – specie non più bandita ma gente come noi, “che aveva le sue ragioni”. “Il Signor X., detto qui Pierre Rabier”, è dell’infatuazione che Marguerite corre col francese della Gestapo che ha arrestato Robert. Un romanzo breve. Che Duras ha la tentazione di allargare, il francese gestapista facendo “probabilmente” tedesco, con un nome falso preso da un congiunto morto, che lavora come francese per la Gestapo perché ha carichi pendenti in Germania - ma poi avrà pensato che non poteva fare i tedeschi della Gestapo stupidi. “Rabier” ammira Marguerite perché la sa scrittrice, ha visto un suo romanzo sul tavolo di Robert quando lo ha arrestato. E ha tutto pronto, “l’impero vincerà”, per fare il libraio d’arte. Sono i mesi di giugno e luglio 1944, i tedeschi hanno deciso di lasciare Parigi – la capitale sarà liberate ad agosto – ma “Rabier” porta Marguerite per ristoranti e bistrò stracolmi di ogni ben di Dio malgrado i cinque anni già trascorsi di guerra, frequentati dai tedeschi e dai francesi filotedeschi.
Seguono testi che Duras vuole “sacrés”, e avvenuti. In uno, “Albert des Capitales”, tortura un informatore dei tedeschi. In due, “Ter il miliziano” e “L’ortica spezzata”, ha “voglia di farci l’amore”, col miliziano – ma è un informatore - giovane menefreghista, anche davanti alla morte. L’utimo, “Aurelia Paris”, è “inventato, letteratura”: un omaggio, d’“amour fou per una piccola ebrea abbandonata”.

Marguerite Duras, Il dolore, Feltrinelli, pp. 160 € 7

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