Arte - È dell’inimicizia, più che dei
manufatti estetici? Giuliano Briganti ne dà incontestabile-… testimonianza negli articoli raccolti dalla
sua sposa Laura Laureati sotto il titolo – satirico? - “Affinità”. In tutti gli articoli c’è una rissa, un
odio, un dispetto. Ricordando, per esempio, Argan, di cui Briganti è stato
amico, storico dell’arte da lui apprezzato: “È difficile ignorare che si
configurò allora nel campo dei nostri studi lo schieramento di due parti
avverse che si estese, dal campo specifico della storia dell’arte,
all’università, e di conseguenza ai concorsi universitari, all’editoria, alle
rubriche dei giornali e delle riviste, ai rapporti con l’arte contemporanea e a
qualsiasi spazio dove l’arte anche marginalmente potesse entrare in campo”. Il
campo di Roberto Longhi, di cui Briganti era stato l’assistente, il campo di
Lionello Venturi, patrono accademico di Argan.
Argan Briganti un po’ lo assolve,
Venturi no: “Ho potuto apprezzare tanti suoi scritti sul Settecento e
sull’Ottocento che anche hanno fato parte della mia formazione. Il che non
potrei dire davvero per gli scritti di Lionello Venturi”. Che, va aggiunto,
sabotò all’origine, e quindi per sempre, la carriera accademica di Briganti,
discepolo di Longhi: confinato all’università allora di terz’ordine, un
esamificio, di Siena, Briganti arriva a Roma solo nel 1983, a 65 anni, relegata
a Magistero – oggi Terza Università.
Più in là, a proposito dell’amicizia con
Zeri, quarantennale, la trova e la dice unica in questo senso: “Le lunghe
amicizie (chi non lo sa?) sono molto rare fra gli storici dell’arte. Siamo
abituati piuttosto alle lunghe inimicizie, così lunghe che vanno anche al di là
della morte e si ereditano, come quelle degli antichi clan scozzesi”.
La faziosità è fortissima, come si sa, nel mondo intellettuale, che si
penserebbe lontano – la cultura – se non immune da beghe, ritorsioni, vendette.
Anche perché ha poco da dividere, soldi, incarichi, prestigio. E più aspra è
nella vita accademica, che in quella culturale è ora la più indigente - ma la
guerra si sa è senza fine tra poveri.
Dante – Islamofobo più che
islamico, come è giusto. In quanto tale si ripropone per uno studio, che si vuole
affascinante come un romanzo, di un quadro del Maestro di Memphis, un allievo
di Filippino Lippi, alla National Gallery di Londra, dov’è conosciuto come
“L’adorazione del vitello d’oro”. La filologo Roberta Morosini, dell’università
americana di Wake Forest, sarebbe riuscita a farne, in quattrocento pagine, “Dante, il Profeta e il Libro: la leggenda del Toro dalla Commedia a
Filippino Lippi, tra sussurri di colomba ed echi di Bisanzio” (L’Erma di Breitschneider), una
appassionante, se non persuasiva, allegoria anti-islamica. Morosini era già nota
per essersi posto il problema del perché l’islam, che Tommaso d’Aquino presenta
nella “Summa contra gentiles” come un’eresia cristiana, sia da Dante
considerato invece uno scisma, poiché mette Maometto nel canto XXVIII dell’“Inferno”
tra i seminatori di divisioni.
C’è differenza sostanziale, dal punto di
vista politico, tra eresia e scisma? Ma, poi, ogni critica del Dante anti o
filo islamico non tiene conto che cristianesimo e islam erano in guerra perpetua,
al suo tempo, da almeno cinque secoli. In Spagna, in Sicilia, in Calabria, in Puglia,
sulle coste liguri e anche toscane, e un po’ ovunque – per non dire delle
crociate. Con qualche punta di interesse a Palermo, al tempo di Federico II, e
poi in Spagna, dove Brunetto Latini si esercitò come arabista, ma in un
quadro ostile – anche da parte islamica.
Sull’anti-islamismo di Dante, specificamente
suo cioè e non del contesto e dell’epoca, la tesi più convincente è
dell’accademico della Crusca Mahmud Salem Elsheikh, studioso egiziano allievo a
suo tempo del filologo Contini, in un saggio, “Lettura (faziosa) dell’episodio
di Muhammad Inferno, XXVIII”, nei “Quaderni di Filologia Romanza”, 2015, pp.
