Un film claustrale, d’immagini
sfumate, sfuocate – l’unica solare è la fuga dei tedeschi da Parigi (e il mare,
da ultimo, un giorno di libeccio, alla foce del Magra sotto Monte Marcello). È l’aprile
del 1945, gli Alleati sfondano ovunque in Germania, gli internati ritornano, attesi
da moltitudini di donne, ma non c’è festa.
Un’attesa che è un racconto risarcitorio,
o di espiazione, della propria Marguerite Duras, dedicato a un Frèdéric
Antelme, che potrebbe essere il figlio nato morto di Marguerite e Robert. È l’attesa
del ritorno del marito Robert Antelme: un’attesa disperata ma ambigua, di sensi
di colpa, vivendo già l’autrice con Dyonis (Mascolo), amico di Robert e suo
compagno nella rete di Resistenza di Mitterrand – il quale s’incaricherà personalmente
di ritrovare Robert ancora vivo a Dachau nel sttore moribondi, in quarantena
per sospetto tifo, e di trafugarlo alla libertà e alla rinascita. “Sì, Robert non
è morto a Dachau” è la conclusione. Dopo che lei gli ha detto di voler
divorziare, per fare un figlio (perché attende un figlio, n.d.r.) con Dyonis, e
ha risposto no alla sua richiesta di continuare a rivedersi. Quarant’anni dopo,
cinque prima della morte di Antelme, Marguerite Duras “ritrova” questo vecchio
testo, il racconto è in forma diaristica, come contemporaneo ai fatti, e lo pubblica.
Il film utilizza nella prima
parte uno dei racconti che Duras aveva aggiunto a “La douler”: “Monsieur X,
detto qui Pierre Rabier”, sul francese della Gestapo che li ha arrestati –
Marguerite è sfuggita all’arresto per l’intervento in extremis di Mitterand. In
una versione già anni 1980, post “Portiere di note”, il film di Liliana Cavani,
e Pasolini di “Salò Sade”, sull’ambiguità del male.
Un film semplice, che ripete
pari pari i racconti di Marguerite Duras, e complesso: sa dare forma alle
paure, forzate, e alle ambiguità della protagonista, pur senza scalfire il
senso di tragedia che è in questa liberazione, il senso del titolo: il dolore
dell’attesa e anche della sua soluzione.
Emmanuel Finkiel, La douleur
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