263-299. Elsheikh ricorda e documenta l’ovvio: l’immagine nemica di Maometto
nella pubblicistica medievale – e anche successiva, sembra evidente – tanto
ignorante quanto ostile: mago, capomafia, monaco intrigante (uno che briga per
il patriarcato di Gerusalemme…). Nello specifico del canto XXVIII dell’“Inferno”,
Elsheikh segnala due accostamenti rivelatori, tra i “creditori colpevoli”, di
Maometto col maestro di Dante ripudiato Brunetto Latini, corrivo panarabista,
in Spagna e a Firenze, e col poeta
provenzale Bertran de Born, che il “De vulgari Eloquentia” aveva segnalato come
“il maggiore cantore delle armi”. Maometto è in compagnia dei due ripudi culturali
maggiori di Dante. Che qui sarebbe dunque particolarmente cattivo per la
“sindrome del debitore” – da qui anche il “contrappasso”, hapax del poema.
Henry Miller – L’infinita superiorità di
Henry Miller su Kerouac” è tema di lunghe discussioni notturne del giovane Paul
Auster (“Diario dall’interno”) con i suoi amici a New York, e con la scrittrice
Lydia Davis, che sarà la sua (prima) moglie.
Nizan – L’autore di “Aden Arabie”,
col definitivo “Avevo vent’anni. Non permetterò a nessuno di dire che questa è
la più bella età della vita”), sopravviverà di poco, una quindicina d’anni
ancora, il partito Comunista francese avendolo scomunicato a morte. Nel 1939 fu dichiarato da Aragon e dal Pcf una spia e un
traditore. Un delatore, esattamente, “donneur”,
reo di avere criticato il patto
Hitler-Stalin. Nizan andò volontario in guerra a trentacinque anni e morì a
Dunkerque.
Sartre, che ne era
l’amico del cuore, formavano la coppia “Nitre-Sarzan”, i due occhialuti della
classe 1905 all’École Normale Supérieure, ne scrisse in morte un racconto
nostalgico, che non pubblicò.
Scrittura – Era all’origine risentita come
il digitale oggi? La diffidenza e le obiezioni al digitale sono curiosamente le
stesse che Socrate poteva argomentare nel “Fedro” quando il dio inventore di
Naucrati, Theuth, idea i numeri – il calcolo, la geometria, l’astronomia, i
giochi della dama e dei dadi - e la scrittura. Al re dio dell’Alto Egitto
Tamos, che deve disporne l’utilizzo, Theuth loda in particolare la scrittura:
“Ho scoperto un “farmaco” per la memoria e la saggezza”. Farmaco in greco è
“pozione magica”, che è insieme cura e veleno. Ma Thamos obietta - preveggente?:
“Quelli che scrivono indeboliranno l’esercizio della loro memoria, diventeranno
dimentichi, si baseranno su segni esterni della scrittura invece che sulla loro
capacità interna di ricordare le cose. Hai scoperto un farmaco per rammentare,
non per la vera memoria. Quanto alla saggezza, tu offri agli studenti la mera
apparenza di essa non la realtà. Riceveranno molte cose da te ma senza adeguata
istruzione. Sembreranno conoscitori mentre sono piuttosto ignoranti, e sarà
difficile andarci d’accordo - esibiranno la presunzione della saggezza invece
di essere realmente saggi”
Vita
accademica - Non
ha memorie grate. Si penserebbe il contrario, tra addetti al pensiero e alle
sue applicazioni, immuni dal bisogno in quanto grand commis pubblici, appassionati alla formazione. È invece luogo
e focolare di frustrazioni. E le frustrazioni non sono battaglie (perse) di
idee, ma ripicche, gelosie, invidie. Di incarichi, cattedre, promozioni,
nepotismi, mafie. Per la divisione del poco – il “bottino” si può dire
irrilevante: un palazzinaro, anche di un solo palazzo, guadagna di più che un
accademico in tutta la sua carriera, con lunghe vacanze e senza gastriti. Non
l’Olimpo ma una guerra dei poveri. Usavano un tempo le celebrazioni della vita
accademica, ora le esecrazioni.
letterautore@antiit.eu
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